Avere una band che compone e suona pezzi originali e di propria produzione costituisce in sé il massimo dell’esperienza umana. Non credo ci sia nulla di simile al mondo: persone che si incontrano e intraprendono un percorso artistico, talvolta lungo più decenni, durante il quale si trascorre tantissimo tempo insieme in ambienti spesso fatiscenti con degli strumenti in mano e con l’obiettivo di creare, arrangiare, registrare ed eseguire dal vivo musica per il proprio e l’altrui compiacimento.
L’arte di gruppo, rispetto all’arte individuale, è soggetta anche alle dinamiche della relazione tra le persone, scazzi compresi. Per questo, al netto di svariate eccezioni – che se volete potete riportare qui in calce – i risultati vanno ricondotti a una categoria a sé rispetto alla musica composta da singoli e, lasciando perdere i gusti personali, sono quasi sempre sorprendenti.
La musica di una band, in poche parole, ha qualcosa in più rispetto a quella di un solista. Ho formato la mia prima band – nata con una comunità di intenti sottoscritta sin dalla prima prova tra tutti i componenti – a quattordici anni (la seconda band della mia vita, a essere sinceri, ma nella prima ero poco più che un sostituto). Un gruppo di ragazzi con i quali ho vissuto una straordinaria storia di amicizia e di crescita subordinata alla musica, e vi posso assicurare che un’esperienza così totalizzante non l’ho mai più provata, nella vita.
Tutto questo per dire quanto siano importanti i gruppi (o almeno quanto lo erano, visto che adesso tutti suonano con il MacBook e l’autotune da soli, chiusi nelle proprie camerette) e quanto siano significativi nella musica italiana che, da sempre, è principalmente un club esclusivo per gli interpreti singoli, supportati nel back-end da compositori e parolieri lobbisti. Per avere una band e fare musica cantata in italiano ci vuole una bella faccia tosta e una cospicua scorta di sicurezza di sé, considerata la concorrenza d’oltremanica e d’oltreoceano. Un aspetto che da sempre suscita in me un fascino e un’appeal senza confronti. Ma veniamo al dunque.
Era da tanto che aspettavo la puntata di Techetechetè andata in onda ieri sera. Voglio dire, non esiste una programmazione di quello che si vedrà volta per volta a Techetechetè – anche se sarebbe bellissimo averla – ma era chiaro che, prima o poi, qualcuno avrebbe dovuto affrontare la più annosa delle questioni, e cioè che che la musica italiana non è solo Mina, Celentano e i cantautori, ma esistono anche i gruppi. E in Italia, anche se pochi lo sanno, esiste una lunga tradizione di band vecchia almeno quanto Shel Shapiro. Non a caso, Techetechetè ieri sera si intitolava proprio “50 anni di gruppi”.
Se l’avete visto però, malgrado gli oltre 60 minuti di immagini di repertorio, avrete compreso quali sono i limiti della nostra tv e del canale più democristiano dell’emittente pubblica e della gente che ci lavora. Anche se tra gli anziani di oggi che seguono RaiUno a quell’ora di sera ci sono anche quelli che, nei primi anni 80, pogavano con cresta e anfibi sotto il palco dei CCCP, una puntata in grado di coprire in modo equidistante tutte le passate e presenti decadi e tutti gli strati socioculturali della canzone italiana dei gruppi (dai più mainstream ai più alternativi, per farmi capire dai Pooh ai CCCP) è pressoché impossibile.
Bisogna ammettere che la musica chiamiamola alternativa – che nell’immaginario collettivo è principalmente rappresentata da band – è stata ampiamente accettata nel palinsesto culturale nazionalpopolare. Ma c’è certa musica alternativa, a partire proprio dai CCCP, che alla RAI – archiviata la trasmissione musicale più bella di tutto il mondo mondiale che è stata “DOC” – non passerà mai.
E spero che sia chiaro a tutti che l’unica persona nel nostro paese in grado di definire una scaletta completa e adatta a uno speciale sui gruppi italiani di tutti i tempi è colui che sta scrivendo questo post. Non troverete mai un appassionato di musica più esperto e competente e umile di me nel settore dei gruppi italiani. Ho pensato quindi di lasciarvi alcune considerazioni su quello che avete visto nella puntata di ieri di Techetechetè, sperando che quelli di Techetechetè mi chiamino, prima o poi, a scegliere le cose da trasmettere. E, se non l’avete ancora visto, il programma è disponibile su RaiPlay qui per sette giorni. Guardate la puntata in questione e poi ditemi se non ho ragione a scrivere quello che state per leggere. Ecco che cosa ho visto per voi.
Elio e le storie tese a Sanremo: il fatto che uno speciale sulle band inizi con un gruppo di rock demenziale la dice lunga sulla considerazione per il rock in Italia. Il consiglio che la RAI ci dà è che, tutto sommato, i gruppi non vanno presi sul serio, meglio riderci su. E comunque avrei scelto un’altra apparizione degli Elii, a partire da “La terra dei cachi” o una delle numerose canzoni storpiate, come orchestrina fissa, in quel programma con la Dandini di qualche anno fa di cui ora mi sfugge il nome. Googlatelo per me. Però qualcuno mi spieghi perché Elio sì e gli Skiantos no, tanto per dare il via alla polemica.
Anima mia dei Cugini di Campagna da vecchi: ora, potete amare o odiare questa canzone, ma spiegatemi il senso di non utilizzare uno dei millemila passaggi RAI ai tempi della pubblicazione del brano, con il gruppo in formazione originale? Vedere un banale ripescaggio a colori, con gente in studio che negli anni settanta non era nemmeno nata, stride troppo con i toni in scala di grigio della canzone.
Litfiba – Il mio corpo che cambia: ecco, lo sapete, per me i Litfiba già con “17 re” iniziavano a mostrare le loro velleità rockettare rispetto al post-punk degli esordi. Figuriamoci il periodo anni 90. Questo dimostra quello che sostenevo prima, e cioè che l’Italia ha paura della musica underground del mio decennio preferito. Che cosa vi spaventa di “Eroi nel vento” o di “Guerra”, canzoni ampiamente documentate negli archivi della RAI?
I Collage di “Tu mi rubi l’anima” è il primo di una lunga serie di apparizioni in programmi tv di musica in playback prima dell’avvento del monoscopio delle prove tecniche di trasmissione a colori. Oggi siamo abituati – meno male – al live anche in situazioni complessissime come Sanremo o il concertone del Primo Maggio. Vedere gente che canta senza microfono e che suona con strumenti nemmeno accesi o collegati al mixer anche per finta ci fa ridere. Stesso discorso – anche se di qualche anno prima – per “Donna felicità” dei Nuovi Angeli. Di questa canzone, di cui possiedo il 45 giri sopravvissuto alle numerose e barbare riproduzioni nel mangiadischi di mio nonno, è curioso l’andamento da polka e quel giro di basso così ingenuo che trasmette un background da balera. Su questa linea, nell’ordine, vedrete anche le esecuzioni finte di “Senza luce” dei Dik Dik (peccato, con quel giro di Hammond), “Io per lei” dei Camaleonti, “Ho in mente te” dell’Equipe 84, “Pugni chiusi” dei Ribelli di Demetrio Stratos (che rabbia, mi aspettavo gli Area e invece picche), “C’è una strana espressione dei tuoi occhi” dei The Rokes. Mal con i suoi Primitives e i New Dada, purtroppo, risultano non pervenuti.
Per capire meglio che cosa intendo, comparate queste esibizioni di cera con quelle in carne, ossa e sudore della “Formula Tre”, qui presente con quell’assurdo pezzo del salame dai capelli verde rame, dei Pooh che, con tanto di orchestra e di Riccardo Fogli, eseguono “Noi due nel mondo e nell’anima”, “Io vagabondo” dei Nomadi, “Proposta” dei Giganti (quanta tenerezza e ingenuità a cappella), “Bella da morire” degli Homo Sapiens o della splendida apparizione della PFM con l’intramontabile “Impressioni di settembre”.
Certo, dal punto di vista della resa del suono c’è un abisso con i Bluvertigo a Sanremo che suonano “L’assenzio” – una delle vette della musica in tv – o con i Negramaro di “Mentre tutto scorre”, ma erano altri tempi e altri impianti di amplificazione.
Su “50 special” dei Lunapop non ho nulla da recriminare, un capop-lavoro che ha pieno diritto di stare tra le grandi come, più avanti, “Dedicato a te” delle Vibrazioni. Non che mi strappi i capelli, ma oggettivamente sono pezzi da novanta, spero che vi sia arrivato il gioco di parole.
La quota generazione Z e gente che biascica in corsivo – ammesso che fosse davanti alla tv – sarà stata soddisfatta dalle recentissime esibizioni sanremesi dei tanto chiacchierati Maneskin di “Zitti e buoni”, dei Pinguini Tattici Nucleari con “Ringo Starr” e de Lo stato sociale con “Una vita in vacanza” con tanto di vecchia che balla a corredo. Tutto il panorama indie e indie rock del nuovo millennio è stato, come facile immaginare, saltato a piè pari. Ne riparleremo nei Techetechetè dell’estate 2052.
Nella categoria dei meno rappresentativi o, meglio, band che io avrei omesso, si sono visti i Velvet quando scimmiottavano i Blur con “Boy Band” (al limite, piuttosto, avrei scelto “Funzioni primarie”), la Schola Cantorum con “Lella”, che fa sentire ancora più forte l’assenza dei Delirium, o i Santo California, in quella ballad strappa-maroni che è “Tornerò” e che suona così patetica, oggi che nessun maschio etero rischia più di esser fagocitato dalla leva obbligatoria.
Ci sono stati poi dei clamorosi svarioni di selezione. Spiegatemi il senso di passare, dei Negrita, il loro pezzo più brutto, “I ragazzi stanno bene”, o “Quella carezza della sera” dei New Trolls che avrà avuto successo e tutto quanto ma è a rischio diabete, per non parlare di “Paolo maledetto” che è la composizione meno rappresentativa del Banco, o ancora della bruttissima “L’uomo che ride”, forse il punto più basso toccato dai Timoria di Francesco Renga.
Poi, finalmente, un inatteso regalo: parte “Contessa” dei Decibel in una versione alternativa rispetto alle solite che si vedono in tv. Il brano è in playback ma Ruggeri canta dal vivo ed è importante perché, benché sia una canzonetta da Sanremo come tutte le altre, è il brano che più di ogni altro dà inizio agli anni ottanta della musica italiana. Mi sarei aspettato di vedere anche i Krisma, per dare una certa continuità, e invece no.
Ma il vero tripudio della trasmissione, inutile nasconderlo, è stata l’esibizione finta de Le Orme alla finale del Festivalbar 1976 all’Arena di Verona con “Canzone d’amore” (episodio su cui non mi dilungo, ma se volete saperne di più ne parlo qui).
La scelta di “Niente insetti su Wilma” dei Denovo – poco più che una facezia in quell’apoteosi creativa che si è consumata tra la metà e la fine degli anni ottanta – ha reso ancora più assordante l’assenza di band come (ripeto) i CCCP, i Neon, i Diaframma di “Siberia” e tutti gli altri testimoni di uno dei periodi più effervescenti della musica italiana. Allo stesso modo in cui, in rappresentanza del decennio successivo, che dal punto di vista musicale non teme confronti, non si è vista nemmeno l’ombra di Almamegretta, Subsonica, CSI, Ustmamò, Scisma e Afterhours, giusto per fare i primi nomi che mi vengono in mente.
Non avete notato nulla? Allora ve lo dico io: fino a tre minuti dalla fine del programma, sullo schermo si sono avvicendati solo uomini. D’altronde, nel nostro paese, almeno fino a pochi anni fa, perché mai le ragazze avrebbero dovuto fare musica, o addirittura dividere il palco con altri membri di un complesso rock o pop? Per questo, dulcis in fundo, la puntata di Techetechetè dedicata ai gruppi si è cavallerescamente chiusa con i Matia Bazar. E, certo, perché riproporre un brano come “Ti sento” o “Elettrochoc”, con un testo composto da parole e frasi di senso compiuto, quando si può trasmettere “Cavallo bianco”, l’unica canzone in cui Antonella Ruggiero canta tirudiuà tiruriruriuà?