fuori dal tunnel

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Allora, state imparando tutte le canzoni per la nuova stagione? Perché prima o poi vi si chiederà di cantarle a memoria, di supportare con la seconda o la terza voce un coretto improvvisato, di sbugiardare questo o quello che sbaglia il testo e usa parole inventate nemmeno fosse Marinetti. In ogni caso, più che l’intonazione è bene imparare ad andare a tempo. A questo proposito vi sarà capitato di fare quel giochino da musicisti nerd che è diventato un classico dei viaggi in furgone per raggiungere questo o quel palco sul quale vi esibirete a centinaia di chilometri di distanza di fronte a quattro o cinque spettatori compresi il tecnico del suono, barista, gestore e cameriera per poi andare sotto con le spese di trasferta e tornare a casa ubriachi di superalcolici di qualità da supermercato e birre industriali.

Il giochino è semplice. Si ascolta una canzone alla radio e la si canta tutti insieme. Il furgone imbocca una galleria e dopo qualche decina di metri – se la galleria è lunga – il segnale radio si interrompe e subentra il rumore. In quel tratto di buio delle trasmissioni tutti devono continuare la canzone e vince chi, al ritorno del segnale radio all’uscita dal tunnel, si fa trovare perfettamente a tempo. Anzi, più che di vittoria si può parlare di maggior attitudine a suonare in una band. C’è sempre la variante della frequenza, sapete, io vengo da uno di quei posti in cui a seconda di come ti giri cambia la stazione, con l’incognita di Radio Maria sempre pronta a invadere gli interstizi liberi.

Ma si tratta comunque di un giochino che si può anche fare da soli, a casa. Per esempio a me capita di assopirmi con il sottofondo di una canzone, magari la tv accesa in un’altra stanza o le bambine di là che giocano a fare le teen ager. Mi canticchio in testa la canzone, a me piace poi seguire le linee strumentali singole come il basso o la batteria, quindi mi accorgo di addormentarmi e continuo l’esecuzione mentale per i fatti miei. Questione di pochi istanti o non so quanto, fatto sta che deve trattarsi proprio di un nonnulla perché quando mi riprendo la canzone che ascolto è esattamente al punto in cui l’avevo lasciata prima del black out, ma nel pensiero sono avanti di mezza battuta. Davvero bizzarra la mente umana, non la mia in particolare eh.

Fatto sta che a giochi chiusi, mi riferisco a Sanremo, e a conti fatti e vincitori decretati, posso ammettere che per una serie di circostanze alla fine ho seguito quasi tutta la manifestazione a parte la gara dei giovani. E che tutto sommato l’ho anche trovata gradevole, che ci volete fare, Fazio è comunque bravo e io mi sto normalizzando. Mi permetto così di chiudere questo post e la parentesi festivaliera con qualche commento e qualche voto, per cui sentitevi liberi di schiacciare in anticipo quella ics bianca in campo rosso che trovate in alto a destra e di trasferirvi su un blog più indie.

Raphael Gualazzi: si salva solo perché è il sosia di Renzi, più spensierato di Cammariere e meno sbevazzone di Capossela. Ottima tecnica pianistica ma nel complesso al di sotto della sufficienza.
Simona Molinari e Peter Cincotti: cosce a parte, imbarazzanti.
Almamegretta: veri vincitori di tutti i festival italiani del mondo mondiale, quello che mi fa rabbia è che all’estero l’idea che hanno di noi è Bocelli che ha davvero rotto il cazzo, e nessuno se li è mai filati più di tanto, a parte i Massive Attack ma ai tempi in cui il Genoa vinceva gli scudetti. Voto: 10 e lode
Daniele Silvestri: appena sufficiente, pezzo intelligente ma se mi chiedete come fa stamattina non me lo ricordo
Modà: inascoltabili, lui canta come Mino Reitano e lo vedrei a fare le vasche con gli amici in un centro commerciale di quelli che ci sono dalle mie parti il sabato pomeriggio
Simone Cristicchi: non so voi, ma a me fa venir voglia di prenderlo a schiaffi, è uno che se ce l’hai compagno di classe anche se ti trattieni dall’esercitare il bullismo ti mette a dura prova
Maria Nazionale: no comment
Annalisa: caruccia lei, la canzone ben costruita, e poi è mia concittadina come del resto Fazio, quindi è un sì
Max Gazzè: ripensandoci poteva vincere lui
Chiara: bella voce ma canzone soporifera
Malika Ayane: imbarazzante quanto il suo gesticolare
Marta sui tubi: bah, ho rivalutato il pezzo ma mi sembra comunque pretenzioso all’eccesso e troppo sbraitato
Elio e Le Storie Tese: superlativi, è stato detto tutto
Marco Mengoni: lo specifico sanremese e infatti, giustamente, trionfò.

premesso che ho molti amici musicisti

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e che non ho niente contro chi vuole tentare la carriera solista e in gruppo, spero che però essi si rendano conto della loro diversità e di concetti quali maggioranza di persone che fa un lavoro serio e minoranza di sedicenti artisti che poi mettono addirittura da parte la loro integrità e si fanno tentare pure dallo sciòbizzz. Mi fa piacere anche che siano artefici con orgoglio del loro coming out e si svelino nella loro reale natura, quella sorta di deviazione che ne ha condizionato il normale sviluppo psicofisico tipico delle persone con orientamento normale verso attività, hobby e passioni più o meno retribuite e che si possono svolgere con ferri del mestiere più accessibili economicamente e, soprattutto, meno ingombranti.

Ma sia chiaro che è importante che siano consapevoli della loro diversità e che questa storia dei diritti civili fa acqua da tutte le parti. Perché se io sono un ragioniere e sono bravo a tenere la contabilità non ci sono cazzi, il risultato lo ottengo e porto a termine le mie mansioni secondo quanto previsto da contratto ERGA ho diritto a uno stipendio. Tu musicista che intanto lavori quando gli altri vanno a dormire non puoi pretendere uguale trattamento, tanto più che c’è sempre la variabile del gradimento. E cioè puoi essere bravo e creativo quanto vuoi, puoi aver conseguito tutti gli attestati e i diplomi ma se poi il pubblico ti fischia e non solo non si compra ma nemmeno si scarica i tuoi pezzi c’è poco da fare.

Che poi li senti nelle interviste e sembra che questi riescano a campare proprio di quello, gente che non sai nemmeno da dove venga fuori e chi ne apprezzi la musica. Prendi i Modà. Ora, premesso che ho molti amici che ascoltano musica, ma questi chi sono per salire sul palco dell’Ariston tra i big? E che razza di musica fanno? Chi sono e cosa vogliono dal Festival di Sanremo 2013? Non li vedreste meglio a comporre menu alle casse del Burger King? Nel senso che tecnicamente sono anche dotati, ma ragazzi, le loro canzoni fanno veramente cagare. Piuttosto gli Almamegretta, che loro sì fanno cose ricercate e danno l’idea di non voler disturbare più di tanto con il loro toni raffinati e da sottofondo mentre fai altro come andare a lavorare la mattina con i mezzi. Gli Almamegretta, che ci sono e non ci sono, hanno fatto album bellissimi poi hanno trovato altre strade ma si vede che non gliene importa, non hanno quel modo di sbraitare alla moda come i Modà, perdonate i giochi di parole.

Per questo mi piacerebbe che entrassero in azione due miei amici. Due agenti segreti. Uno batterista l’altro alle tastiere. Inseparabli. Hanno iniziato a suonare insieme e hanno continuato sempre nelle stesse formazioni. Sono bravi, eh, ma i più li ricordano per un’altra loro peculiarità. Facevano di tutto per farsi ingaggiare dai gruppi, entravano in forza dando il loro apporto e la loro personalità artistica che comunque era di spessore e ben rodata. Quindi, una volta assestata la nuova line-up, riuscivano sempre a far sciogliere in qualche modo la band, con una raffinata tecnica da kamikaze del buon gusto. I due, a complesso sciolto, poi ricominciavano altrove e via così. Una vera e propria macchina da bonifica sociale in grado di smuovere tutte le impurità sonore e rendere vane le velleità di giovani che, grazie a loro, alla fine hanno capito che era meglio rimettersi nell’ordinarietà delle esistenze più comuni e fare altro. Cose tipo scrivere sui blog.

Sanremo 2013, ecco chi vincerà il Festival

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Non diciamo scemenze. Ricordiamoci che chi ha riportato in auge la strategia del gran rifiuto per viltade qualche giorno fa ha sicuramente ribaltato le priorità del momento, relegando cose di poca importanza come una delle tornate elettorali più cruciali del dopoguerra agli ultimi cinque minuti dei telegiornali nazionali. Ma né io ne voi lasceremo che un avvenimento secondario come la fine del mandato del primo che passa riesca in alcun modo distoglierci da quello che sarà il vero argomento principe di questi giorni. Le previsioni sulle vittorie sono vecchie quanto le competizioni stesse e benché i favoriti e outsider siano già da tempo sulle copertine di testate di settore e no è impossibile sapere come andrà a finire. E non credo ci sia nulla di più inutile che comporre canzoni apposta per il Festival, anche se è una pratica in auge da sempre. Strutture standard, giri armonici elementari, ritornelli per mettere in risalto le qualità vocali dell’interprete, sviolinate varie fino alla salita di tono nell’ultimo refrain per lanciare la melodia nell’iperuranio della memoria popolare che, per cinque giorni, si dimentica persino di B1, B2 e B16. Il tentativo di costruire successi a tavolino oramai è una tecnica obsoleta per via della confusione armonica cui siamo soggetti, anche se poi in fondo cambiano gli ingredienti ma la sostanza rimane sempre quella. Voglio dire, è bene mai sopravvalutare gli italiani. Lo specifico sanremese è un genere a sé che ci tormenta da più di mezzo secolo e che, come leggete, non dovrebbe nemmeno esser degno di discussioni e commenti. Ma il discorso è sempre lo stesso. Ci si nota di più se lo guardiamo, o se non lo guardiamo per dire agli altri che non l’abbiamo visto? E se non l’abbiamo visto, è perché abbiamo avuto un legittimo impedimento o un qualunque imprevisto che ha sviato i nostri intenti, oppure volutamente abbiamo spento la tv e fatto altro? Cosa fa più snob?

Io vi dico la verità. Alla fine c’è sempre un motivo per cui una o due serate non me le perdo. Quest’anno, per esempio, ci sono gli Almamegretta, che tutto sommato sono una delle cose migliori mai uscite dal nostro panorama canoro, e ora che si sono ricongiunti con Rais sono proprio curioso di ascoltare le loro proposte. Ed ero pronto a giudicarle ieri sera se non fosse che è meglio informarsi prima sul programma della kermesse: la competizione tra i big è divisa in più serate, e quella di ieri è stata oggettivamente un po’ così, oltre a essere priva dei miei beniamini. Una serie di canzoni oltremodo anonime, forse una di Gualazzi con Bosso alla tromba, un’altra di Silvestri. Marta sui Tubi inascoltabili, stonati, inutili al Festival e a sé stessi, anche in un qualunque club indie me ne sarei andato chiedendo indietro i soldi del biglietto. E, Crozza a parte, resterà negli annali l’uscita di Toto Cutugno che ha dichiarato la sua nostalgia per la Russia che non c’è più, cioè l’Unione Sovietica per lo sgomento di Fabio Fazio e del pubblico, già innervosito dalla satira politica precedente, peraltro in replica per il pubblico de La7. Già, l’avreste mai detto che Cutugno è un comunista vero, altro che un semplice italiano? Lui, con il suo orecchino che così non li porta più nessuno e la sua espressione oramai così assente? Toto Cutugno è un nostalgico del Patto di Varsavia. Lasciatemelo cantare, perché ne sono fiero.

mi mi fa sol sol fa mi re do do re mi mi re re

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Per sbarcare il lunario, in un modo di certo meno interessante rispetto a quello dell’autore che ne ha anche scritto una storia, e io sbarcavo il lunario non perché anelavo alla professione di scrittore come lui ma perché aspiravo a fare il musicista, ho fatto anche l’insegnante di pianoforte in una scuola per aspiranti musicisti come me. Una scuola molto amatoriale. Uno di quei posti in cui potrebbe insegnare uno come me che non è un musicista abbastanza in gamba da insegnare la musica e, soprattutto, non è un insegnante. Io, che in fondo sono uno corretto, avevo avvertito chi aveva avuto il coraggio di coinvolgermi, ma tant’è.

Diciamo che i prezzi all’utenza erano popolari all’inverosimile, il resto ce lo metteva una delle circoscrizioni di Genova più popolose della città. C’era stata persino una presentazione dei corsi con concerto finale di noi insegnanti e il rinfresco alla fine, e proprio la dimostrazione della bravura mia e dei miei colleghi, di certo meno millantatori di me che con due accordini rivoltati e qualche acciaccatura in fase di improvvisazione mi spacciavo pure come jazzista, avrebbe dovuto spingere ancora di più tutti gli intervenuti a iscriversi al corso preferito. Inutile dire quale insegnante non raccolse nemmeno mezza adesione mentre basso, chitarra e soprattutto batteria avrebbero di lì a poco riempito l’agenda di tutti i ragazzini del quartiere ansiosi di schiacciare il pedale del distorsore e di sublimare con il rock. Poi però accadde una specie di miracolo.

Stavamo già smontando gli strumenti in quell’atmosfera da fine della festa, quella con i pop corn spiaccicati sul pavimento che vanno sotto le scarpe e non c’è più nemmeno un bicchiere di carta pulito per versarsi un po’ aranciata del discount, quando mi si avvicinò un tizio vestito da prete laico che mi comunicò la sua intenzione di partire con le lezioni al più presto. Gli diedi appuntamento secondo la sua disponibilità, d’altronde era l’unico per il momento a voler seguire i miei corsi e non c’erano problemi di sovrapposizione di orari. Prima di congedarmi gli chiesi se sapesse già strimpellare qualcosa o se partiva proprio da zero. Mi rispose che si dilettava da solo con un pianola in casa ma il suo obiettivo era quello di suonare durante la messa in chiesa.

Questo mi fece riflettere, forse non aveva bisogno di me ma di un insegnante più preparato e focalizzato sulla musica sacra. Così pensai di mollare il colpo, e sperando che non avesse già versato la quota di iscrizione decisi comunque di comunicargli la mia rinuncia alla prima lezione. Si presentò a mani vuote malgrado gli avessi chiesto di portarmi lo spartito di quello che sapeva già suonare, ma si sedette lo stesso al piano deciso di portare a termine l’audizione. Questo mi incuriosì e mi spinse a rimandare il discorso che mi ero preparato. Gli chiesi che cosa stesse per eseguire, e mi disse di aver preparato l’Inno alla gioia. Si concentrò, guardò per qualche istante la tastiera, posizionò il dito indice della mano destra sul mi centrale, quindi suonò con quell’unico dito tutta la prima parte della melodia, quella che potete solfeggiare leggendo il titolo di questo post. Concluse la performance con la tonica, sempre con l’indice destro, e si voltò come se mi avesse fatto ascoltare una di quelle composizioni di Rachmaninoff che grazie al cinema hanno soppiantato Listz come esemplificazione della tecnica più trascendentale per pianoforte. Decisi così che almeno per un paio di anni avrei potuto seguirlo nel suo percorso musicale, tanta era la strada che avrebbe dovuto percorrere prima di sedersi dietro all’armonium e accompagnare i parrocchiani durante un’ordinaria funzione domenicale.

Ma tutto questo mi è tornato in mente perché a scuola i bambini delle quarte stanno imparando proprio l’Inno alla gioia in questa versione ultra sintetica, un Bignami del Bignami della Nona di Beethoven nella sua riduzione per il Bignami degli strumenti musicali che è il flauto dolce. E qui nel palazzo, oltre a mia figlia, ci sono altre tre bimbe che, pur in altre sezioni, sono allo stesso punto del programma di musica e che a fasi alterne si esercitano per imparare questa celebre melodia. E ieri da casa mia, mentre cercavo di portarmi avanti con il mio libro, le ho sentite tutte. Dalla più brava a quella meno portata.

pictures of you

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Immaginate di scartabellare in una di quelle scatole in cui finiscono le cose alla rinfusa che poi è bello ritrovare anni dopo, tra floppy da 5,25 pollici e cartoline inviate a mamma e papà da località di villeggiatura durante le prime vacanze con gli amici per poi essere destinate all’oblio di lì a poco perché mittente e destinatario alla fine coincidevano. Ma valgono anche le lettere di fidanzatine e i biglietti di concerti. Diari scolastici zeppi di ritagli di Ciao 2001 e Rockstar e qualche spilletta recante un’icona o un’ideologia oramai superata. Ecco, non vi è mai successo di affrontare il problema di chi metterà le mani su quel patrimonio di ricordi tra trenta, quaranta, cinquant’anni, quando magari non ci saremo più? Toccatevi pure e fate i dovuti scongiuri, ma poi riflettete un secondo solo su un aspetto che mi è capitato di considerare, qualche tempo fa. Mi sono ritrovato sottomano una foto di un nonno di un amico di famiglia, un mio coetaneo, vestito con una di quelle uniformi di fortuna messe insieme a caso dai partigiani come lui. In posa con altri combattenti, tutti con armi diverse. Pistole e mitragliette probabilmente prese a qualche nemico o invasore caduto in battaglia. Ma non voglio andare a parare sempre e solo lì, sulla Resistenza. No, perché anche se non è il mio caso, i miei nonni erano contadini e dubito che abbiano in qualche modo partecipato alla liberazione, ho pensato al modo in cui si giudicano i ritratti dei nostri antenati. E cioè che noi mostriamo con orgoglio le foto dei nonni partigiani, mentre i nostri nipoti si vergogneranno delle nostre da giovani, in cui siamo conciati come i Cure.

dammi tre parole

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È dai tempi di Dante, ma sono pronto a scommettere che fonti e testimonianze certe alla mano si tratta di un comportamento che si potrebbe dimostrare anche per i suoi predecessori e per tutto il genere umano sin dalla notte dei tempi e perdonatemi se la prendo così alla lontana, dicevo che è dai tempi di Dante che cantori, poeti, madrigalisti antichi e moderni, cantautori, gruppi rock e di tutti gli altri generi artistici, rimatori e rapper. Insomma, che chiunque scriva, declami, canti, pubblichi le proprie parole organizzate in versi e su sottofondo musicale appropriato o meno abbia come principale obiettivo della sua arte quello di portarsi a letto la persona descritta nelle proprie composizioni. Sono partito da Dante perché giusto ieri pensavo alla sua opera in cui l’idealizzazione della donna amata è portata all’estremo. Cose dell’altro mondo, è proprio il caso di dirlo.

O comunque gente che si strugge perché non ci riesce, perché c’è riuscita una volta e poi lei/lui ha cambiato idea, che è così depressa da tutta una serie di cose per cui prima, dopo o durante si impicca o si spara in bocca. Gente che nei testi corteggia velatamente o a rischio stalking, altri che stanno male perché non riescono a dirlo se non dopo aver provato anni in sale prove umide e puzzolenti per poi spendere i quattrini di mamma e papà per autoprodursi una registrazione decente che l’oggetto, anzi, il soggetto dei desideri non ascolterà mai, e questa è una storia vecchia quanto l’uomo in preda a esuberanza di personalità che cerca il successo urlando i suoi fallimenti sentimentali con l’accompagnamento di un’orchestrina qualunque.

Gente che elabora persino teoremi, che si pente in diretta di un tradimento e si accorge della bramosia per il partner ufficiale. Perché poi noi ci limitiamo alle cose che capiamo al volo, ai testi delle canzonette che persino gli autori contemporanei dei Placiti Cassinesi e dell’Indovinello Veronese probabilmente erano costretti a sentire da qualche menestrello sotto le finestre della bonazza dirimpettaia. Con tutte quelle rime in cuore e amore che ci facciamo pure le canzoni su e che – e se ci pensate è surreale – fanno successo pure quelle perché non sono parodie. Così ci rifugiamo nella musica anglosassone, almeno si capisce poco. Ma poi, sotto sotto, traducendo una parolina qui, un avverbio, un genitivo sassone, il gatto è sul tavolo, alla fine c’è sempre qualcuno che rincorre qualcun’altra, Tizio che è stato piantato da Caio, che non si può continuare così, che non volevo ferirti, sono solo un ragazzo geloso. Se ne deduce che poi tutto ruota lì, insomma avete capito dove, fatta qualche eccezione. L’avvelenata, Bartali, ma di canzoni straniere che non raccontino di baci non dati, così sui due piedi non me ne viene in mente neanche mezza.

il futuro non è scritto e non è un modo di dire

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Il mio vicino di casa era una specie di punk, questo verso la fine dei 70 e rotti. Usciva di casa con i capelli rasati e il bomber blu sulle spalle, bretelle e  scarpe da tennis in pessime condizioni che se non fosse stato per quelle avresti detto che era uno skin, anche se allora gli skin erano punk come gli altri qui in Italia. Era una specie di punk e c’erano giorni in cui ascoltava con lo stereo musica punk e mi mettevo sul ballatoio che la mia famiglia condivideva con la sua per capire che musica fosse, perché sapevo del punk da trasmissioni come “Odeon – Tutto quanto fa spettacolo” che nel calderone del tutto quanto fa spettacolo e le prime tette in prime time aveva anche fatto passare un servizio sui Sex Pistols, che però del punk di strada e di quello che sarebbe diventato Oi aveva ben poco.

Lui però non ascoltava quella merda. Era più sul versante Jello Biafra e Ramones, e poi alcune band locali che i punk della zona seguivano come i Drull e i Total Crash. La sua famiglia era strana. Il fratello grande aveva i baffi e una pettinatura classica per i tempi, sembrava uscito da quelle foto che i barbieri appendevano sulle vetrine dei loro negozi. Giocava a tennis e gli piacevano le donne. Il minore invece aveva grosso modo la mia età e passavamo i pomeriggi a sparare palline di stucco con le cerbottane ai piccioni del cortile o ingaggiavamo battaglie con un vicino di fronte un po’ più grande di noi, coalizzandoci due contro uno. I vicini di sotto si lamentavano per le palline di stucco che, cadendo, sporcavano la biancheria stesa. Non era un nostro problema. Passavamo addirittura i momenti di tregua cercando i proiettili del nemico appiccicati sui vasi delle piante o sulla grondaia, che staccavamo e riutilizzavamo come materiale da lancio.

Mentre noi eravamo in piena pre-pubertà, insomma la nostra infanzia era agli sgoccioli, il fratello di mezzo, quello punk, si incontrava con quelli della sua ghenga in piazza Diaz, proprio sotto il colonnato del teatro. Nessuno passava di lì perché facevano paura, alcuni già si facevano di eroina e c’era sempre il rischio che qualcuno si facesse avanti per cercare la rissa, chiedere spiccioli, provocare i passanti. Io mi sentivo al sicuro solo se c’era il mio vicino mischiato nel gruppo e che sarebbe stato pronto a far desistere gli altri punk dall’importunarmi, i ragazzini come me erano bersagli facili. Poi una volta invece è successo e lui ha fatto finta di niente e così sono scappato. Ma se devo dir la verità, forse si tratta di un falso ricordo, una di quelle situazioni che a furia di figurartele poi passano gli anni e li confondi con i ricordi veri e propri.

Il problema era che praticamente tutti si facevano, quindi non potevi imputare a certi mentre ad altri no i comportanti deviati perché si deviava tutti insieme, era una società che andava dalla parte sbagliata e dico questo naturalmente a seconda del punto e del momento in cui la guardi. Oggi che siamo qui a premere pulsanti ci sembra tutta una follia collettiva. Ieri che era normale spararsi addosso no. E infatti non devono essere trascorsi nemmeno tanti anni che poi quel nucleo di irrequieti si è dissolto. I pochi più radicali degli altri sono diventati rudeboy a tutti gli effetti, qualcuno forse è dato per disperso ma la maggior parte ha scollinato verso la tossicodipendenza standard. L’eroina più importante della musica, della rivolta, del cazzeggio anarcoide, di tutto il resto.

I Total Crash avevano fatto poi da supporter ai Ramones e i Drull avevano pubblicato un paio di pezzi in una compilation di punk italiano. Tutto questo mentre il mio vicino di casa era stato mandato lontano dalla città e da Piazza Diaz come si faceva ai tempi, che non ho mai capito come potesse servire il semplice allontanare le persone dalle loro abitudini quando queste sono diffuse ovunque e facilmente ricostruibili indipendentemente dall’ubicazione geografica. In qualunque posto si poteva trovare eroina nel giro di un quarto d’ora. E una volta sparito dalla circolazione, erano passati più o meno due anni da quando facevamo le battaglie con la cerbottana, anche il fratello più giovane che era appunto quello che giocava con me aveva anche lui cominciato con la droga. Per non parlare del dirimpettaio, il nostro nemico comune delle battaglie da cortile, che poi a un certo punto era sparito, qualcuno diceva fosse finito in comunità. Ma capita che qualcuna di quelle facce conosciute si intravedano ancora. Non sempre il decorso dell’eroina è coinciso con l’epilogo peggiore, qualcuno si è salvato per un pelo, altri li incontri e non lo diresti mai. Il vicino ex punk ora è un normale padre di famiglia, ha la barba bianca, scende le scale di corsa come quando si precipitava a raggiungere gli altri in piazza, con le scarpe da tennis rotte e il bomber blu sulle spalle.

un tributo ai 90 dei Depeche Mode

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Secondo me il nuovo singolo dei Depeche Mode

contiene richiami a Angel dei Massive Attack

e dal punto di vista armonico a Glory Box dei Portishead.

Trovate anche voi?

storia di un mp3

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Il fatto che si tratti di un agglomerato di nonsisabenecosa, se ennemila sequenze in codice binario o una sorta di merda d’artista nel senso manzoniano – Piero, che non è quello vero (semi-cit.) – o altresì il reale concentrato dell’anima di una canzone, la sua rappresentazione grafica molto ma molto più rassomigliante alla sua vera natura, alla faccia del solfeggio parlato e del setticlavio. Qualunque cosa esso sia, l’mp3 ha la sua dignità sin da molto prima del tamagotchi, per dire, perché ci sono tanti modi per essere considerati digitalmente tangibili e non solo perché c’è un pugno di byte da accudire, fargli fare la cacca, metterlo a nanna, o lasciarlo morire in un impeto di cybercinismo. E, ora, non voglio fare la figura di quello che sapeva già tutto prima o il precursore a tutti i costi, ma l’mp3 di cui vorrei raccontarvi la storia è comunque la prova provata che un contenuto digitale ha una sua dimensione di corporeità e di spiritualità. Altrimenti come spieghereste il fatto che oggi, almeno quindici anni dopo l’inizio di questa storia, quel mp3, una volta messo in funzione, sprigiona le stesse proprietà di quando si è materializzato la prima volta – perdonatemi il gioco di parole – ed è stato contestualmente archiviato ospite clandestino in una memoria fisica – per modo di dire – di mio dominio. Si tratta di un prestigio che è accresciuto a dismisura. Basti pensare al valore dei luoghi di culto che agli mp3 oggi dedichiamo, dispositivi da centinaia di euro e tutta la letteratura che ne è generata, gente che è finita pure sul lastrico per colpa dei control c e control v compulsivi. Insomma, con un’esposizione mediatica così ampia ci dev’essere senz’altro qualcosa di più.

Comunque l’mp3 di cui vi volevo raccontare qui venne trasferito di nascosto con un sistema addirittura precedente ai vari Napster e i famigerati peer2peer. Perché si cercavano liste relative a contenuti di server pirata che, giorno dopo giorno, crescevano sempre di più – la cosa stava sfuggendo di mano – e a cui si accedeva tramite client del calibro di BulleProof FTP. Ma all’inizio la paura di essere scoperti non era virtuale, così quelli pavidi come il sottoscritto scaricavano poca roba per volta. E quello, l’mp3 protagonista di questa storia, è stato il primo. Che già il mattino dopo in cui avevo lanciato il comando di download, lo avevo trovato apparentemente menomato, come se si fosse gettato nell’hard disk di mia competenza senza paracadute e, nell’urto, si fosse danneggiato. Ma si trattava solo del nome un po’ ammaccato, un’infilata di caratteri che nel passaggio da un sistema operativo a un altro erano stati brutalmente troncati dall’ottavo in poi e sostituiti in blocco da un simbolo di tilde, il segno “~” . E nella primitiva release di Winamp non mi risulta che si potessero ripristinare le informazioni sul brano, artista o che altro come oggi. Così quel mp3 fu masterizzato di nascosto – insieme a una cinquantina di suoi simili – su un cd come i neonati si registrano all’anagrafe con quel buffo nome che solo il proprietario avrebbe potuto riconoscere tra mille, un nome di otto caratteri che era “INTERST~.MP3”, tutto maiuscolo.

Una sua istanza era stata contestualmente decompressa e agghindata con il vestito della festa, un formato traccia audio riconoscibile dai lettori cd più avanzati che chiudevano un occhio sulla discutibile provenienza e fabbricazione del supporto da leggere. Il nuovo ordine mondiale muoveva i primi passi. Interi eserciti di compilation autoprodotte risuonavano negli impianti casalinghi in barba a chi riconosceva i difetti nei 128 kbps sulle frequenza acute ma a tutto vantaggio di quelli che avevano sofferto l’impennata dei costi del materiale originale, un rincaro che aveva negato a un’intera generazione l’accesso alle cose più belle degli anni 90, una volta che il vinile era stato archiviato indegnamente a causa del grande complotto dell’industria musicale. Quel formidabile cavallo di Troia che poi, ritorcendosi contro, ne ha sancito la morte irrevocabilmente.

Poi sono stati immessi sul mercato illegale tutti quegli strumenti di esproprio culturale proletario, gingilli che a seconda della connessione ti facevano entrare in possesso di tutta la produzione musicale desiderata. I file audio hanno potuto aumentare la mole di informazioni contenuta, si sono gonfiati fino a 320 e rotti e i nomi stessi completi, fino a tutte le tag che oggi rendono persino inutili le cartelle e le playlist, tanto è facile trovarli in hard disk da migliaia di giga. E rimettere su disco fisso quel materiale di archeologia digitale estratto dalla rete con lo stesso spirito dei cercatori d’oro nel Klondike è un’operazione che i primi mp3 che ci hanno allietato in cuffia o a tutto volume delle casse se lo meritano, eccome. Per questo “INTERST~.MP3” è e resterà il mio preferito, e ne ho scaricate altre versioni anche con tutto il pacchetto dell’album a cui tale canzone appartiene, ma vi giuro che non ha lo stesso sapore. Sarà il maiuscolo, sarà lo spirito del pionierismo, ma portarlo fino a qui lasciandolo con quella connotazione da Windows95 fa parte di un senso di rispetto per la memoria, non quella del pc ma quella vera, quella che invecchiando sbiadisce un po’.

“losing my religion” in maggiore (adoro questo genere di iniziative, grazie)

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