complessati

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Avere una band che compone e suona pezzi originali e di propria produzione costituisce in sé il massimo dell’esperienza umana. Non credo ci sia nulla di simile al mondo: persone che si incontrano e intraprendono un percorso artistico, talvolta lungo più decenni, durante il quale si trascorre tantissimo tempo insieme in ambienti spesso fatiscenti con degli strumenti in mano e con l’obiettivo di creare, arrangiare, registrare ed eseguire dal vivo musica per il proprio e l’altrui compiacimento.

L’arte di gruppo, rispetto all’arte individuale, è soggetta anche alle dinamiche della relazione tra le persone, scazzi compresi. Per questo, al netto di svariate eccezioni – che se volete potete riportare qui in calce – i risultati vanno ricondotti a una categoria a sé rispetto alla musica composta da singoli e, lasciando perdere i gusti personali, sono quasi sempre sorprendenti.

La musica di una band, in poche parole, ha qualcosa in più rispetto a quella di un solista. Ho formato la mia prima band – nata con una comunità di intenti sottoscritta sin dalla prima prova tra tutti i componenti – a quattordici anni (la seconda band della mia vita, a essere sinceri, ma nella prima ero poco più che un sostituto). Un gruppo di ragazzi con i quali ho vissuto una straordinaria storia di amicizia e di crescita subordinata alla musica, e vi posso assicurare che un’esperienza così totalizzante non l’ho mai più provata, nella vita.

Tutto questo per dire quanto siano importanti i gruppi (o almeno quanto lo erano, visto che adesso tutti suonano con il MacBook e l’autotune da soli, chiusi nelle proprie camerette) e quanto siano significativi nella musica italiana che, da sempre, è principalmente un club esclusivo per gli interpreti singoli, supportati nel back-end da compositori e parolieri lobbisti. Per avere una band e fare musica cantata in italiano ci vuole una bella faccia tosta e una cospicua scorta di sicurezza di sé, considerata la concorrenza d’oltremanica e d’oltreoceano. Un aspetto che da sempre suscita in me un fascino e un’appeal senza confronti. Ma veniamo al dunque.

Era da tanto che aspettavo la puntata di Techetechetè andata in onda ieri sera. Voglio dire, non esiste una programmazione di quello che si vedrà volta per volta a Techetechetè – anche se sarebbe bellissimo averla – ma era chiaro che, prima o poi, qualcuno avrebbe dovuto affrontare la più annosa delle questioni, e cioè che che la musica italiana non è solo Mina, Celentano e i cantautori, ma esistono anche i gruppi. E in Italia, anche se pochi lo sanno, esiste una lunga tradizione di band vecchia almeno quanto Shel Shapiro. Non a caso, Techetechetè ieri sera si intitolava proprio “50 anni di gruppi”.

Se l’avete visto però, malgrado gli oltre 60 minuti di immagini di repertorio, avrete compreso quali sono i limiti della nostra tv e del canale più democristiano dell’emittente pubblica e della gente che ci lavora. Anche se tra gli anziani di oggi che seguono RaiUno a quell’ora di sera ci sono anche quelli che, nei primi anni 80, pogavano con cresta e anfibi sotto il palco dei CCCP, una puntata in grado di coprire in modo equidistante tutte le passate e presenti decadi e tutti gli strati socioculturali della canzone italiana dei gruppi (dai più mainstream ai più alternativi, per farmi capire dai Pooh ai CCCP) è pressoché impossibile.

Bisogna ammettere che la musica chiamiamola alternativa – che nell’immaginario collettivo è principalmente rappresentata da band – è stata ampiamente accettata nel palinsesto culturale nazionalpopolare. Ma c’è certa musica alternativa, a partire proprio dai CCCP, che alla RAI – archiviata la trasmissione musicale più bella di tutto il mondo mondiale che è stata “DOC” – non passerà mai.

E spero che sia chiaro a tutti che l’unica persona nel nostro paese in grado di definire una scaletta completa e adatta a uno speciale sui gruppi italiani di tutti i tempi è colui che sta scrivendo questo post. Non troverete mai un appassionato di musica più esperto e competente e umile di me nel settore dei gruppi italiani. Ho pensato quindi di lasciarvi alcune considerazioni su quello che avete visto nella puntata di ieri di Techetechetè, sperando che quelli di Techetechetè mi chiamino, prima o poi, a scegliere le cose da trasmettere. E, se non l’avete ancora visto, il programma è disponibile su RaiPlay qui per sette giorni. Guardate la puntata in questione e poi ditemi se non ho ragione a scrivere quello che state per leggere. Ecco che cosa ho visto per voi.

Elio e le storie tese a Sanremo: il fatto che uno speciale sulle band inizi con un gruppo di rock demenziale la dice lunga sulla considerazione per il rock in Italia. Il consiglio che la RAI ci dà è che, tutto sommato, i gruppi non vanno presi sul serio, meglio riderci su. E comunque avrei scelto un’altra apparizione degli Elii, a partire da “La terra dei cachi” o una delle numerose canzoni storpiate, come orchestrina fissa, in quel programma con la Dandini di qualche anno fa di cui ora mi sfugge il nome. Googlatelo per me. Però qualcuno mi spieghi perché Elio sì e gli Skiantos no, tanto per dare il via alla polemica.

Anima mia dei Cugini di Campagna da vecchi: ora, potete amare o odiare questa canzone, ma spiegatemi il senso di non utilizzare uno dei millemila passaggi RAI ai tempi della pubblicazione del brano, con il gruppo in formazione originale? Vedere un banale ripescaggio a colori, con gente in studio che negli anni settanta non era nemmeno nata, stride troppo con i toni in scala di grigio della canzone.

Litfiba – Il mio corpo che cambia: ecco, lo sapete, per me i Litfiba già con “17 re” iniziavano a mostrare le loro velleità rockettare rispetto al post-punk degli esordi. Figuriamoci il periodo anni 90. Questo dimostra quello che sostenevo prima, e cioè che l’Italia ha paura della musica underground del mio decennio preferito. Che cosa vi spaventa di “Eroi nel vento” o di “Guerra”, canzoni ampiamente documentate negli archivi della RAI?

I Collage di “Tu mi rubi l’anima” è il primo di una lunga serie di apparizioni in programmi tv di musica in playback prima dell’avvento del monoscopio delle prove tecniche di trasmissione a colori. Oggi siamo abituati – meno male – al live anche in situazioni complessissime come Sanremo o il concertone del Primo Maggio. Vedere gente che canta senza microfono e che suona con strumenti nemmeno accesi o collegati al mixer anche per finta ci fa ridere. Stesso discorso – anche se di qualche anno prima – per “Donna felicità” dei Nuovi Angeli. Di questa canzone, di cui possiedo il 45 giri sopravvissuto alle numerose e barbare riproduzioni nel mangiadischi di mio nonno, è curioso l’andamento da polka e quel giro di basso così ingenuo che trasmette un background da balera. Su questa linea, nell’ordine, vedrete anche le esecuzioni finte di “Senza luce” dei Dik Dik (peccato, con quel giro di Hammond), “Io per lei” dei Camaleonti, “Ho in mente te” dell’Equipe 84, “Pugni chiusi” dei Ribelli di Demetrio Stratos (che rabbia, mi aspettavo gli Area e invece picche), “C’è una strana espressione dei tuoi occhi” dei The Rokes. Mal con i suoi Primitives e i New Dada, purtroppo, risultano non pervenuti.

Per capire meglio che cosa intendo, comparate queste esibizioni di cera con quelle in carne, ossa e sudore della “Formula Tre”, qui presente con quell’assurdo pezzo del salame dai capelli verde rame, dei Pooh che, con tanto di orchestra e di Riccardo Fogli, eseguono “Noi due nel mondo e nell’anima”, “Io vagabondo” dei Nomadi, “Proposta” dei Giganti (quanta tenerezza e ingenuità a cappella), “Bella da morire” degli Homo Sapiens o della splendida apparizione della PFM con l’intramontabile “Impressioni di settembre”. 

Certo, dal punto di vista della resa del suono c’è un abisso con i Bluvertigo a Sanremo che suonano “L’assenzio” – una delle vette della musica in tv – o con i Negramaro di “Mentre tutto scorre”, ma erano altri tempi e altri impianti di amplificazione.

Su “50 special” dei Lunapop non ho nulla da recriminare, un capop-lavoro che ha pieno diritto di stare tra le grandi come, più avanti, “Dedicato a te” delle Vibrazioni. Non che mi strappi i capelli, ma oggettivamente sono pezzi da novanta, spero che vi sia arrivato il gioco di parole.

La quota generazione Z e gente che biascica in corsivo – ammesso che fosse davanti alla tv – sarà stata soddisfatta dalle recentissime esibizioni sanremesi dei tanto chiacchierati Maneskin di “Zitti e buoni”, dei Pinguini Tattici Nucleari con “Ringo Starr” e de Lo stato sociale con “Una vita in vacanza” con tanto di vecchia che balla a corredo. Tutto il panorama indie e indie rock del nuovo millennio è stato, come facile immaginare, saltato a piè pari. Ne riparleremo nei Techetechetè dell’estate 2052.

Nella categoria dei meno rappresentativi o, meglio, band che io avrei omesso, si sono visti i Velvet quando scimmiottavano i Blur con “Boy Band” (al limite, piuttosto, avrei scelto “Funzioni primarie”), la Schola Cantorum con “Lella”, che fa sentire ancora più forte l’assenza dei Delirium, o i Santo California, in quella ballad strappa-maroni che è “Tornerò” e che suona così patetica, oggi che nessun maschio etero rischia più di esser fagocitato dalla leva obbligatoria.

Ci sono stati poi dei clamorosi svarioni di selezione. Spiegatemi il senso di passare, dei Negrita, il loro pezzo più brutto, “I ragazzi stanno bene”, o “Quella carezza della sera” dei New Trolls che avrà avuto successo e tutto quanto ma è a rischio diabete, per non parlare di “Paolo maledetto” che è la composizione meno rappresentativa del Banco, o ancora della bruttissima “L’uomo che ride”, forse il punto più basso toccato dai Timoria di Francesco Renga.

Poi, finalmente, un inatteso regalo: parte “Contessa” dei Decibel in una versione alternativa rispetto alle solite che si vedono in tv. Il brano è in playback ma Ruggeri canta dal vivo ed è importante perché, benché sia una canzonetta da Sanremo come tutte le altre, è il brano che più di ogni altro dà inizio agli anni ottanta della musica italiana. Mi sarei aspettato di vedere anche i Krisma, per dare una certa continuità, e invece no.

Ma il vero tripudio della trasmissione, inutile nasconderlo, è stata l’esibizione finta de Le Orme alla finale del Festivalbar 1976 all’Arena di Verona con “Canzone d’amore” (episodio su cui non mi dilungo, ma se volete saperne di più ne parlo qui).

La scelta di “Niente insetti su Wilma” dei Denovo – poco più che una facezia in quell’apoteosi creativa che si è consumata tra la metà e la fine degli anni ottanta – ha reso ancora più assordante l’assenza di band come (ripeto) i CCCP, i Neon, i Diaframma di “Siberia” e tutti gli altri testimoni di uno dei periodi più effervescenti della musica italiana. Allo stesso modo in cui, in rappresentanza del decennio successivo, che dal punto di vista musicale non teme confronti, non si è vista nemmeno l’ombra di Almamegretta, Subsonica, CSI, Ustmamò, Scisma e Afterhours, giusto per fare i primi nomi che mi vengono in mente.

Non avete notato nulla? Allora ve lo dico io: fino a tre minuti dalla fine del programma, sullo schermo si sono avvicendati solo uomini. D’altronde, nel nostro paese, almeno fino a pochi anni fa, perché mai le ragazze avrebbero dovuto fare musica, o addirittura dividere il palco con altri membri di un complesso rock o pop? Per questo, dulcis in fundo, la puntata di Techetechetè dedicata ai gruppi si è cavallerescamente chiusa con i Matia Bazar. E, certo, perché riproporre un brano come “Ti sento” o “Elettrochoc”, con un testo composto da parole e frasi di senso compiuto, quando si può trasmettere “Cavallo bianco”, l’unica canzone in cui Antonella Ruggiero canta tirudiuà tiruriruriuà?

una storia nota

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PROLOGO

Non ho mai capito che cosa abbiano in comune l’interruzione di energia elettrica per un blackout e l’antifurto delle villette ubicate nella via dietro casa mia. Se è fatto apposta, se gli antifurto devono suonare quando manca la corrente, non mi sembra una buona intuizione e nemmeno una best practice di ingegneria. Perché sono stati programmati per dare l’allarme quando si spegne tutto? I ladri, quando si introducono nelle abitazioni altrui, come prima cosa staccano il contatore? Mi sembra una pensata piuttosto ingenua.

Eppure vi assicuro che è proprio così: manca la luce e si propaga un’intera orchestra di sirene proprio come quando i cani, chiusi nei giardini delle stesse villette, abbaiano con effetto a cascata, quando passa qualcuno con un loro simile al guinzaglio e si avvisano reciprocamente del pericolo a partire dal primo, il più piccoletto, il più cagacazzi che abita proprio sotto la finestra della cameretta di mia figlia, uno di quei cani di taglia infima, isterico e dal timbro acutissimo e nervoso che si fa sentire senza interruzione di continuità, fino all’ultimo, il più grosso di tutti, in fondo alla via.

Non sono l’unico a pensare che si tratti di un errore insito in qualche sottomarca di antifurto. Una svista di chi li ha programmati, una riga di codice con un bug che il sistema interpreta come IF manca l’alimentazione elettrica AND si attiva il gruppo di continuità THEN fai casino. L’inefficacia dei sistemi di allarme di questo tipo è sotto gli occhi di tutti, per non dire sotto le orecchie di tutti. L’aggravante è che possono attivarsi in piena notte mentre il proprietario si trova in vacanza dall’altra parte del mondo. L’estate è torrida, tutti sparano i condizionatori al massimo, l’offerta di energia non è sufficiente a soddisfare la domanda e la rete di distribuzione collassa. Ai tempi del global warming questa ormai è la prassi e dobbiamo farcene una ragione. Si blocca tutto, si spegne tutto, e si avviano le sirene degli antifurto delle villette, una dopo l’altra.

In piena notte, ma forse l’ho già detto. I proprietari delle villette sono dall’altra parte del mondo, anche questo l’ho già detto, e non possono correre a porre rimedio utile alla situazione. Io mi aspettavo addirittura che suona l’antifurto e pochi secondi dopo arriva una pattuglia della Polizia, ma forse vedo troppe pubblicità della Verisure. Invece le sirene vanno avanti indisturbate quanto i ladri per quasi un’ora. Finiscono il loro ciclo, si interrompono qualche minuto, giusto il tempo di riaddormentarmi, e poi ricominciano con la stessa sfrontatezza.

Poi la luce torna, perché nel frattempo ci siamo svegliati tutti e il black-out ci ha fatto preoccupare per le scorte accalcate nel freezer e il modo in cui cucinarle tutte, prima che si deteriorino, prima che siano da buttare, un tarlo che toglie il sonno anche ai più ottimisti. Invece la luce torna, dicevo, ma dopo un po’ salta di nuovo e così riprende anche la sinfonia.
A dire la verità non so come vada a finire, e cioè se mi riaddormento prima che le sirene tacciano definitivamente, preso per sfinimento dall’assuefazione a quel frastuono continuo, un po’ come quando dividi il letto con qualcuno che russa, oppure se prima ritorna il silenzio perché nel frattempo sono rientrati i proprietari dall’altra parte del mondo o è arrivata la Polizia o è tornata la corrente per non saltare più e quindi, ripristinato il silenzio, ripiombo nel sonno.

Il mattino seguente, al risveglio, resta una vaga eco delle sirene dei sistemi di allarme nello sguardo sconvolto dei sopravvissuti a una notte d’inferno, tra i trenta gradi e l’inquinamento acustico fuori da ogni immaginazione. Tra familiari ci si chiede se l’abbiamo sentito, se ci ha svegliati, se poi siamo riusciti a riprendere sonno. Fuori, l’innaturale silenzio della notte, interrotto solo dalle sirene, ha lasciato il posto al consueto bordone di operosità tipico della periferia milanese. I carpentieri del bonus 110 che si danno ordini in arabo dai piani dei ponteggi, le macchine tagliaerba impiegate come ammortizzatore sociale, gli adolescenti sui motorini perché la scuola è finita, gli anziani che gli sacramentano dietro in dialetto.
Questo è quello che succede generalmente. Stanotte, però, dev’essere andata in modo diverso perché già da stamattina, mescolato ai rumori di una tipica alba di periferia, si percepiva qualcosa di più. Qualcosa di anomalo.

QUALCOSA DI ANOMALO

Ma facciamo un passo indietro. Intanto ieri, tra le tracce dei temi dell’esame di stato, è stata somministrata come proposta l’analisi di un testo tratto da “Musicofilia” di Oliver Sacks. Per vostra comodità riporto il brano oggetto della prova qui di seguito:

«È proprio strano vedere un’intera specie – miliardi di persone – ascoltare combinazioni di note prive di significato e giocare con esse: miliardi di persone che dedicano buona parte del loro tempo a quella che chiamano «musica», lasciando che essa occupi completamente i loro pensieri. Questo, se non altro, era un aspetto degli esseri umani che sconcertava i Superni, gli alieni dall’intelletto superiore descritti da Arthur C. Clarke nel romanzo Le guide del tramonto. Spinti dalla curiosità, essi scendono sulla Terra per assistere a un concerto, ascoltano educatamente e alla fine si congratulano con il compositore per la sua «grande creatività» – sebbene per loro l’intera faccenda rimanga incomprensibile. Questi alieni non riescono a concepire che cosa accada negli esseri umani quando fanno o ascoltano musica, perché in loro non accade proprio nulla: in quanto specie, sono creature senza musica. Possiamo immaginare i Superni, risaliti sulle loro astronavi, ancora intenti a riflettere: dovrebbero ammettere che, in un modo o nell’altro, questa cosa chiamata «musica» ha una sua efficacia sugli esseri umani ed è fondamentale nella loro vita. Eppure la musica non ha concetti, non formula proposizioni; manca di immagini e di simboli, ossia della materia stessa del linguaggio. Non ha alcun potere di rappresentazione. Né ha alcuna relazione necessaria con il mondo reale. Esistono rari esseri umani che, come i Superni, forse mancano dell’apparato neurale per apprezzare suoni o melodie. D’altra parte, sulla quasi totalità di noi, la musica esercita un enorme potere, indipendentemente dal fatto che la cerchiamo o meno, o che riteniamo di essere particolarmente «musicali». Una tale inclinazione per la musica – questa «musicofilia» – traspare già nella prima infanzia, è palese e fondamentale in tutte le culture e probabilmente risale agli albori della nostra specie. Può essere sviluppata o plasmata dalla cultura in cui viviamo, dalle circostanze della vita o dai particolari talenti e punti deboli che ci caratterizzano come individui; ciò non di meno, è così profondamente radicata nella nostra natura che siamo tentati di considerarla innata […].»

Mi è venuto spontaneo quindi il mash-up tra questo spunto, che, se mi fossi trovato tra i candidati, avrei approcciato sulla carta senza indugi (anche se l’analisi della poesia di Pascoli <3), e il discorsetto che, sempre ieri – che giornata intensa! – mi stavo preparando per il prossimo collegio docenti, quello a conclusione dell’anno scolastico, quello in cui dovrò relazionare circa il progetto di musica che abbiamo portato a termine noi delle terze la scorsa primavera con un esperto esterno.

In poche parole, vorrei introdurre il mio intervento riportando una considerazione espressa dal mio collega insegnante di musica della secondaria in occasione del saggio delle classi di fine anno a cui ho assistito per intero (21 classi, due o tre o quattro brani a classe eseguiti con metallofoni e flauti dolci e qualche guizzo come basso elettrico, chitarra e tastiere) perché mi è stato richiesto di fare le riprese video.

Il prof di musica ha elogiato le sue classi, mettendo però in guardia gli spettatori (non più dei due genitori per alunno, fratellini e sorelline ammessi in via eccezionale come extra) sul fatto che quanto avrebbero assistito era frutto di un programma svolto lungo non più di due ore la settimana, a cui si deve aggiungere il Covid – anche se le lezioni quest’anno si sono svolte sempre in presenza, i casi di classi dimezzate e le assenze prolungate sono stati tantissimi – e che, parole sue, i ragazzi arrivano dalla primaria senza aver fatto nulla di musica. Che botta.

CHE BOTTA

A caldo, questa considerazione mi ha offeso moltissimo. Io, che ho un passato da musicista anche se non certificato (e questa parentesi che ho aperto e in cui sto scrivendo è dedicata proprio al fatto che in Italia l’unico canale accademico per formare esperti di musica è il conservatorio o poco più), dicevo che io che posso vantare un background di tutto rispetto da musicista, cerco di rifilare la musica ai miei studenti in tutti i modi collegandola a tutte le materie che insegno a partire dalla matematica (tempo/ritmo e numeri e frazioni), dall’inglese (qualsiasi esempio sarebbe superfluo), da scienze (i sensi), dalla tecnologie e la cultura digitale (suonare con i VST e le drum machine e gli innumerevoli sistemi per produrre musica al computer), dall’arte (immagini e musica, quadri e canzoni, ci si potrebbe fare una disciplina a sé), per non parlare dell’ora di musica in cui, a causa del Covid, non si possono maneggiare strumenti, però ascoltiamo e discutiamo a manetta.

Il punto è proprio questo, e ci sono arrivato successivamente, a freddo. Insegnare musica significa principalmente insegnare a suonare. E se i bambini escono dalla quinta primaria sapendo più o meno esprimersi in italiano, più o meno scrivere, più o meno far di conto, più o meno biascicare qualcosa in inglese, la stessa cosa non si può dire per saper suonare uno strumento. E per fortuna che il flauto dolce è considerato superato (anche se non ancora del tutto sconfitto, malgrado siamo nel 2022) ma, anche se non fosse, l’ultima cosa che farei è trasmettere a delle persone l’idea che la musica è quella roba sgradevole, incerta e priva di senso che esce soffiando dentro e mettendo le dita a cazzo su un tubo di legno. Se ne deduce che il mio collega prof di musica tutti i torti non li ha: i ragazzi arrivano dalla primaria senza aver fatto nulla di musica.

I RAGAZZI ARRIVANO DALLA PRIMARIA SENZA AVER FATTO NULLA DI MUSICA
La cosa non ci deve stupire, e l’abbiamo già detto altre volte e perdonate se mi ripeto: chi continua dopo la secondaria di primo grado studierà musica solo al coreutico o forse al liceo che ha preso il posto delle vecchie magistrali, ma non ne sono sicuro. Questo significa che quasi tutti studiano storia delle arti visive, la poesia nella letteratura italiana, mentre la musica sparisce dai programmi. Forse è un’arte di serie B. Però cosa hanno in meno Vivaldi, Puccini, Rossini, Monteverdi e lo stesso Morricone (e mi limito ai compositori italiani, perché se tirassi in ballo Beethoven o Mozart o Bach ciaone proprio) rispetto a Dante, Petrarca, Caravaggio o Michelangelo? Lascio a voi la risposta.

LASCIO A VOI LA RISPOSTA
Tutto questo per dire che il progetto di musica con l’esperto – un tipo davvero in gamba che abbiamo trovato in un modo a dir poco rocambolesco e che ha mescolato musica, danza, teatro e giocolerie facendo letteralmente impazzire i bambini, un vero e proprio personaggio come immaginiamo siano gli artisti di strada, un po’ bohémien, per farmi capire – è andato benissimo e che speriamo che l’anno prossimo possa continuare, magari con lo stesso insegnante perché si sa, per candidarsi ai progetti nelle scuole ci sono i bandi a cui si iscrivono cani e porci e bisogna sempre sperare di essere fortunati perché avere a che fare con gli scarti delle altre professioni è all’ordine del giorno.

Ricapitolando: il discorsetto per il collegio docenti, la traccia sulla musicofilia all’esame di stato, i continui allarmi degli antifurto delle villette che hanno funestato il sonno la scorsa notte. Una combo di eventi che ha generato una conseguenza a dir poco sorprendente.

STAMATTINA SI SONO MANIFESTATI GLI ALIENI

Stamattina si sono manifestati gli alieni, qui da noi, ma ho letto e ho sentito al telegiornale che anche da voi non è andata diversamente. Si sono manifestati in un modo a cui nessuno avrebbe mai pensato e che risulta un po’ essere la summa di tutte le cose che dicevo prima, insieme a un aspetto che sembra tratto da quel celebre film di fantascienza in cui, per parlare con gli extraterrestri, la sceneggiatura prevedeva che gli uomini utilizzassero un sintetizzatore, alla faccia dei chitarristi.

Stamattina, al nostro risveglio, si sono manifestati gli alieni in forma di suono, ma vi giuro che non è colpa mia, non li ho chiamati, è solo che è facile ricondurre questa apparizione (per modo di dire, come vedrete, anzi, come sentite) alla giornata intensa di ieri e alla notte che è seguita.

Gli alieni si sono manifestati nella forma di una nota continua, un si bemolle. Una -fania (mettete voi al posto del trattino la matrice che preferite) a cui nessuno ha dato peso, appena il si bemolle si è diffuso nel chiarore e nel brusio della mattina. Eccoci, ancora un sistema di allarme che suona, ho pensato io, ma scommetto di non esser stato l’unico. Il suono poi è continuato, nessuno si è precipitato a spegnerlo, la Polizia non sapeva dove andare perché il si bemolle continuo si percepisce ovunque e, soprattutto, al momento non si capisce da dove provenga, quale sia la fonte, tanto è omogeneo in ogni angolo del pianeta. Ora chiudiamo gli occhi insieme, concentriamoci sul suono alieno, sul si bemolle, e pensiamo a cosa possiamo fare. Ma non finisce qui.

Warpaint – Radiate Like This

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C’è solo una cosa più sconveniente del mantenere rapporti e contatti virtuali con persone che non la pensano come te in politica, ed è frequentare gruppi Facebook di collezionisti di dischi. Gente che si compra ottanta versioni dello stesso ellepì solo perché ciascuna ha la copertina di una tonalità di blu leggermente differente a seconda della nazionalità di pubblicazione o dell’anno di ristampa o chissà quale altra trovata per allocchi. Se non mi credete, vi sfido a iscrivervi e a farvi un’idea.

L’aspetto più irrazionale di questo comportamento, al netto dei soldi buttati via, è il tempo che richiede poi l’ascolto di tutto il materiale accumulato, senza contare che solo una sega mentale senza precedenti consente di rilevare differenze tra l’una e l’altra copia. E questo ve lo dice uno che, nel suo piccolo, si dà comunque abbastanza da fare. Fondamentalmente compro solo i dischi che mi piacciono ma attenzione, non mi arrogo la superiorità morale rispetto alla deriva ossessivo-compulsiva di cui sopra, ci mancherebbe. Non sono migliore di nessuno. Tanto meno quando acquisto acriticamente qualunque cosa un artista o una band a cui sono particolarmente affezionato pubblichi, ma non più di una release ad articolo. Tra questi, come potete immaginare, considerando l’oggetto di questa recensione, ci sono le Warpaint. Ma cosa c’entra, direte voi, tutto questo con il loro nuovo disco e con il fatto che è facile desumere che l’ho prenotato a scatola chiusa appena ne ho avuto notizia, qualche mese fa.

Vengo quindi al punto. Di base sono ossessionato dalle voci femminili perché il piacere erotico che mi dà in genere la voce femminile non ha eguali. Ha delle frequenze che mi entrano dentro l’orecchio e mi toccano cervello e anima come nessun altro impulso. Molto meglio di vista, gusto, tatto e olfatto. Questo non necessariamente solo nella musica. Da quando sono nato, in famiglia, a scuola e nel lavoro ho avuto la fortuna di riuscire a circondarmi di donne (e il caso mi ha sempre premiato), il cui timbro vocale e la cui parlata da sempre mi appaga i sensi in un modo che non ha mai rischiato eguali.

Potete quindi capire, da fanatico di musica, da essere vivente sensibile in prima istanza in quanto felice proprietario, amministratore e utente di un apparato uditivo (un vero hi-fi a tutti gli effetti) a cui spero di non dover mai rinunciare, potete quindi capire, dicevo, la potenzialità di tutto questo unita al rock. La transustanziazione della voce femminile, che prende corpo nella forma-canzone grazie ai generi musicali che mi piacciono di più, mi permette di raggiungere vette di piacere imparagonabili. Figuriamoci, poi, se insieme alla cantante ci sono pure delle musiciste che la accompagnano. La voce corredata da strumentiste che ne confezionano la resa al meglio, a tutto vantaggio del mio piacere più intimo. Un’orgia di suono. Le Warpaint sono donne e suonano la mia musica preferita. Non chiedo altro. Il quadro ora è completo.

Il fatto è che “Radiate like this” è piombato nella mia vita insieme ad altre tre o quattro nuove uscite di cantanti, interpreti o band guidate da donne – una di queste, per giunta, era la nuova raccolta solista di singoli di Jenny Lee Lindberg, il basso delle Warpaint, uscita in occasione del Record Store Day, pensate che formidabile corto circuito – e la cosa mi ha mandato completamente in tilt.

Perché le Warpaint sono un posto a sé, un’esperienza totale in cui vivere, crescere, viaggiare, credo persino morire, ma non vorrei sembrarvi esagerato o patetico perché, in quei gruppi Facebook di collezionisti di dischi a cui ho fatto cenno sopra, questi toni così enfatici si riservano solo alle pop e rock star trite e ritrite che prestano la loro faccia alle più blasonate enciclopedie, ai trattati di storia della musica o nei meme al servizio di aforismi da tanto al mucchio. Ma i gusti sono gusti, non sono il primo a sostenerlo.

La mia paura è stata, quindi, quella di non riuscire a dedicare l’attenzione che “Radiate like this” richiedesse. Di non essere all’altezza delle Warpaint, questa volta. Di non aver il tempo materiale per lasciarmi permeare da quello che – non avevo dubbi – avrebbe costituito una nuova pietra miliare della mia vita. Di trascurare un rito di cui sono cultore e schiavo e della perdita della ragione che ne sarebbe conseguita. Poi ho trovato la chiave e finalmente sono tornato in armonia nell’esperienza Warpaint. Bastava avere un po’ di pazienza. E ora sono in balia totale delle Warpaint. Se volete vi descrivo brano per brano quello che provo, ma tanto potete comprenderlo da soli e non voglio annoiarvi più del dovuto. Come tutti i dischi delle Warpaint, “Radiate like this” è il disco migliore delle Warpaint. Come tutti i dischi delle Warpaint è il più riuscito, il più maturo, quello della svolta, quello in linea con la tradizione, quello della consacrazione, quello della gloria eterna. Quello che speriamo ne esca un altro presto e che non lascino passare così tanto tempo come tra il penultimo e l’ultimo.

Lasciatemi qui, a chiudermi dentro i dischi delle Warpaint e a gettare la chiave, non chiedo altro. Anche in “Radiate like this” trovo la voce e il suono di mia madre, di mia moglie, di mia figlia, di mia nonna, della mia maestra delle elementari, delle altre donne a cui mi sono legato o che ho frequentato nel tempo. Ci trovo certe intuizioni melodiche che, probabilmente, qualche sinapsi o qualche reazione chimica in fase di sviluppo ha eletto ad archetipo di qualche emozione primordiale che non saprei spiegare, che si rinnova in modo sempre diverso ma sempre fortemente suggestivo e di cui, molto probabilmente, a voi non interessa nulla. Ma, se posso permettermi un consiglio, provate ad ascoltare questo disco. Si chiama “Radiate like this” ed è il nuovo disco delle Warpaint. Non c’è molto altro da aggiungere.

strani sintomi

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Non è scritto da nessuna parte che le canzoni che rimangono nella nostra anima come archetipo emotivo di qualunque cosa – un amore, un sentimento di ribellione, la malinconia, il sentirci invincibili e tutto quello che volete – siano pezzi universalmente individuati come le colonne portanti della nostra cultura. Certo, quando mettiamo a segno qualcosa con successo vorremmo avere un dj universale che fa ascoltare al resto del mondo con un impianto hi-fi in grado di raggiungere tutti gli angoli del creato “We Are The Champions” e cose così, magari abbinato a un video in cui noi vestiamo da re davanti a decine di migliaia di persone a Wembley.

Poi però ognuno di noi ha un repertorio intimo – che magari teniamo alla larga da qualunque istinto di condivisione, la malattia del secolo – fatto di brani da quattro soldi che però, chissà perché, si sono estesi dentro di noi come una macchia di piacere indelebile. Una cosa che poi non sappiamo spiegare a nessuno perché nessun altro, tranne noi, potrebbe capire ma, discutendo di questo, rilancerebbe con la sua, di canzone che gli è rimasta dentro, e che, per noi, non significa altrettanto niente o, nel migliore dei casi, non abbiamo mai sentito.

Dev’essere per questo che, poco fa, mi sono trovato in sogno a casa di Diana Tejera, cantante dei Plastico e autrice di “Strani sintomi”. Se volete qualche coordinata, siamo nel 2001 e il file .mp3 – nel caso migliore – l’avrete salvato nella cartella “one shot” oppure “roba di MTV”. L’avevo rintracciata proprio tramite Facebook, e questo vi assicuro che è successo per davvero, dove ho scoperto che, terminata l’esperienza della band, ha una carriera che prosegue come cantautrice. Nel sogno, invece, visto che mia moglie e mia figlia erano al mare, ho accettato il suo invito a trascorrere un pomeriggio a casa sua in occasione di una sorta di reunion. Il problema era che loro erano ragazzine come ai tempi del video di “Strani sintomi”, malgrado fossero passati ventun anni, per questo sua madre non comprendeva appieno l’interesse di una persona anziana come me per artiste così in erba. A quel happening casalingo per fortuna c’era qualche altro fan affezionato come il sottoscritto, ma non più di una decina di persone intente a consumare patatine e bibite ma tutte desiderose che la band imbracciasse gli strumenti – malgrado la situazione casalinga imponesse rivisitazioni unplugged dei brani – e si mettesse a suonare e cantare la nostra canzone preferita. E, come tutti i sogni migliori, è bastato il primo accordo di chitarra per manifestare tutta la stranezza della scena, destarmi dal sonno e mettere la parola fine al concerto.

batti cinque

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Il 13 maggio è stato il compleanno di Stevie Wonder. Lo so perché lo hanno ricordato a “Il giorno e la storia” su RaiStoria insieme ad altre ricorrenze altrettanto degne di nota. Tra le immagini di repertorio riproposte, mi ha colpito questo suo passaggio come ospite alla nostra tv pubblica. Il cantante e polistrumentista statunitense interpreta la canzone “Solo te, solo me, solo noi”, versione italiana del suo singolo “Yester-Me, Yester-You, Yesterday”, un brano che è stato inciso come cover anche da Giuliano Palma e i Bluebeaters. È incredibile come i nostri connazionali presenti come pubblico in sala si ostinino a tenere il tempo con le mani sull’uno e sul tre, mentre Stevie Wonder – uno che ha sicuramente il ritmo nel sangue – segue l’andamento naturale della canzone, che impone i battiti a tempo sul due e sul quattro. Nessuno si pone il problema di stare dalla parte del torto, probabilmente convinti del fatto che il cantante non li possa cogliere in fragrante. Anche se, lo so per certo, si stava rendendo perfettamente conto che c’era qualcosa che non andava per il verso giusto.

primo maggio, sempre più coraggio

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Il concertone di piazza San Giovanni, tanto quanto Sanremo o l’Eurovision Song Contest, è uno di quegli appuntamenti a cui è impossibile rinunciare quando hai l’ossessione della musica come il sottoscritto. Dopo due anni di smart playing, o tele-esecuzione chiamatela come volete, finalmente musicisti e maestranze sono tornati per mettere in scena il più complesso live dell’anno. Se avete dubbi sulla sua difficoltà organizzativa, vi invito a darvi da fare per recuperare qualche testimonianza. Provate a pensare a uno spettacolo collettivo con così tanti partecipanti, ciascuno con le proprie esigenze tecniche, praticamente senza prove, che va in diretta sulla tv nazionale per quasi dodici ore. Roba da matti. Quello che è certo è che ogni anno lo seguo sempre più malvolentieri, un chiaro segnale che il gap anagrafico tra me e giovani d’oggi si fa sempre più incolmabile. Ecco un veloce resoconto della giornata, almeno fino a quando non ce l’ho fatta più e sono andato a dormire.

GO_A: l’edizione 2022 si apre con una band ucraina, musica interessante e prova che dal Friuli in là hanno tutti l’eurofestival dentro
BANDABARDÒ con CISCO: ci sta, se è il tributo che dobbiamo pagare per vedere un po’ di musica live in tv. Ma “Bella Ciao”?
SINKRO: una merda, probabilmente raccomandato dalla lobby della musica romana
i vincitori dell’1M NEXT 2022: si vede che i talent musicali televisivi hanno depauperato ogni altro concorso se in finale arrivano questi qui
RAMONA FLOWERS: ma.cosa.cazzo
MOBRICI: in quota chitarra e voce che al primo maggio è la morte della musica, il solito indie-inutile
BIGMAMA: la ascolto e mi viene in mente che ci vorrebbe un generatore random di cose da fare quando suoni dal vivo un pezzo su una base che ha una featuring e il cantante ospite non è presente sul palco
CLAVER GOLD: niente male, ma anche lui sulla base. A questo punto potevano risparmiare e non noleggiare la batteria e gli ampli degli strumenti
HU: è quella di Sanremo, ma più che una divinità senza sesso mi sembra una divinità senza voce
ROVERE: finalmente qualcuno sotto i trenta che suona, una specie di Lunapop del nuovo millennio ma in chiave pinguini cosi lì nucleari
VV: volatilissima
ANGELINA MANGO: avevo molte aspettative perché la seguo, in quanto apprezzavo il suo papà. Parla di cose come i walkman che sono entità che non gli appartengono ed è per questo che potrebbe sfondare tra i boomer come me. Ha scritto, come dice lei, un pezzo troppo profondo per il suo target. Si conferma molto raffinata, si vede che c’è una bella produzione, e il pezzo è suonato molto bene
MR. RAIN: ed è qui che mi chiedo: ma sono tutti uguali? Questo ha il coretto con una specie di bambini di Povia che fanno oh sotto, è il primo che fa due pezzi, così penso che dev’essere uno importante e mi chiedo come sia possibile
FASMA: esordisce con quattro AH, l’autotune sul rock fa ribrezzo ma vi giuro che sono uno a cui piace l’autotune. Pensa se fossi stato uno contrario al suo impiego. Mi trovo al cospetto di una specie di Blanco con venature di Achille Lauro, in pratica la sintesi della musica contemporanea. Il secondo brano ha uno sviluppo un po’ più originale, per fortuna.
DEDDY con CAFFELLATTE, un nome che fa paura solo a sentirlo a chi è costretto a cimentarsi con i “Me contro te” quotidianamente., la sola zuppa degli innamorati ragazzini che cantarappano.
MECNA: al millesimo cantante uguale a tutti gli altri inizio ad averne i coglioni pieni. Lui veste però in modo più originale e ha una band. Mi sembra una specie di coma cose ma senza le cose e suona una specie di cover di Raf che non si capisce perché prendere così i ritornelli altrui che già facevano cagare prima.
BRESH: ho perso il conto dei cantarapper, ma quanti ce ne sono? Mi dà l’ispirazione per pubblicare un post su FB con lo sfondo delle merde in volo. Poi però con la canzone dello svuota-tasche è riuscito a sorprendermi. Bravo.
RANCORE: bravo ma pretenzioso, fa rap per adulti ed è fuori contesto, di Caparezza ce n’è uno solo ed è ineguagliabile. In più parla solo a se stesso.
PSICOLOGI: partono con la chitarra, poi la stessa voce biascicata degli altri. Una generazione che, più che l’analisi, avrebbe bisogno della logopedia. Qui capisco che quello fuori luogo sono io, ma sto lavorando e tengo la tv accesa in sottofondo. Il ritornello è gradevole, ma le strofe due coglioni.
VENERUS è il primo decente e ascoltabile della giornata, porta il tizio della lega braccianti sul palco a festeggiare con un reggaettino per i lavoratori e solo per sapersi mettere da parte vince tutto. Poi suona “Redemption Song” anche se non ci arriva con la voce, così fa finta che il microfono non gli funzioni. Nel finale poi si riprende e addirittura si lancia in vocalizzi soul. Bravo.
COMA con le COSE, a me non fanno impazzire perché lui sembra una specie di Alioscia dei Casino Royale e hanno tutti i pezzi che sembrano “sì con riso senza lattosio” in versione downbeat. Poi arringano alla folla e con la seconda canzone mi viene il diabete. Fanno tre pezzi, si capisce che hanno fatto il botto. Il pubblico conosce i pezzi, ed è un bell’effetto.
No, le VIBRAZIONI no, vi prego, anche se finalmente c’è qualcuno che scalda il pubblico ed è triste ammettere che questo compito tocchi a dei vecchi di merda. Però aspettavo Giulia ma Gliulia non è immensamente arrivata. Peccato.
Con LUNDINI e il suo cantautorato demenziale tiriamo un po’ il fiato, anche grazie al TG3 e a tutte le sfortune di questo periodo storico.

LA RAPPRESENTANTE DI LISTA: finalmente si fa sul serio, questa sì che è una band da primo maggio, lei canta benissimo, sono il meglio del presente, sul futuro chi lo sa
MAX PEZZALI: mi fa così cagare che non lo commento nemmeno. Poche cose mi irritano come le sue canzoni.
ARIETE: se si capisse cosa dice potrei anche scrivere due righe. Ribadisco: chitarra e voce al primo maggio NO. Però poi fa un bel discorsetto sull’amore e un po’ si fa voler bene.
COEZ: ritorna la formula rap melodico con la pronuncia delle vocali a cazzo, ed è subito voglia di coricarsi che domani si va a lavorare.
ORNELLA VANONI, un mito punto e basta, qualsiasi cosa faccia. Ma anche se non fosse così anziana. Il fatto è che dovrebbe scegliere canzoni più semplici e con tempi pari. O, se sono pari, non renderli dispari. Un plauso ai musicisti che sono riusciti a starle dietro.
NOTRE DAME DE PARIS: che merda
MARCO MENGONI, una grande voce svilita dai pezzi che fa, è la versione maschile di Annalisa e in più non ha suonato l’unica canzone bella che ha e che è una delle canzoni più belle mai sentite a Sanremo. Sprecatissimo.
CARMEN CONSOLI: conferma il suo stile inutilmente articolato e lezioso che me la rende ostica da sempre. Poi in questa formula “white stripes” con Marina Rei mi trasmette ancora più ruvidezza. Però ho pensato che entrambe hanno suonato nell’edizione del concertone a cui ho partecipato anch’io e chissà se, tra loro, parlano di me. Già me le immagino. “Hei, ti ricordi l’anno in cui ci siamo conosciute? Era l’edizione del Primo Maggio in cui ha suonato quel tizio che ora fa il blogger”.
TOMMASO PARADISO: già dalle prime note capisci che fa musica di merda prendendosi sul serio come nessun altro.
RKOMI: che poi è Mirko al contrario. Ambra cita per lui il testo della canzone popolare di Fossati. Ogni due parole ne salta una perché probabilmente sono parolacce e si autocensura, questo la dice lunga sui suoi testi. Sembra comunque musica semplificata per deprivati, una riduzione dell’arte per persone con gravi problemi di apprendimento. Poi nell’ultimo pezzo addirittura non ce la fa più e salta intere parti di strofa. Io boh.
Su LUCHÈ mi chiedo invece cosa facciano quelli che stanno sul palco davanti alla tavola apparecchiata con dei macchinari incomprensibili mentre i rapper cantano. Io mi porterei qualcosa da leggere. Comunque una merda anche lui. Ha avuto però il grande onore di indurmi a coricarmi, tanto il resto (LUCA BARBAROSSA con gli EXTRALISCIO, MARA SATTEI, GAZZELLE, FABRIZIO MORO che faccio fatica anche solo a scriverlo tanto mi fa cagare, ENRICO RUGGERI, ancora LE VIBRAZIONI e ACE con JOAN THIELE, VENERUS, GEMITAIZ e COLAPESCE) posso anche immaginarlo.

wet leg – s/t

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Stanchi del solito post-punk claustrofobico e di tutti quei cantanti-alfa che si prendono troppo sul serio? Il disco d’esordio delle Wet Leg è quello che fa per voi.

Come al solito ci volevano delle ragazze per dare una regolata ai bollenti spiriti nell’ambiente post-post-post-punk anglofono e riportare sotto a un ragionevole livello di guardia il tasso di testosterone nella musica – oramai fuori controllo – grazie a una sana dose di ironia tutta al femminile. Si chiamano Wet Leg e, in un colpo solo, sono riuscite a 1. risollevarci il morale dopo mesi di lagne depresse, 2. attutire la spigolosità degli aspetti più estremi del genere che professano e 3. ricondurre, con la loro immediatezza, l’indie-rock ai binari un po’ caciaroni che si merita, dopo le molteplici contaminazioni e seghe manieristiche – e i relativi sconfinamenti nelle cerebrali lande del prog e del math rock – di alcuni dischi che, negli ultimi tempi, ci hanno fatto a dir poco gridare al miracolo.

L’aspetto più convincente di questo duo scanzonato – e pronto a farsi in quattro per le esibizioni live – è l’approccio rilassato e un po’ come-viene-viene alla composizione, che è poi un modo di fare le cose tipicamente punk ma privo dell’aggressività, della ricercatezza artistica e di tutti i restanti rimandi agli archetipi del genere (a voi la scelta dell’accezione preferita, visto che parliamo di maschi e di musica e anche di maschi che fanno musica).

Vi sarete infatti accorti che le Wet Leg hanno messo subito in chiaro le cose con “Chaise Longue”, il singolo con cui sono piombate dal nulla in tutte le classifiche, un brano pubblicato ormai nove mesi fa e che ha lanciato il duo originario dell’Isola di Wight oltre le vette dell’hype della musica alternativa. Poco più di tre minuti tutti sullo stesso accordo e un testo zeppo di doppi sensi, a partire dal “Big D” preso a scuola fino al muffin imburrato, dopodichè è lecito chiedersi se, per il nome della band, ci sia una traduzione casta in grado di superare in autorevolezza la più letterale gamba umida.

Qualsiasi altra band sarebbe stata declassata a macchietta, con queste premesse, ma non quella di Rhian Teasdale e Hester Chambers. La naturalezza con cui le due Wet Leg realizzano hit in grado di rientrare fino all’ultima nota nei blasonati canoni della musica più in voga degli ultimi anni è sorprendente. Apprezzerete la fluidità dei brani e la sollecitudine con cui giungono a destinazione senza nemmeno un’incertezza. Per non parlare della varietà delle canzoni, prive di ogni rimando reciproco seppur modellate intorno a un marchio di fabbrica inconfondibile.

Dell’ultima infornata di dischi delle band protagoniste dell’ennesima British Invasion, di certo questo passerà alla storia come l’album più sbarazzino, e la cosa incredibile è che dietro le quinte dei suoni anche qui siede Dan Carey, produttore di Fontaines DC, Geese, Squid, Black Midi. E, credetemi, in “Wet Leg” – il titolo del disco di esordio è omonimo – non c’è un solo pezzo che non abbia la dignità di singolo, a partire da quelli effettivamente pubblicati prima del rilascio di questo straordinario full length.

Tralasciando il tormentone che celebra i fasti delle più prosaiche sedie a sdraio e sul quale oramai si è già detto tutto, pensiamo agli ammiccamenti di “Being in Love” o alla splendida “Angelica”, con il suo riff jangle pop di chitarra e quell’infernale giro strumentale di accordi nel ritornello, che ti si pianta in testa senza tanti complimenti.

E poi che dire di quanto calzi a pennello la citazione del riff di chitarra di “The man who sold the world” di Bowie in “I Don’t Wanna Go Out”, messa in risposta ai versi delle strofe. O il compendio di “New Feeling” e “Thank You for Sending Me An Angel” dei Talking Heads in “Wet Dream”, papabilissimo tormentone alternative per l’imminente stagione estiva. Ma la solare “Convincing”, da questo punto di vista, non è certo da meno.

E anche il lato apparentemente romantico delle Wet Leg, e mi riferisco a “Loving You” e “Piece Of Shit”, sembrerebbe convincente, se i titoli non ci preparassero ad altro. Ma, in generale, a proposito dei testi, non lasciatevi suggestionare dalla sfilza di dichiarazioni di espressioni esplicite davanti ai titoli su Spotify, una lista di E maiuscole che la dice lunga sul loro slang. Come si cantava negli anni 80, le ragazze vogliono solo divertirsi ma, se proprio è necessario forzare un collegamento con il decennio madre di tutto quello che ascoltiamo oggi, il pensiero si spinge fino alle Go Go’s e ai loro videoclip girati sulle berline cabriolet ma molto, molto più garage e con molto, molto meno rossetto. Altrettanto degni di nota il lungo urlo in “Ur Mum”, l’attitudine da cover band dei Fratellis di “Oh No” e le due tracce a chiusura dell’album, la scazzatissima “Supermarket” e la decisiva “Too Late Now”.

In questo duemila e ventidue che si sta rivelando una sorta di giubileo per l’indie-rock, a giudicare da ciò che è stato pubblicato e dagli album che ci separano dalle classifiche di fine anno, le Wet Leg e il loro s/t si assicurano un ruolo da protagonisti nella storia di un genere fin troppo longevo e prolifico, in cui il rischio di esporsi all’aria fritta o di suonare in modo superfluo è all’ordine del giorno. Sono rari i dischi in grado di far divertire dalla prima all’ultima traccia. In un momento in cui c’è davvero poco da star tranquilli, le Wet Leg ci concedono più di uno spunto per sorridere a tempo di musica.

Gomma – Zombie Cowboys

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“Zombie Cowboys”, pensato e rifinito in piena pandemia, non è un diario da lockdown come tutti gli altri. Con il nuovo disco, i Gomma diventano grandi.

Il basso è il messia. Questo sostiene un meme in voga tra le community social di musicisti boomer. Si vede una rappresentazione sacra con Gesù Cristo in persona, la cui didascalia lo riconduce appunto allo strumento a quattro corde, e una parte del suo entourage che, conformemente alla disposizione nello spazio dipinto, impersona gli altri strumenti e la loro gerarchia all’interno di una band.

In realtà, l’autore di questa facezia – un bassista, ça va sans dire – si è dato la zappa sui piedi. Non serve certo frequentare l’oratorio per dimostrare che, se c’è di mezzo il figlio di Dio, ci dev’essere per forza il padre, sopra di lui. E, se parliamo di rock, è fuori discussione che l’entità suprema in questione sia la chitarra elettrica. Ai credenti resta la libertà di scegliere se preferire la versione vendicativa del vecchio testamento o un padre meno intransigente – ma non per questo poco autorevole – del nuovo. La differenza, come potete immaginare, sta tutta nel modo in cui la si usa, la chitarra. I suoni cattivi e violenti del metal costituiscono un forte richiamo per i chitarristi che inseguono il sogno di annegare nella saturazione la loro rabbia repressa. Non è facile incanalare invece l’aggressività ricorrendo a suoni mai completamente sporchi. Ci vuole una certa raffinatezza, intelligenza e una straordinaria dose di autocontrollo.

Pensate, per esempio, se Giovanni, e mi riferisco non all’evangelista ma al chitarrista dei Gomma, si fosse lasciato abbacinare dal compiacimento di accompagnare le sue composizioni con pennate tipicamente hard rock e potenti mandate di distorsore. In questo caso, probabilmente Zombie Cowboys sarebbe stato l’ennesimo figlio della tradizione anni novanta e di tutti i suoi ibridi punk-grunge.

Invece una delle cose straordinarie di questo disco è il perfetto equilibrio in cui la musica si muove sul filo del rasoio, senza mai nulla concedere alla banalità rockettara da tanto al mucchio. L’impegno a riferirsi a un movimento che comprende gruppi come i Dry Cleaning, gli Squid o i Protomartyr – secondo quanto la band casertana ha dichiarato in un’intervista a RollingStone – sarebbe rimasto solo sulla carta. E, soprattutto, non saremmo qui a parlare di “Zombie Cowboys” come una delle cose migliori uscite dalla disperazione post-pandemia, in Italia. Almeno non io.

Ma non è tutto. Non ci vuole molto per prevedere che, delle conseguenze degli ultimi due anni sui più giovani, ce ne accorgeremo tra qualche tempo. Ma già ora che il Covid-19 sembra agli sgoccioli possiamo dedicare all’arte che i ragazzi hanno prodotto isolati nelle loro camerette l’attenzione che merita. A posteriori ci riferiremo a uno stile trasversale a sé che, almeno in musica, riunisce tutti i generi e consegna al pubblico opere nate dall’urgenza dettata da un disagio mai raggiunto prima, per noi che viviamo da questa parte del mondo. Altro che bonus psicologo. Ma se possiamo permetterci di cercare qualcosa di positivo da questa esperienza – consapevoli che ne avremmo volentieri fatto a meno – converrete con me che è in momenti complessi come questo e segnati dalla tensione che possono nascere cose di valore.

Non avevo mai sentito parlare dei Gomma prima d’ora ma non dovete biasimarmi. Ho 55 anni e non compravo dischi di musica italiana riconducibili al rock italiano, nel senso di chitarre elettriche protagoniste, voci sfrontate e testi pienamente comprensibili, dai tempi di “A sangue freddo” del Teatro degli Orrori.

Poi qualche tempo fa gli algoritmi di Facebook hanno incrociato il mio profilo con il video di “Sentenze”, ottava traccia di “Zombie Cowboys”. Ho avviato la riproduzione e la musica mi ha sorpreso immediatamente – se vogliamo dare delle coordinate siamo da quelle parti in cui si mescolano post-punk e stoner rock – ma, per una volta, concentrarmi sulle parole mi ha fatto sentire in perfetto target. Il brano giusto al momento giusto. Il genere rientrava pienamente nei miei standard ma c’era una voce che sembrava parlare di me. Parlava dei vecchi, diceva che “il viaggio è finito” e che “è finito anche il gusto di sputare sentenze”. Ho deciso di andare a più a fondo ed è stata una scelta premiante perché mi sono trovato al cospetto di un disco inatteso e sbalorditivo e che ho acquistato – in vinile bianco, una vera chicca anche sotto il profilo meramente estetico – senza pensarci due volte. Ma la storia dei Gomma e la genesi di questo album impongono qualche riflessione in più.

Possiamo innanzitutto parlare di “Zombie Cowboys” a partire dal ruolo che ricopre rispetto alla loro discografia, che grazie a questo disco ho scoperto a ritroso. Il percorso di definizione e assestamento della loro personalità artistica, mi riferisco ai lineamenti già induriti con la pubblicazione di “Sacrosanto”, si incrocia con il primo lockdown. Un disco con “pianoforti e archi, nato dalla volontà di sperimentare, di provare a metterci un altro vestito”, come sostengono nella stessa intervista che ho citato prima, viene messo in stand-by dall’evoluzione della pandemia. Ci sono cose più urgenti da comunicare, a partire da un intero sistema messo in ginocchio dalla stessa sua natura globalizzata. Il capitalismo tracima e inghiotte senza pietà economie oltre i propri confini, e non si vede il motivo per cui un virus non debba fare altrettanto. I Gomma rispolverano idee raccolte lungo l’ultimo tour superate dal disco in cantiere, vecchie tracce sulle quali i temi dettati dalla situazione drammatica possono essere organizzati in modo più efficace. Il titolo del concept è eloquente e la foto in copertina è altrettanto didascalica. E questo è il valore che “Zombie Cowboys” riveste in sé. Undici tracce (più un divertissement folk) che alternano aggressività a resa, cattiveria a disperazione, pessimismo a niente. Pessimismo e basta. Si susseguono pezzi-bomba – “Santa pace”, “Mamma Roma”, “Mastroianni” e “Sceriffo”, a canzoni superlative, a partire da “Venezia” e “7”, proprio come i sette quarti della strofa.

Se vogliamo quindi parlare di “Zombie Cowboys” dei Gomma a partire dal ruolo che ha rispetto alla loro discografia, tutti sono certi che sia il disco della loro maturità e a me non resta che allinearmi, perché il Covid ha fatto crescere e diventare adulta una generazione in tutta fretta. Che bisogno c’è di esprimersi in chiave indie pop con questi requisiti. I Gomma, sotto il profilo musicale, sembrano non avere peli sulla lingua. Pane al pane, vino al vino e, come sottolineano anche loro, una volta qui era tutta campagna.

The Mysterines – Reeling

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Trovare dischi belli senza nemmeno una sbavatura è un’impresa impossibile. Anche “Reeling”, album con cui debuttano i The Mysterines da Liverpool, ha un paio di passaggi che non mi piacciono ed è per questo che ho pensato che sia meglio mettere subito le cose in chiaro, un po’ come quando si chiede “ho una notizia bella e una brutta, quale vuoi sentire per prima?” e la maggior parte delle persone preferisce partire con la cattiva, in modo che la parte positiva, lasciata alla fine, sia quella che rimanga nel tempo.

Se avete carta e penna sottomano quindi segnatevi questi due suggerimenti. La traccia numero 9, si intitola “In My Head”, ha la melodia del ritornello che sembra composta a tavolino seguendo un manuale di istruzioni per montare un pezzo rock’n’roll stile Ikea. E la traccia numero 11, “All These Things”, ha un giro di chitarra un po’ banalotto che impatta sul resto del pezzo ma a quel punto il disco è quasi finito e un brano eseguito con il pilota automatico, passatemi la metafora, uno di quelli che suona da solo indipendentemente dal fatto che ci sia qualcuno che lo ascolta oppure no, ci può anche stare. Dimenticavo: quando ci sono delle chitarre pesantemente elettriche di mezzo, il confine tra alternative-indie e hard rock tamarro non è così netto come sembra e occorre essere davvero qualificati per dimostrare al pubblico, traccia dopo traccia, di stare dalla parte giusta (quella non hard rock tamarra, per intenderci).

Smarcati questi punti, è il momento della buona notizia. “Reeling” dei The Mysterines da Liverpool è un disco sbalorditivo, uno di quelli da punteggio pieno che vedremo alle vette delle classifiche di fine anno a prova di un successo sorprendente, considerando che si tratta di un album d’esordio. Un insieme di canzoni che ti lasciano senza fiato.

“Reeling” dei The Mysterines da Liverpool è uno di quei dischi che, mentre lo ascolti, passi il tempo a pensare “ma dove ho già sentito questa voce” e poi ti accorgi che, quella voce, ce l’hai dentro. Perché è la voce universale, sensuale e provocante del rock più cupo, nella sua strenua ricerca di manifestare se stessa attraverso una personificazione.

Nella voce di Lia Metcalfe c’è l’essenza della nascita e della morte, l’alfa e l’omega, come direbbe qualcun altro. Un inferno in cui ci si inabissa per assistere a una carrellata di fatti e figure della propria vita per poi tornare fuori, alla fine, sfatti e sfiniti, a riveder le stelle. Grunge, garage e punk a portata di mano, accentuati da un timbro graffiante e dalle venature blues, imponente e primitivo, un’arma spietatamente controllata per affondare i colpi decisivi sempre al momento più appropriato di ogni canzone. E anche se per Lia Metcalfe nessuna enfasi è fuori luogo, e sono stra-sicuro di non aver esagerato, limitare la bellezza e tutta la portata della musica dei The Mysterines al canto è sicuramente riduttivo.

Pochi lavori possono permettersi un incipit da urlo come “Life’s a Bitch (But I Like It So Much)”. Non ci credete? Schiacciate play. Un riff di chitarra da manuale, il fill di batteria che ti sbatte dentro a una canzone che ti stende nel giro di una battuta, e quella vocina che du du du du è già pronta a mandarti in estasi. Pochi minuti ed ecco “Hang Up” a rincarare la dose, a farti venire la voglia di googlare i loro nomi e vedere che facce hanno, come si muovono sul palco, che strumenti imbracciano, di sapere tutto sulle loro vite, chi sono, dove sono, dove vanno e, se possiamo salire a bordo, dove ci stanno portando. E, come da copione, ecco un bis di ballad pronte a ritardare l’estasi da piacere, la titletrack “Reeling” con i suoi suoni sporchi e le sue parole accattivanti e la devastante “Old Friends/Die Hard”.

Il disco torna ad accelerare con un brano pressoché perfetto, “Dangerous”, ascoltando il quale è sufficiente soffermarsi sulla pronuncia dei primi versi – “I was willing and able but I was caught in your jaws. You caught me standing on the table, I saw you watching me fall” – per cadere, insieme a lei, definitivamente. Cosa dire poi delle tinte southern di “On the run”, del gospel di “Under Your Skin”, dei continui cambiamenti di “The Bad Thing” che parte in sette quarti per sfociare in uno stoner veloce fino alla fine, delle atmosfere grunge di “Means To Bleed”, della bellezza della chitarra e voce di “Still Call You Home”, della chiusura dark del disco affidata a “Confession Song”, un pezzo che non stonerebbe in un album dei Bambara.

“Reeling” è un’opera per chi ama gli ascolti impulsivi, le avventure musicali da una notte, i flirt nati dal nulla e nel nulla, i deja-vu che ti riportano a quel momento in cui sei sicuro sia iniziato tutto, le colonne sonore protagoniste di lunghi viaggi in solitudine, le cuffie con ascolti a tutto volume nel buio. Vi colpirà il suo perfetto equilibrio tra generi diversi, il sapere di tanti gusti per un sound impossibile da identificare, la sua capacità di raccogliere ammiratori di cose apparentemente distanti tra loro perché così orgogliosamente indefinito da risultare mai sentito e, allo stesso tempo, qualcosa di esistente da sempre. Il rock in sé.

un altro Sanremo senza new wave

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L’edizione del Festival di quest’anno va annoverata tra quelle in cui è stato facile individuare la canzone vincitrice al primissimo ascolto. Era già successo la volta in cui al primo posto si è classificato “L’essenziale” di Marco Mengoni e quella di “Occidentali’s Karma” di Gabbani, i primi due che mi vengono in mente. Brani la cui capacità di rimanerti attaccati immediatamente è superiore, proposti in una scaletta di motivi magari anche belli, ma non all’altezza. Era chiaro fin dall’inizio che “Brividi” si sarebbe confermata sul gradino più alto del podio. Solo Elisa avrebbe potuto tenergli il fiato sul collo, mentre la canzone di Morandi, oggettivamente, si è piazzata lì dove si è piazzata grazie all’endorsement di Jovanotti durante la penultima serata, quella delle cover. A proposito, la scelta generale dei brani da reinterpretare ha definitivamente fatto virare il Festival di Sanremo verso il format dei talent, quello di X Factor su tutti. Che ci azzeccano “Baby One More Time” o “Be My Baby”, pur eseguite in modo ineccepibile la prima e con un arrangiamento molto interessante la seconda, con le nostre canzonette? Pur essendo una trovata interessante, quella di cantare brani famosi, spesso molto più del resto della manifestazione, corre il rischio di banalizzare la gara. Mi pare che, anni fa, la scelta fosse circoscritta al repertorio di brani presentati nel corso delle edizioni precedenti di Sanremo. Tornerei a questa formula, la trovo più in linea e in grado di differenziare il Festival dal resto dei programmi canori che accompagnano il palinsesto sociale della modernità. Ecco quindi qualche appunto sui pezzi che si sono succeduti nel corso della serata conclusiva.

Matteo Romano: a vederlo così striminzito sul palco a cantare, prima, e a parlare, poi trasmette un’umiltà rara. Ha anche una faccia simpatica e sarebbe bello sapere chi sia. La sua canzone è carina e si merita un 7 anche se, di tutta la kermesse, forse è la meno virale, a dispetto del titolo.

Giusy Ferreri: una scelta strana, la sua, quella di presentare un brano di quelli che non decollano mai. Come altre interpreti della nostra canzonetta pop, ha una voce pazzesca ma la affibbiano sempre canzoni facilmente dimenticabili, al netto del reggaeton estivo. Una di quelle canzoni che aspetti tutto il tempo che si apra e invece resta imbrigliata in un’andatura da chitarra sulla spiaggia, un po’ come “La descrizione di un attimo” dei Tiromancino, per capirci, ma molto meno bella, con l’aggravante di un vestito che le sta malissimo. E poi mi spiegate il senso di quel cazzo di megafono? Voto 6.

Rkomi: boh, l’unica cosa che ho capito è che il suo vero nome è Mirko, basta fare quel gioco che si fa da bambini con ionico ripetuto senza soluzione di continuità. Mi era piaciuto la prima sera. In quella finale si è un po’ perso per poi ritrovarsi al termine dell’esibizione, con i ringraziamenti e i saluti. Mi dicono comunque che sia un discreto manzo. Voto 7

Iva Zanicchi: se ho fatto bene i calcoli ha 82 anni e se non si fosse candidata per Berlusconi ne potrei anche scrivere bene. Il pezzo è molto meglio di altri, un classicone che cantato da qualcuno uscito da Amici, magari con un arrangiamento moderno, prenderebbe di più di un 6.

Aka7even: questo, come quello del suo amico Sangiovanni, sarà uno di quei pezzi che spaccherà tra gli under 10 e che i miei alunni mi chiederanno durante l’ora di musica. Per compensare gli do un 6 stiracchiato. E poi è troppo alto per la sua voce. E lui assomiglia a Nicholas, il mio ex parrucchiere. Sarà un segno.

Massimo Ranieri: da anziano sembra Vecchioni da anziano. Un brano che non resta in testa nemmeno con il vinavil. Le città non bruciano più. Voto 6 ma per la carriera.

Noemi: la sua voce si è assottigliata come la sua figura e lei, conciata così, sul palco sembra la tipa di Roger Rabbit. Il pezzo ha buon ritmo. Si merita un 7, si sente che c’è di mezzo Re Mida Mahmood.

Fabrizio Moro: È grillista e si merita 2 anche per il plagio dell’Inno alla gioia di Beethoven che emerge da sotto. Bella la citazione di “Bella” di Jovanotti con la chitarra steel.

Dargen D’Amico o come si chiama: due anni di Covid e ci piace anche questa. Voto 8 ma dimmi che cosa c’entra il governo.

Elisa: nulla da dire sulla canzone. Candidata al podio malgrado il vestito, nell’insieme un paio di tacche sotto i due vincitori. Voto 9.

Irama si presenta vestito da Ponte Milvio con tutti i lucchetti sulla giacca. Raramente si sente un pezzo così brutto, nemmeno nel periodo buio del Festival degli anni settanta con Jo Chiarello e il suo brutto affare. Voto 2

Michele Bravi è invece una specie di Scialpi ma senza “No East No West, we are the best” e con un rampicante sulle dita. Stavo per stroncarlo poi mia moglie mi ha detto che ha una brutta storia personale. Canzone nella media, anzi un po’ di più. Voto 7.5.

Rappresentante di Lista: sembrano usciti da Candy Crush ma il pezzo spacca, un vero brano da 10, il vero tormentone dell’edizione venti ventidue e gli unici con il reprise fuori programma. Non capita tutti i giorni.

Emma: la Ferilli le augura buon lavoro perché la sua resterà, nella storia, la canzone del triangolino che ci esalta e della Michielin che dirige. Io però più di 6 non riesco a darle, lei mi sembra la versione femminile di Claudio Villa.

Mahmood e Blanco. Vincono loro. Il fantasanremo o come cazzo si chiama gli è sfuggito un po’ di mano con le bici sul palco. Il fatto è che in due concentrano l’80% della bellezza sanremese e forse il 99% dell’intuito pop della musica italiana. Sul pezzo nulla da dire, lasciamo parlare i miliardi di streaming che seguiranno. Il voto è un 10 meritato. Bella la doppia citazione nell’arrangiamento, all’inizio e durante il brano, di “Breathe” dei Pink Floyd.

Highsnob e Hu: le facce impiastrate con le scritte (a questo punto sarebbe più redditizio tatuarsi uno sponsor e farsi pagare vita natural durante) hanno rotto il cazzo ma loro sono molto più docili di quello che vogliono mostrare. Comunque nessuno mai aveva messo in un testo “ho perso la testa come Oloferne” e a farlo rimare con verme. Malgrado questo si meritano un 6, lei canta come Madame al netto delle sedute dalla logopedista.

Sangiovanni: il solito giro del pop-trap-rap di Malibu e non riesco a dargli più di 4, tanto ci penserete voi a premiarlo. Quando dice “sei una boccata d’aria” lo pronuncia così biascicato che si capisce “sei una mucca d’addaria” che, oggettivamente, non ha senso. Il tema di synth alla “Leave in silence” dei Depeche Mode è però orecchiabile. Salvo solo questo.

Gianni Morandi: se non ci fosse Jovanotti di mezzo non sarei così prevenuto. Lui per fortuna è un tipo alla mano, finché non se le compromette. La sua canzone subito sembra “Stasera mi butto”, anzi no, mi ricorda “Shake A Tail Feather” di Ray Charles con un inserto scopiazzato dagli archi di “Eloise” di Barry Ryan, a cui si aggiunge un crescendo che ammicca a “Il triangolo” di Renato Zero. Mai visti così tanti tributi concentrati in una manciata di minuti. Voto 6.

Ditonellapiaga e Rettore: l’ennesimo caso di artiste penalizzate nel naming. Una modesta rivisitazione di “Physical” di Olivia Newton-John nel ritornello. 6 politico per via di Donatella che, ancora, non vuol farsi chiamare così.

Orietta Berti: non è in gara ma forse avrebbe dovuta cantare “Finché la barca va”, a bordo della Costa Crociere.

Yuman: chiede un pugnetto alla Ferilli e canta la canzone peggiore se non ci fossero altre canzoni peggiori. Non so che voto dargli. Anche questa, nell’inizio, cita “The Great Gig In The Sky”.

Achille Lauro: ecco un nuovo cantore della domenica, una tradizione che va da Valentino, come Lauro in quota Vasco Rossi, ai Subsonica passando per Venditti. Per la terza volta porta lo stesso pezzo, gli do comunque 6 perché mi è simpatico. Caro Achille, il prossimo anno mantieni il look ma cambia format per piacere. Dai che ne mancano solo quattro e poi posso andare a dormire.

Ana Mena: c’è un po’ di Nina Zilli, almeno nel titolo, e un po’ di “Amandoti” dei Cccp e io ci sento anche un po’ di Ghali quando canta di voler bene all’Italia. Il target è il terzo mondo culturale dell’Eurofestival, con un ritmo tutto in levare d’altri tempi. Il voto è un 4 ed è un peccato perché la ragazza, esteticamente, ha un suo perché.

Tananai: è un incrocio tra Rkomi, Irama e Fabrizio Moro che canta come Achille Lauro ma stonato e con la giacca da camera. Il ritornello ricorda “Suburbia” dei Pet Shop Boys e gli archi nella strofa “Speedy Gonzales”. Ma io ho sonno e gli do 5.

Giovanni Truppi. L’unico intellettuale di quest’anno anche se si presenta in canottiera. Il titolo gonfia le aspettative, il brano è superlativo ma è pretenzioso e fuori contesto. La pelata è indubbiamente espressiva e le facce mentre suona e canta sono le stesse di Saturnino. Probabilmente esibirsi senza capelli porta a quel tipo di mimica. Il voto è un 9 anche solo perché non ricorda nessun’altra canzone.

Le Vibrazioni: volevano essere i Maneskine ma restano sempre immensamente loro, con quel pennellone che suona il basso, il batterista che sembra un cartone animato e il cantante che come se la tira lui nessuno mai. Il pezzo, però, è imbarazzante: 2, e ha solo il valore di essere l’ultimo. Anche quest’anno è finita.