strani sintomi

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Non è scritto da nessuna parte che le canzoni che rimangono nella nostra anima come archetipo emotivo di qualunque cosa – un amore, un sentimento di ribellione, la malinconia, il sentirci invincibili e tutto quello che volete – siano pezzi universalmente individuati come le colonne portanti della nostra cultura. Certo, quando mettiamo a segno qualcosa con successo vorremmo avere un dj universale che fa ascoltare al resto del mondo con un impianto hi-fi in grado di raggiungere tutti gli angoli del creato “We Are The Champions” e cose così, magari abbinato a un video in cui noi vestiamo da re davanti a decine di migliaia di persone a Wembley.

Poi però ognuno di noi ha un repertorio intimo – che magari teniamo alla larga da qualunque istinto di condivisione, la malattia del secolo – fatto di brani da quattro soldi che però, chissà perché, si sono estesi dentro di noi come una macchia di piacere indelebile. Una cosa che poi non sappiamo spiegare a nessuno perché nessun altro, tranne noi, potrebbe capire ma, discutendo di questo, rilancerebbe con la sua, di canzone che gli è rimasta dentro, e che, per noi, non significa altrettanto niente o, nel migliore dei casi, non abbiamo mai sentito.

Dev’essere per questo che, poco fa, mi sono trovato in sogno a casa di Diana Tejera, cantante dei Plastico e autrice di “Strani sintomi”. Se volete qualche coordinata, siamo nel 2001 e il file .mp3 – nel caso migliore – l’avrete salvato nella cartella “one shot” oppure “roba di MTV”. L’avevo rintracciata proprio tramite Facebook, e questo vi assicuro che è successo per davvero, dove ho scoperto che, terminata l’esperienza della band, ha una carriera che prosegue come cantautrice. Nel sogno, invece, visto che mia moglie e mia figlia erano al mare, ho accettato il suo invito a trascorrere un pomeriggio a casa sua in occasione di una sorta di reunion. Il problema era che loro erano ragazzine come ai tempi del video di “Strani sintomi”, malgrado fossero passati ventun anni, per questo sua madre non comprendeva appieno l’interesse di una persona anziana come me per artiste così in erba. A quel happening casalingo per fortuna c’era qualche altro fan affezionato come il sottoscritto, ma non più di una decina di persone intente a consumare patatine e bibite ma tutte desiderose che la band imbracciasse gli strumenti – malgrado la situazione casalinga imponesse rivisitazioni unplugged dei brani – e si mettesse a suonare e cantare la nostra canzone preferita. E, come tutti i sogni migliori, è bastato il primo accordo di chitarra per manifestare tutta la stranezza della scena, destarmi dal sonno e mettere la parola fine al concerto.

batti cinque

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Il 13 maggio è stato il compleanno di Stevie Wonder. Lo so perché lo hanno ricordato a “Il giorno e la storia” su RaiStoria insieme ad altre ricorrenze altrettanto degne di nota. Tra le immagini di repertorio riproposte, mi ha colpito questo suo passaggio come ospite alla nostra tv pubblica. Il cantante e polistrumentista statunitense interpreta la canzone “Solo te, solo me, solo noi”, versione italiana del suo singolo “Yester-Me, Yester-You, Yesterday”, un brano che è stato inciso come cover anche da Giuliano Palma e i Bluebeaters. È incredibile come i nostri connazionali presenti come pubblico in sala si ostinino a tenere il tempo con le mani sull’uno e sul tre, mentre Stevie Wonder – uno che ha sicuramente il ritmo nel sangue – segue l’andamento naturale della canzone, che impone i battiti a tempo sul due e sul quattro. Nessuno si pone il problema di stare dalla parte del torto, probabilmente convinti del fatto che il cantante non li possa cogliere in fragrante. Anche se, lo so per certo, si stava rendendo perfettamente conto che c’era qualcosa che non andava per il verso giusto.

primo maggio, sempre più coraggio

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Il concertone di piazza San Giovanni, tanto quanto Sanremo o l’Eurovision Song Contest, è uno di quegli appuntamenti a cui è impossibile rinunciare quando hai l’ossessione della musica come il sottoscritto. Dopo due anni di smart playing, o tele-esecuzione chiamatela come volete, finalmente musicisti e maestranze sono tornati per mettere in scena il più complesso live dell’anno. Se avete dubbi sulla sua difficoltà organizzativa, vi invito a darvi da fare per recuperare qualche testimonianza. Provate a pensare a uno spettacolo collettivo con così tanti partecipanti, ciascuno con le proprie esigenze tecniche, praticamente senza prove, che va in diretta sulla tv nazionale per quasi dodici ore. Roba da matti. Quello che è certo è che ogni anno lo seguo sempre più malvolentieri, un chiaro segnale che il gap anagrafico tra me e giovani d’oggi si fa sempre più incolmabile. Ecco un veloce resoconto della giornata, almeno fino a quando non ce l’ho fatta più e sono andato a dormire.

GO_A: l’edizione 2022 si apre con una band ucraina, musica interessante e prova che dal Friuli in là hanno tutti l’eurofestival dentro
BANDABARDÒ con CISCO: ci sta, se è il tributo che dobbiamo pagare per vedere un po’ di musica live in tv. Ma “Bella Ciao”?
SINKRO: una merda, probabilmente raccomandato dalla lobby della musica romana
i vincitori dell’1M NEXT 2022: si vede che i talent musicali televisivi hanno depauperato ogni altro concorso se in finale arrivano questi qui
RAMONA FLOWERS: ma.cosa.cazzo
MOBRICI: in quota chitarra e voce che al primo maggio è la morte della musica, il solito indie-inutile
BIGMAMA: la ascolto e mi viene in mente che ci vorrebbe un generatore random di cose da fare quando suoni dal vivo un pezzo su una base che ha una featuring e il cantante ospite non è presente sul palco
CLAVER GOLD: niente male, ma anche lui sulla base. A questo punto potevano risparmiare e non noleggiare la batteria e gli ampli degli strumenti
HU: è quella di Sanremo, ma più che una divinità senza sesso mi sembra una divinità senza voce
ROVERE: finalmente qualcuno sotto i trenta che suona, una specie di Lunapop del nuovo millennio ma in chiave pinguini cosi lì nucleari
VV: volatilissima
ANGELINA MANGO: avevo molte aspettative perché la seguo, in quanto apprezzavo il suo papà. Parla di cose come i walkman che sono entità che non gli appartengono ed è per questo che potrebbe sfondare tra i boomer come me. Ha scritto, come dice lei, un pezzo troppo profondo per il suo target. Si conferma molto raffinata, si vede che c’è una bella produzione, e il pezzo è suonato molto bene
MR. RAIN: ed è qui che mi chiedo: ma sono tutti uguali? Questo ha il coretto con una specie di bambini di Povia che fanno oh sotto, è il primo che fa due pezzi, così penso che dev’essere uno importante e mi chiedo come sia possibile
FASMA: esordisce con quattro AH, l’autotune sul rock fa ribrezzo ma vi giuro che sono uno a cui piace l’autotune. Pensa se fossi stato uno contrario al suo impiego. Mi trovo al cospetto di una specie di Blanco con venature di Achille Lauro, in pratica la sintesi della musica contemporanea. Il secondo brano ha uno sviluppo un po’ più originale, per fortuna.
DEDDY con CAFFELLATTE, un nome che fa paura solo a sentirlo a chi è costretto a cimentarsi con i “Me contro te” quotidianamente., la sola zuppa degli innamorati ragazzini che cantarappano.
MECNA: al millesimo cantante uguale a tutti gli altri inizio ad averne i coglioni pieni. Lui veste però in modo più originale e ha una band. Mi sembra una specie di coma cose ma senza le cose e suona una specie di cover di Raf che non si capisce perché prendere così i ritornelli altrui che già facevano cagare prima.
BRESH: ho perso il conto dei cantarapper, ma quanti ce ne sono? Mi dà l’ispirazione per pubblicare un post su FB con lo sfondo delle merde in volo. Poi però con la canzone dello svuota-tasche è riuscito a sorprendermi. Bravo.
RANCORE: bravo ma pretenzioso, fa rap per adulti ed è fuori contesto, di Caparezza ce n’è uno solo ed è ineguagliabile. In più parla solo a se stesso.
PSICOLOGI: partono con la chitarra, poi la stessa voce biascicata degli altri. Una generazione che, più che l’analisi, avrebbe bisogno della logopedia. Qui capisco che quello fuori luogo sono io, ma sto lavorando e tengo la tv accesa in sottofondo. Il ritornello è gradevole, ma le strofe due coglioni.
VENERUS è il primo decente e ascoltabile della giornata, porta il tizio della lega braccianti sul palco a festeggiare con un reggaettino per i lavoratori e solo per sapersi mettere da parte vince tutto. Poi suona “Redemption Song” anche se non ci arriva con la voce, così fa finta che il microfono non gli funzioni. Nel finale poi si riprende e addirittura si lancia in vocalizzi soul. Bravo.
COMA con le COSE, a me non fanno impazzire perché lui sembra una specie di Alioscia dei Casino Royale e hanno tutti i pezzi che sembrano “sì con riso senza lattosio” in versione downbeat. Poi arringano alla folla e con la seconda canzone mi viene il diabete. Fanno tre pezzi, si capisce che hanno fatto il botto. Il pubblico conosce i pezzi, ed è un bell’effetto.
No, le VIBRAZIONI no, vi prego, anche se finalmente c’è qualcuno che scalda il pubblico ed è triste ammettere che questo compito tocchi a dei vecchi di merda. Però aspettavo Giulia ma Gliulia non è immensamente arrivata. Peccato.
Con LUNDINI e il suo cantautorato demenziale tiriamo un po’ il fiato, anche grazie al TG3 e a tutte le sfortune di questo periodo storico.

LA RAPPRESENTANTE DI LISTA: finalmente si fa sul serio, questa sì che è una band da primo maggio, lei canta benissimo, sono il meglio del presente, sul futuro chi lo sa
MAX PEZZALI: mi fa così cagare che non lo commento nemmeno. Poche cose mi irritano come le sue canzoni.
ARIETE: se si capisse cosa dice potrei anche scrivere due righe. Ribadisco: chitarra e voce al primo maggio NO. Però poi fa un bel discorsetto sull’amore e un po’ si fa voler bene.
COEZ: ritorna la formula rap melodico con la pronuncia delle vocali a cazzo, ed è subito voglia di coricarsi che domani si va a lavorare.
ORNELLA VANONI, un mito punto e basta, qualsiasi cosa faccia. Ma anche se non fosse così anziana. Il fatto è che dovrebbe scegliere canzoni più semplici e con tempi pari. O, se sono pari, non renderli dispari. Un plauso ai musicisti che sono riusciti a starle dietro.
NOTRE DAME DE PARIS: che merda
MARCO MENGONI, una grande voce svilita dai pezzi che fa, è la versione maschile di Annalisa e in più non ha suonato l’unica canzone bella che ha e che è una delle canzoni più belle mai sentite a Sanremo. Sprecatissimo.
CARMEN CONSOLI: conferma il suo stile inutilmente articolato e lezioso che me la rende ostica da sempre. Poi in questa formula “white stripes” con Marina Rei mi trasmette ancora più ruvidezza. Però ho pensato che entrambe hanno suonato nell’edizione del concertone a cui ho partecipato anch’io e chissà se, tra loro, parlano di me. Già me le immagino. “Hei, ti ricordi l’anno in cui ci siamo conosciute? Era l’edizione del Primo Maggio in cui ha suonato quel tizio che ora fa il blogger”.
TOMMASO PARADISO: già dalle prime note capisci che fa musica di merda prendendosi sul serio come nessun altro.
RKOMI: che poi è Mirko al contrario. Ambra cita per lui il testo della canzone popolare di Fossati. Ogni due parole ne salta una perché probabilmente sono parolacce e si autocensura, questo la dice lunga sui suoi testi. Sembra comunque musica semplificata per deprivati, una riduzione dell’arte per persone con gravi problemi di apprendimento. Poi nell’ultimo pezzo addirittura non ce la fa più e salta intere parti di strofa. Io boh.
Su LUCHÈ mi chiedo invece cosa facciano quelli che stanno sul palco davanti alla tavola apparecchiata con dei macchinari incomprensibili mentre i rapper cantano. Io mi porterei qualcosa da leggere. Comunque una merda anche lui. Ha avuto però il grande onore di indurmi a coricarmi, tanto il resto (LUCA BARBAROSSA con gli EXTRALISCIO, MARA SATTEI, GAZZELLE, FABRIZIO MORO che faccio fatica anche solo a scriverlo tanto mi fa cagare, ENRICO RUGGERI, ancora LE VIBRAZIONI e ACE con JOAN THIELE, VENERUS, GEMITAIZ e COLAPESCE) posso anche immaginarlo.

wet leg – s/t

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Stanchi del solito post-punk claustrofobico e di tutti quei cantanti-alfa che si prendono troppo sul serio? Il disco d’esordio delle Wet Leg è quello che fa per voi.

Come al solito ci volevano delle ragazze per dare una regolata ai bollenti spiriti nell’ambiente post-post-post-punk anglofono e riportare sotto a un ragionevole livello di guardia il tasso di testosterone nella musica – oramai fuori controllo – grazie a una sana dose di ironia tutta al femminile. Si chiamano Wet Leg e, in un colpo solo, sono riuscite a 1. risollevarci il morale dopo mesi di lagne depresse, 2. attutire la spigolosità degli aspetti più estremi del genere che professano e 3. ricondurre, con la loro immediatezza, l’indie-rock ai binari un po’ caciaroni che si merita, dopo le molteplici contaminazioni e seghe manieristiche – e i relativi sconfinamenti nelle cerebrali lande del prog e del math rock – di alcuni dischi che, negli ultimi tempi, ci hanno fatto a dir poco gridare al miracolo.

L’aspetto più convincente di questo duo scanzonato – e pronto a farsi in quattro per le esibizioni live – è l’approccio rilassato e un po’ come-viene-viene alla composizione, che è poi un modo di fare le cose tipicamente punk ma privo dell’aggressività, della ricercatezza artistica e di tutti i restanti rimandi agli archetipi del genere (a voi la scelta dell’accezione preferita, visto che parliamo di maschi e di musica e anche di maschi che fanno musica).

Vi sarete infatti accorti che le Wet Leg hanno messo subito in chiaro le cose con “Chaise Longue”, il singolo con cui sono piombate dal nulla in tutte le classifiche, un brano pubblicato ormai nove mesi fa e che ha lanciato il duo originario dell’Isola di Wight oltre le vette dell’hype della musica alternativa. Poco più di tre minuti tutti sullo stesso accordo e un testo zeppo di doppi sensi, a partire dal “Big D” preso a scuola fino al muffin imburrato, dopodichè è lecito chiedersi se, per il nome della band, ci sia una traduzione casta in grado di superare in autorevolezza la più letterale gamba umida.

Qualsiasi altra band sarebbe stata declassata a macchietta, con queste premesse, ma non quella di Rhian Teasdale e Hester Chambers. La naturalezza con cui le due Wet Leg realizzano hit in grado di rientrare fino all’ultima nota nei blasonati canoni della musica più in voga degli ultimi anni è sorprendente. Apprezzerete la fluidità dei brani e la sollecitudine con cui giungono a destinazione senza nemmeno un’incertezza. Per non parlare della varietà delle canzoni, prive di ogni rimando reciproco seppur modellate intorno a un marchio di fabbrica inconfondibile.

Dell’ultima infornata di dischi delle band protagoniste dell’ennesima British Invasion, di certo questo passerà alla storia come l’album più sbarazzino, e la cosa incredibile è che dietro le quinte dei suoni anche qui siede Dan Carey, produttore di Fontaines DC, Geese, Squid, Black Midi. E, credetemi, in “Wet Leg” – il titolo del disco di esordio è omonimo – non c’è un solo pezzo che non abbia la dignità di singolo, a partire da quelli effettivamente pubblicati prima del rilascio di questo straordinario full length.

Tralasciando il tormentone che celebra i fasti delle più prosaiche sedie a sdraio e sul quale oramai si è già detto tutto, pensiamo agli ammiccamenti di “Being in Love” o alla splendida “Angelica”, con il suo riff jangle pop di chitarra e quell’infernale giro strumentale di accordi nel ritornello, che ti si pianta in testa senza tanti complimenti.

E poi che dire di quanto calzi a pennello la citazione del riff di chitarra di “The man who sold the world” di Bowie in “I Don’t Wanna Go Out”, messa in risposta ai versi delle strofe. O il compendio di “New Feeling” e “Thank You for Sending Me An Angel” dei Talking Heads in “Wet Dream”, papabilissimo tormentone alternative per l’imminente stagione estiva. Ma la solare “Convincing”, da questo punto di vista, non è certo da meno.

E anche il lato apparentemente romantico delle Wet Leg, e mi riferisco a “Loving You” e “Piece Of Shit”, sembrerebbe convincente, se i titoli non ci preparassero ad altro. Ma, in generale, a proposito dei testi, non lasciatevi suggestionare dalla sfilza di dichiarazioni di espressioni esplicite davanti ai titoli su Spotify, una lista di E maiuscole che la dice lunga sul loro slang. Come si cantava negli anni 80, le ragazze vogliono solo divertirsi ma, se proprio è necessario forzare un collegamento con il decennio madre di tutto quello che ascoltiamo oggi, il pensiero si spinge fino alle Go Go’s e ai loro videoclip girati sulle berline cabriolet ma molto, molto più garage e con molto, molto meno rossetto. Altrettanto degni di nota il lungo urlo in “Ur Mum”, l’attitudine da cover band dei Fratellis di “Oh No” e le due tracce a chiusura dell’album, la scazzatissima “Supermarket” e la decisiva “Too Late Now”.

In questo duemila e ventidue che si sta rivelando una sorta di giubileo per l’indie-rock, a giudicare da ciò che è stato pubblicato e dagli album che ci separano dalle classifiche di fine anno, le Wet Leg e il loro s/t si assicurano un ruolo da protagonisti nella storia di un genere fin troppo longevo e prolifico, in cui il rischio di esporsi all’aria fritta o di suonare in modo superfluo è all’ordine del giorno. Sono rari i dischi in grado di far divertire dalla prima all’ultima traccia. In un momento in cui c’è davvero poco da star tranquilli, le Wet Leg ci concedono più di uno spunto per sorridere a tempo di musica.

Gomma – Zombie Cowboys

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“Zombie Cowboys”, pensato e rifinito in piena pandemia, non è un diario da lockdown come tutti gli altri. Con il nuovo disco, i Gomma diventano grandi.

Il basso è il messia. Questo sostiene un meme in voga tra le community social di musicisti boomer. Si vede una rappresentazione sacra con Gesù Cristo in persona, la cui didascalia lo riconduce appunto allo strumento a quattro corde, e una parte del suo entourage che, conformemente alla disposizione nello spazio dipinto, impersona gli altri strumenti e la loro gerarchia all’interno di una band.

In realtà, l’autore di questa facezia – un bassista, ça va sans dire – si è dato la zappa sui piedi. Non serve certo frequentare l’oratorio per dimostrare che, se c’è di mezzo il figlio di Dio, ci dev’essere per forza il padre, sopra di lui. E, se parliamo di rock, è fuori discussione che l’entità suprema in questione sia la chitarra elettrica. Ai credenti resta la libertà di scegliere se preferire la versione vendicativa del vecchio testamento o un padre meno intransigente – ma non per questo poco autorevole – del nuovo. La differenza, come potete immaginare, sta tutta nel modo in cui la si usa, la chitarra. I suoni cattivi e violenti del metal costituiscono un forte richiamo per i chitarristi che inseguono il sogno di annegare nella saturazione la loro rabbia repressa. Non è facile incanalare invece l’aggressività ricorrendo a suoni mai completamente sporchi. Ci vuole una certa raffinatezza, intelligenza e una straordinaria dose di autocontrollo.

Pensate, per esempio, se Giovanni, e mi riferisco non all’evangelista ma al chitarrista dei Gomma, si fosse lasciato abbacinare dal compiacimento di accompagnare le sue composizioni con pennate tipicamente hard rock e potenti mandate di distorsore. In questo caso, probabilmente Zombie Cowboys sarebbe stato l’ennesimo figlio della tradizione anni novanta e di tutti i suoi ibridi punk-grunge.

Invece una delle cose straordinarie di questo disco è il perfetto equilibrio in cui la musica si muove sul filo del rasoio, senza mai nulla concedere alla banalità rockettara da tanto al mucchio. L’impegno a riferirsi a un movimento che comprende gruppi come i Dry Cleaning, gli Squid o i Protomartyr – secondo quanto la band casertana ha dichiarato in un’intervista a RollingStone – sarebbe rimasto solo sulla carta. E, soprattutto, non saremmo qui a parlare di “Zombie Cowboys” come una delle cose migliori uscite dalla disperazione post-pandemia, in Italia. Almeno non io.

Ma non è tutto. Non ci vuole molto per prevedere che, delle conseguenze degli ultimi due anni sui più giovani, ce ne accorgeremo tra qualche tempo. Ma già ora che il Covid-19 sembra agli sgoccioli possiamo dedicare all’arte che i ragazzi hanno prodotto isolati nelle loro camerette l’attenzione che merita. A posteriori ci riferiremo a uno stile trasversale a sé che, almeno in musica, riunisce tutti i generi e consegna al pubblico opere nate dall’urgenza dettata da un disagio mai raggiunto prima, per noi che viviamo da questa parte del mondo. Altro che bonus psicologo. Ma se possiamo permetterci di cercare qualcosa di positivo da questa esperienza – consapevoli che ne avremmo volentieri fatto a meno – converrete con me che è in momenti complessi come questo e segnati dalla tensione che possono nascere cose di valore.

Non avevo mai sentito parlare dei Gomma prima d’ora ma non dovete biasimarmi. Ho 55 anni e non compravo dischi di musica italiana riconducibili al rock italiano, nel senso di chitarre elettriche protagoniste, voci sfrontate e testi pienamente comprensibili, dai tempi di “A sangue freddo” del Teatro degli Orrori.

Poi qualche tempo fa gli algoritmi di Facebook hanno incrociato il mio profilo con il video di “Sentenze”, ottava traccia di “Zombie Cowboys”. Ho avviato la riproduzione e la musica mi ha sorpreso immediatamente – se vogliamo dare delle coordinate siamo da quelle parti in cui si mescolano post-punk e stoner rock – ma, per una volta, concentrarmi sulle parole mi ha fatto sentire in perfetto target. Il brano giusto al momento giusto. Il genere rientrava pienamente nei miei standard ma c’era una voce che sembrava parlare di me. Parlava dei vecchi, diceva che “il viaggio è finito” e che “è finito anche il gusto di sputare sentenze”. Ho deciso di andare a più a fondo ed è stata una scelta premiante perché mi sono trovato al cospetto di un disco inatteso e sbalorditivo e che ho acquistato – in vinile bianco, una vera chicca anche sotto il profilo meramente estetico – senza pensarci due volte. Ma la storia dei Gomma e la genesi di questo album impongono qualche riflessione in più.

Possiamo innanzitutto parlare di “Zombie Cowboys” a partire dal ruolo che ricopre rispetto alla loro discografia, che grazie a questo disco ho scoperto a ritroso. Il percorso di definizione e assestamento della loro personalità artistica, mi riferisco ai lineamenti già induriti con la pubblicazione di “Sacrosanto”, si incrocia con il primo lockdown. Un disco con “pianoforti e archi, nato dalla volontà di sperimentare, di provare a metterci un altro vestito”, come sostengono nella stessa intervista che ho citato prima, viene messo in stand-by dall’evoluzione della pandemia. Ci sono cose più urgenti da comunicare, a partire da un intero sistema messo in ginocchio dalla stessa sua natura globalizzata. Il capitalismo tracima e inghiotte senza pietà economie oltre i propri confini, e non si vede il motivo per cui un virus non debba fare altrettanto. I Gomma rispolverano idee raccolte lungo l’ultimo tour superate dal disco in cantiere, vecchie tracce sulle quali i temi dettati dalla situazione drammatica possono essere organizzati in modo più efficace. Il titolo del concept è eloquente e la foto in copertina è altrettanto didascalica. E questo è il valore che “Zombie Cowboys” riveste in sé. Undici tracce (più un divertissement folk) che alternano aggressività a resa, cattiveria a disperazione, pessimismo a niente. Pessimismo e basta. Si susseguono pezzi-bomba – “Santa pace”, “Mamma Roma”, “Mastroianni” e “Sceriffo”, a canzoni superlative, a partire da “Venezia” e “7”, proprio come i sette quarti della strofa.

Se vogliamo quindi parlare di “Zombie Cowboys” dei Gomma a partire dal ruolo che ha rispetto alla loro discografia, tutti sono certi che sia il disco della loro maturità e a me non resta che allinearmi, perché il Covid ha fatto crescere e diventare adulta una generazione in tutta fretta. Che bisogno c’è di esprimersi in chiave indie pop con questi requisiti. I Gomma, sotto il profilo musicale, sembrano non avere peli sulla lingua. Pane al pane, vino al vino e, come sottolineano anche loro, una volta qui era tutta campagna.

The Mysterines – Reeling

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Trovare dischi belli senza nemmeno una sbavatura è un’impresa impossibile. Anche “Reeling”, album con cui debuttano i The Mysterines da Liverpool, ha un paio di passaggi che non mi piacciono ed è per questo che ho pensato che sia meglio mettere subito le cose in chiaro, un po’ come quando si chiede “ho una notizia bella e una brutta, quale vuoi sentire per prima?” e la maggior parte delle persone preferisce partire con la cattiva, in modo che la parte positiva, lasciata alla fine, sia quella che rimanga nel tempo.

Se avete carta e penna sottomano quindi segnatevi questi due suggerimenti. La traccia numero 9, si intitola “In My Head”, ha la melodia del ritornello che sembra composta a tavolino seguendo un manuale di istruzioni per montare un pezzo rock’n’roll stile Ikea. E la traccia numero 11, “All These Things”, ha un giro di chitarra un po’ banalotto che impatta sul resto del pezzo ma a quel punto il disco è quasi finito e un brano eseguito con il pilota automatico, passatemi la metafora, uno di quelli che suona da solo indipendentemente dal fatto che ci sia qualcuno che lo ascolta oppure no, ci può anche stare. Dimenticavo: quando ci sono delle chitarre pesantemente elettriche di mezzo, il confine tra alternative-indie e hard rock tamarro non è così netto come sembra e occorre essere davvero qualificati per dimostrare al pubblico, traccia dopo traccia, di stare dalla parte giusta (quella non hard rock tamarra, per intenderci).

Smarcati questi punti, è il momento della buona notizia. “Reeling” dei The Mysterines da Liverpool è un disco sbalorditivo, uno di quelli da punteggio pieno che vedremo alle vette delle classifiche di fine anno a prova di un successo sorprendente, considerando che si tratta di un album d’esordio. Un insieme di canzoni che ti lasciano senza fiato.

“Reeling” dei The Mysterines da Liverpool è uno di quei dischi che, mentre lo ascolti, passi il tempo a pensare “ma dove ho già sentito questa voce” e poi ti accorgi che, quella voce, ce l’hai dentro. Perché è la voce universale, sensuale e provocante del rock più cupo, nella sua strenua ricerca di manifestare se stessa attraverso una personificazione.

Nella voce di Lia Metcalfe c’è l’essenza della nascita e della morte, l’alfa e l’omega, come direbbe qualcun altro. Un inferno in cui ci si inabissa per assistere a una carrellata di fatti e figure della propria vita per poi tornare fuori, alla fine, sfatti e sfiniti, a riveder le stelle. Grunge, garage e punk a portata di mano, accentuati da un timbro graffiante e dalle venature blues, imponente e primitivo, un’arma spietatamente controllata per affondare i colpi decisivi sempre al momento più appropriato di ogni canzone. E anche se per Lia Metcalfe nessuna enfasi è fuori luogo, e sono stra-sicuro di non aver esagerato, limitare la bellezza e tutta la portata della musica dei The Mysterines al canto è sicuramente riduttivo.

Pochi lavori possono permettersi un incipit da urlo come “Life’s a Bitch (But I Like It So Much)”. Non ci credete? Schiacciate play. Un riff di chitarra da manuale, il fill di batteria che ti sbatte dentro a una canzone che ti stende nel giro di una battuta, e quella vocina che du du du du è già pronta a mandarti in estasi. Pochi minuti ed ecco “Hang Up” a rincarare la dose, a farti venire la voglia di googlare i loro nomi e vedere che facce hanno, come si muovono sul palco, che strumenti imbracciano, di sapere tutto sulle loro vite, chi sono, dove sono, dove vanno e, se possiamo salire a bordo, dove ci stanno portando. E, come da copione, ecco un bis di ballad pronte a ritardare l’estasi da piacere, la titletrack “Reeling” con i suoi suoni sporchi e le sue parole accattivanti e la devastante “Old Friends/Die Hard”.

Il disco torna ad accelerare con un brano pressoché perfetto, “Dangerous”, ascoltando il quale è sufficiente soffermarsi sulla pronuncia dei primi versi – “I was willing and able but I was caught in your jaws. You caught me standing on the table, I saw you watching me fall” – per cadere, insieme a lei, definitivamente. Cosa dire poi delle tinte southern di “On the run”, del gospel di “Under Your Skin”, dei continui cambiamenti di “The Bad Thing” che parte in sette quarti per sfociare in uno stoner veloce fino alla fine, delle atmosfere grunge di “Means To Bleed”, della bellezza della chitarra e voce di “Still Call You Home”, della chiusura dark del disco affidata a “Confession Song”, un pezzo che non stonerebbe in un album dei Bambara.

“Reeling” è un’opera per chi ama gli ascolti impulsivi, le avventure musicali da una notte, i flirt nati dal nulla e nel nulla, i deja-vu che ti riportano a quel momento in cui sei sicuro sia iniziato tutto, le colonne sonore protagoniste di lunghi viaggi in solitudine, le cuffie con ascolti a tutto volume nel buio. Vi colpirà il suo perfetto equilibrio tra generi diversi, il sapere di tanti gusti per un sound impossibile da identificare, la sua capacità di raccogliere ammiratori di cose apparentemente distanti tra loro perché così orgogliosamente indefinito da risultare mai sentito e, allo stesso tempo, qualcosa di esistente da sempre. Il rock in sé.

un altro Sanremo senza new wave

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L’edizione del Festival di quest’anno va annoverata tra quelle in cui è stato facile individuare la canzone vincitrice al primissimo ascolto. Era già successo la volta in cui al primo posto si è classificato “L’essenziale” di Marco Mengoni e quella di “Occidentali’s Karma” di Gabbani, i primi due che mi vengono in mente. Brani la cui capacità di rimanerti attaccati immediatamente è superiore, proposti in una scaletta di motivi magari anche belli, ma non all’altezza. Era chiaro fin dall’inizio che “Brividi” si sarebbe confermata sul gradino più alto del podio. Solo Elisa avrebbe potuto tenergli il fiato sul collo, mentre la canzone di Morandi, oggettivamente, si è piazzata lì dove si è piazzata grazie all’endorsement di Jovanotti durante la penultima serata, quella delle cover. A proposito, la scelta generale dei brani da reinterpretare ha definitivamente fatto virare il Festival di Sanremo verso il format dei talent, quello di X Factor su tutti. Che ci azzeccano “Baby One More Time” o “Be My Baby”, pur eseguite in modo ineccepibile la prima e con un arrangiamento molto interessante la seconda, con le nostre canzonette? Pur essendo una trovata interessante, quella di cantare brani famosi, spesso molto più del resto della manifestazione, corre il rischio di banalizzare la gara. Mi pare che, anni fa, la scelta fosse circoscritta al repertorio di brani presentati nel corso delle edizioni precedenti di Sanremo. Tornerei a questa formula, la trovo più in linea e in grado di differenziare il Festival dal resto dei programmi canori che accompagnano il palinsesto sociale della modernità. Ecco quindi qualche appunto sui pezzi che si sono succeduti nel corso della serata conclusiva.

Matteo Romano: a vederlo così striminzito sul palco a cantare, prima, e a parlare, poi trasmette un’umiltà rara. Ha anche una faccia simpatica e sarebbe bello sapere chi sia. La sua canzone è carina e si merita un 7 anche se, di tutta la kermesse, forse è la meno virale, a dispetto del titolo.

Giusy Ferreri: una scelta strana, la sua, quella di presentare un brano di quelli che non decollano mai. Come altre interpreti della nostra canzonetta pop, ha una voce pazzesca ma la affibbiano sempre canzoni facilmente dimenticabili, al netto del reggaeton estivo. Una di quelle canzoni che aspetti tutto il tempo che si apra e invece resta imbrigliata in un’andatura da chitarra sulla spiaggia, un po’ come “La descrizione di un attimo” dei Tiromancino, per capirci, ma molto meno bella, con l’aggravante di un vestito che le sta malissimo. E poi mi spiegate il senso di quel cazzo di megafono? Voto 6.

Rkomi: boh, l’unica cosa che ho capito è che il suo vero nome è Mirko, basta fare quel gioco che si fa da bambini con ionico ripetuto senza soluzione di continuità. Mi era piaciuto la prima sera. In quella finale si è un po’ perso per poi ritrovarsi al termine dell’esibizione, con i ringraziamenti e i saluti. Mi dicono comunque che sia un discreto manzo. Voto 7

Iva Zanicchi: se ho fatto bene i calcoli ha 82 anni e se non si fosse candidata per Berlusconi ne potrei anche scrivere bene. Il pezzo è molto meglio di altri, un classicone che cantato da qualcuno uscito da Amici, magari con un arrangiamento moderno, prenderebbe di più di un 6.

Aka7even: questo, come quello del suo amico Sangiovanni, sarà uno di quei pezzi che spaccherà tra gli under 10 e che i miei alunni mi chiederanno durante l’ora di musica. Per compensare gli do un 6 stiracchiato. E poi è troppo alto per la sua voce. E lui assomiglia a Nicholas, il mio ex parrucchiere. Sarà un segno.

Massimo Ranieri: da anziano sembra Vecchioni da anziano. Un brano che non resta in testa nemmeno con il vinavil. Le città non bruciano più. Voto 6 ma per la carriera.

Noemi: la sua voce si è assottigliata come la sua figura e lei, conciata così, sul palco sembra la tipa di Roger Rabbit. Il pezzo ha buon ritmo. Si merita un 7, si sente che c’è di mezzo Re Mida Mahmood.

Fabrizio Moro: È grillista e si merita 2 anche per il plagio dell’Inno alla gioia di Beethoven che emerge da sotto. Bella la citazione di “Bella” di Jovanotti con la chitarra steel.

Dargen D’Amico o come si chiama: due anni di Covid e ci piace anche questa. Voto 8 ma dimmi che cosa c’entra il governo.

Elisa: nulla da dire sulla canzone. Candidata al podio malgrado il vestito, nell’insieme un paio di tacche sotto i due vincitori. Voto 9.

Irama si presenta vestito da Ponte Milvio con tutti i lucchetti sulla giacca. Raramente si sente un pezzo così brutto, nemmeno nel periodo buio del Festival degli anni settanta con Jo Chiarello e il suo brutto affare. Voto 2

Michele Bravi è invece una specie di Scialpi ma senza “No East No West, we are the best” e con un rampicante sulle dita. Stavo per stroncarlo poi mia moglie mi ha detto che ha una brutta storia personale. Canzone nella media, anzi un po’ di più. Voto 7.5.

Rappresentante di Lista: sembrano usciti da Candy Crush ma il pezzo spacca, un vero brano da 10, il vero tormentone dell’edizione venti ventidue e gli unici con il reprise fuori programma. Non capita tutti i giorni.

Emma: la Ferilli le augura buon lavoro perché la sua resterà, nella storia, la canzone del triangolino che ci esalta e della Michielin che dirige. Io però più di 6 non riesco a darle, lei mi sembra la versione femminile di Claudio Villa.

Mahmood e Blanco. Vincono loro. Il fantasanremo o come cazzo si chiama gli è sfuggito un po’ di mano con le bici sul palco. Il fatto è che in due concentrano l’80% della bellezza sanremese e forse il 99% dell’intuito pop della musica italiana. Sul pezzo nulla da dire, lasciamo parlare i miliardi di streaming che seguiranno. Il voto è un 10 meritato. Bella la doppia citazione nell’arrangiamento, all’inizio e durante il brano, di “Breathe” dei Pink Floyd.

Highsnob e Hu: le facce impiastrate con le scritte (a questo punto sarebbe più redditizio tatuarsi uno sponsor e farsi pagare vita natural durante) hanno rotto il cazzo ma loro sono molto più docili di quello che vogliono mostrare. Comunque nessuno mai aveva messo in un testo “ho perso la testa come Oloferne” e a farlo rimare con verme. Malgrado questo si meritano un 6, lei canta come Madame al netto delle sedute dalla logopedista.

Sangiovanni: il solito giro del pop-trap-rap di Malibu e non riesco a dargli più di 4, tanto ci penserete voi a premiarlo. Quando dice “sei una boccata d’aria” lo pronuncia così biascicato che si capisce “sei una mucca d’addaria” che, oggettivamente, non ha senso. Il tema di synth alla “Leave in silence” dei Depeche Mode è però orecchiabile. Salvo solo questo.

Gianni Morandi: se non ci fosse Jovanotti di mezzo non sarei così prevenuto. Lui per fortuna è un tipo alla mano, finché non se le compromette. La sua canzone subito sembra “Stasera mi butto”, anzi no, mi ricorda “Shake A Tail Feather” di Ray Charles con un inserto scopiazzato dagli archi di “Eloise” di Barry Ryan, a cui si aggiunge un crescendo che ammicca a “Il triangolo” di Renato Zero. Mai visti così tanti tributi concentrati in una manciata di minuti. Voto 6.

Ditonellapiaga e Rettore: l’ennesimo caso di artiste penalizzate nel naming. Una modesta rivisitazione di “Physical” di Olivia Newton-John nel ritornello. 6 politico per via di Donatella che, ancora, non vuol farsi chiamare così.

Orietta Berti: non è in gara ma forse avrebbe dovuta cantare “Finché la barca va”, a bordo della Costa Crociere.

Yuman: chiede un pugnetto alla Ferilli e canta la canzone peggiore se non ci fossero altre canzoni peggiori. Non so che voto dargli. Anche questa, nell’inizio, cita “The Great Gig In The Sky”.

Achille Lauro: ecco un nuovo cantore della domenica, una tradizione che va da Valentino, come Lauro in quota Vasco Rossi, ai Subsonica passando per Venditti. Per la terza volta porta lo stesso pezzo, gli do comunque 6 perché mi è simpatico. Caro Achille, il prossimo anno mantieni il look ma cambia format per piacere. Dai che ne mancano solo quattro e poi posso andare a dormire.

Ana Mena: c’è un po’ di Nina Zilli, almeno nel titolo, e un po’ di “Amandoti” dei Cccp e io ci sento anche un po’ di Ghali quando canta di voler bene all’Italia. Il target è il terzo mondo culturale dell’Eurofestival, con un ritmo tutto in levare d’altri tempi. Il voto è un 4 ed è un peccato perché la ragazza, esteticamente, ha un suo perché.

Tananai: è un incrocio tra Rkomi, Irama e Fabrizio Moro che canta come Achille Lauro ma stonato e con la giacca da camera. Il ritornello ricorda “Suburbia” dei Pet Shop Boys e gli archi nella strofa “Speedy Gonzales”. Ma io ho sonno e gli do 5.

Giovanni Truppi. L’unico intellettuale di quest’anno anche se si presenta in canottiera. Il titolo gonfia le aspettative, il brano è superlativo ma è pretenzioso e fuori contesto. La pelata è indubbiamente espressiva e le facce mentre suona e canta sono le stesse di Saturnino. Probabilmente esibirsi senza capelli porta a quel tipo di mimica. Il voto è un 9 anche solo perché non ricorda nessun’altra canzone.

Le Vibrazioni: volevano essere i Maneskine ma restano sempre immensamente loro, con quel pennellone che suona il basso, il batterista che sembra un cartone animato e il cantante che come se la tira lui nessuno mai. Il pezzo, però, è imbarazzante: 2, e ha solo il valore di essere l’ultimo. Anche quest’anno è finita.

ecco cosa mi ha detto Franco Battiato al telefono

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Se avete seguito il commovente tributo realizzato da Pif in occasione del concerto dedicato a Franco Battiato dello scorso settembre all’Arena di Verona, trasmesso su RaiTre ieri sera, sarete rimasti sorpresi da come amici, colleghi e collaboratori del maestro lo abbiano descritto. Non mi sarei mai aspettato che Battiato fosse un giovialone e un amante delle barzellette, per dire. Le sue liriche mi hanno sempre trasmesso austerità, speculazioni filosofiche, a tratti persino supponenza tendente a prendersi gioco dell’ascoltatore medio attraverso i celebri nonsense sui quali la critica, da sempre, si dibatte a spremere significati. Mai avrei pensato che potesse andare d’accordo con gente del calibro di Jovanotti o Morgan o Celentano, per dire. E lo so, sono ignorante e solo ieri ho scoperto che hanno a lungo collaborato insieme ma, come sapete, io con gli ascolti ero fermo a “L’arca di Noè” e poi avevo ripreso, decenni dopo, con i vari “Fleurs” che, comunque, già mi avevano stupito per il fatto che uno come Battiato si mettesse a reinterpretare composizioni altrui.

A parte questo, il programma di Pif mi è piaciuto tantissimo, e se ve lo siete persi potete recuperare su RaiPlay. Anche il disco pubblicato a seguito del concerto non è niente male. Si intitola “Invito al viaggio”, è uscito da qualche settimana e, se non volete comprarlo, è disponibile su Spotify. Nell’album ci sono diverse tracce che non sono state trasmesse durante il programma in tv e che, invece, a parer mio, avrebbero meritato più di altre. Forse è stata data la preferenza all’intensità del rapporto tra chi le ha reinterpretate e Battiato, o forse c’erano dei problemi di diritti. Vai a saperlo. Per esempio “Strani giorni” cantata da Cristina Scabbia e Davide Ferrario, o “Aria di rivoluzione” rifatta da Maroccolo, Aiazzi, Chimenti e Brotto, “Io chi sono” di Alice (peraltro, trattandosi dell’artista forse più vicina a lui, due pezzi suoi ci stavano alla grande), “Oceano di silenzio” cantata di Finardi, e soprattutto “Summer on a solitary beach” di Luca Madonia. Se era un problema di tempo avrei omesso l’inutile Jovanotti, Morgan con tutti i suoi ego o gli stonati Colapesce e Di Martino.

Non solo. Mai avrei pensato che Battiato fosse uno che chiama al telefono una come Emma Marrone, un concorrente di una trasmissione del livello di “Amici”. Ma, in generale, non credevo che Battiato fosse uno che ti chiama al telefono tout court. Eppure in molti, anzi quasi tutti, hanno dichiarato di aver ricevuto chiamate da Battiato la mattina presto o a qualsiasi ora del giorno e della notte, ricevendo inviti a raggiungerlo a pranzo, a cena, in spiaggia, nella sua casa al mare. Mi è venuta persino in mente quella volta in cui bevevo una birra con il mio amico che suona la batteria con Roberto Vecchioni e ha avuto l’idea di telefonare a un nostro comune vecchio amico, fan di Vecchioni, dicendogli che gli avrebbe passato al telefono Roberto, cioè io che mi chiamo Roberto, perché erano diversi anni che non ci sentivamo. Ma il nostro comune amico non pensava che fossi io al telefono ma, appunto, Roberto Vecchioni. Così quando ha capito che invece ero io ci è rimasto male e ci sono rimasto male anch’io, perché comunque erano anni che non ci sentivamo e il fatto che sia rimasto deluso perché ero io e non Roberto Vecchioni vabbè, insomma, ci siamo capiti.

Durante il programma in tv mi sono invece chiesto che effetto possa fare ricevere una telefonata da Battiato. Adesso mi cagherei addosso, come tutti voi, perché sembrerebbe una puntata di “Ai confini della realtà”. Anzi, sapete che vi dico? Quando era in vita doveva essere un’esperienza forse ancora più metafisica di ora che Battiato non c’è più.

non guardo la tv

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Nel corso della semifinale di X Factor Manuel Agnelli ha ripercorso le esibizioni dei Bengala Fire snocciolando, autore per autore, le loro cover presentate nel corso delle puntate come se suonare in un talent mainstream canzoni degli Interpol o dei Fontaines D.C. fosse una cosa che succede tutti i giorni. Qualche settimana fa Emma Marrone ha scelto, per il concorrente Gianmaria, “Io sto bene” dei CCCP, resa peraltro in una versione davvero azzeccatissima. Mentre non ho dubbi sul fatto che Agnelli e i Bengala Fire annoverino, tra i loro ascolti, le band che hanno suonato, sono sicuro che Emma e il suo giovane talento – che sarà sicuramente il vincitore della nuova edizione del programma – non avessero idea di chi fossero i CCCP prima che i consulenti artistici della squadra pensassero per Gianmaria il celebre brano di punk filosovietico. Gianmaria stesso li ha chiamati CCP, omettendo una esse cirillica, e non credo che Emma, considerando il background che le ha aperto le porte di Amici e che la collaborazione più alternativa l’ha vista al fianco di gente del calibro dei Modà, li avesse mai ascoltati prima. Avete notato l’artificiosità con cui la giudice leggeva il copione alla sua postazione al momento di presentare il pezzo? Ma comunque il fatto che ora la sua collezione di dischi includa anche “Affinità e divergenze” non può che farmi piacere. Possiamo ringraziare X Factor quindi di aver contribuito a scardinare l’approccio popcentrico della musica in tv e di aver acceso la curiosità del pubblico (e degli addetti ai lavori nazionalpopolari) verso mercati non tanto sommersi – nel senso di underground – ma considerati superflui da una formazione musicale generalista che impone un’accezione della trasgressione e del rock esclusivamente secondo canoni consolidati. Quelli – per dire – che ci fanno gridare al miracolo con i Måneskin.

idles – crawler

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“Crawler” è pervaso dalla voglia di sperimentare, in alcuni punti riuscita, in altri solo in potenza. Risulta comunque un’evoluzione compositiva, una maggiore varietà di format rispetto al consueto girare al massimo la manopola dei toni forti, urlati, sguaiati e senza ritorno.

“Ultra mono” era una pallonata rosa in faccia. “Crawler” ancora peggio. È un carro armato che ti stira e, ingranata la retro – ammesso che i carri armati ne siano dotati – dà una seconda passata per assicurarsi che, davvero, non sia rimasto nulla.

Ogni riferimento ai trasporti eccezionali potrebbe risultare paradossale in un album che, a quanto sostiene Joe Talbot, nasce da certe riflessioni scaturite dall’essersi trovato a pochi centimetri e pochi istanti da un incidente che probabilmente gli avrebbe precluso la possibilità di fare altri dischi. Un motociclista che, una notte, gli è volato vicino, ai duecento all’ora, mentre si trovava in macchina. La fragilità della vita e la casualità del tutto. Ben altra cosa rispetto a David Bowie, lui che invece si scontrava sempre con la stessa automobile, girando all’infinito nel garage di un hotel in preda a chissà che cosa. Una metafora al servizio di tutto quello che ci spinge a commettere gli stessi errori, di continuo. Come biasimarci, noi esseri umani.

Non che qui, in “Crawler”,  non ci siano tracce di problemi con le dipendenze. È un disco, intanto, ed è stato composto da gente con trascorsi mica da ridere.

Ma è anche un segno che la pandemia, la stessa che ha portato la salute mentale e fisica collettiva del pianeta al punto di rottura, ci offre un modo tutto nuovo di vedere le cose, di osservare noi stessi. Una riflessione indulgente, empatica e comprensiva. Responsabili delle nostre azioni, c’è comunque lo spazio per prendere un respiro e perdonarci. Se la vita è piena di bivi e non è detto che ci sia Google Maps a farci arrivare sani e salvi – non c’è un’app per prevenire gli incidenti, per ora solo riporta quelli già accaduti e che generano code – è lecito riderci su. Umorismo nerissimo, sia chiaro. Tutto questo va a formare il nucleo narrativo del quarto album degli Idles in altrettanti anni, nonché seguito di uno dei dischi più belli del 2020.

Partiamo dalle disavventure su strada, che nel nuovo lavoro del quintetto di Bristol ci sono per davvero. La traccia introduttiva, che rende un tributo irriverente alla superbike “MTT 420 RR” proprio nel titolo, è un nervoso benvenuto pensato con uno di quegli escamotage in cui ci sono fill di batteria che non vanno da nessuna parte e, anzi, lasciano con un pugno di mosche a rimandare l’orgasmo a momenti migliori. C’è poco da dire invece circa la metafora di “Car Crash”, così didascalica da non lasciar dubbi.

“Crawler” è pervaso dalla voglia di sperimentare, in alcuni punti riuscita, in altri solo in potenza. Risulta comunque un’evoluzione compositiva, una maggiore varietà di format rispetto al consueto girare al massimo la manopola dei toni forti, urlati, sguaiati e senza ritorno. Vi sarete accorti dell’approccio soul di “The Beachland Ballroom” e di quello darkwave di “When the Lights Come On”, in cui la voce si trattiene a stento dalla smania di scappare via, di alzare i toni, come in quei disturbi in cui la gente non riesce a trattenersi. Ma, molto più che negli album precedenti, ci sono diversi spunti che fanno degli Idles una sorta di Killing Joke dei nostri tempi – forse l’unico grande mostro sacro del post-punk che ad oggi non è stato ancora emulato. Provate a cercarli in brani come “The Wheel”, “Stockholm Syndrome” e “Crawl”, fino all’esplosione al contrario, quando la tensione arriva al limite oltre il quale non ci può più essere nulla. Ed è qui che si materializza “Progress”, un pezzo che sarebbe da isolare dal resto per fare finta che Joe Talbot canti sempre così e che, da solo, vale tutto il disco.

Gli “Idles” ci assicurano che il disco parla di come affrontare esperienze traumatiche e tornare in vita. Ok, va bene, ma a quali condizioni? Perché sono proprio loro a dimostrarci che, per risultare ancora più pessimisti, ci vuole poco. Un paio di canzoni completamente avulse dal proprio stile e dal contesto, magari con un filo di elettronica – bella la citazione dell’inizio di “Angel” dei Massive Attack proprio nell’incipit del disco – oppure il suono svuotato della violenza che gli ascoltatori più affezionati si aspettano, oppure ancora chiudere tutto con una traccia che si intitola “The End” e che, in quanto tale, fa lo stesso rumore di qualcosa che lasciamo cadere in un abisso buio e senza fondo. Il nulla o, come dicono loro, “In spite of it all, life is beautiful”.