Non ho visto in giro, tra le varie playlist di canzoni più o meno contro la Thatcher e quello che rappresentava quando guidava il governo inglese, questa qui. Che magari non c’entra nulla ma la cita in un verso della prima strofa: “I’ve been abused and I’ve been confused / And I’ve kissed Margaret Thatcher’s shoes”. Ma il bello di questo pezzo è il titolo che non ha eguali in quanto a sintesi della nostra esistenza, la cui dignità probabilmente ai tempi della Thatcher – e non solo in UK – era ridotta proprio così, ai minimi termini. Birth. School. Work. Death.
alti e bassi di fedeltà sonora
The National – Demons
StandardEcco il primo estratto dal nuovo album dei The National, Trouble Will Find Me, in uscita il prossimo 21 maggio.
l’insostenibile leggerezza di andrew
StandardSe io vi dico Fletcher molti di voi penseranno all’istante alla signora in giallo oppure all’omonima regina della blogosfera genovese. E già qui ci sarebbe molto da scrivere. Invece no, questa volta mi riferisco a uno dei membri fondatori dei Depeche Mode che, come sapete, sono appena tornati alla ribalta con un disco davvero niente male. Andrew Fletcher è quella specie di ingegnere biondo che divide il palco con il resto della band ma che non si sa bene cosa faccia. Un tempo, quando i dM erano un quartetto e stavano tutti dietro ai synth a parte Gahan, andare a un loro concerto significava accettare sulla fiducia il fatto di assistere all’esecuzione di molte parti preregistrate o affidate a sequencer. Addirittura, agli albori, il gruppo si presentava al pubblico con un vistoso multipista a bobine, considerato il quinto elemento della band. Poi c’era Martin che faceva i cori, Dave che si sbatteva come una iena a far le piroette e cantare, Alan che lo vedevi sempre pestare le mani sulle tastiere, e Andrew invece nulla. Qualche balletto, battere le mani a ritmo, manovrare qualche manopola sugli strumenti e stop. Poi c’è stata la progressiva penetrazione della componente elettrica sull’originario tappeto elettronico, Martin quasi sempre dal vivo con la chitarra. C’è stata pure qualche turbolenza nella formazione, Alan è uscito dal gruppo ed è entrato un batterista che è una macchina quanto il resto del suono che i dM propongono ormai da più di trent’anni. C’è persino un tastierista in più. E ancora Andrew Fletcher è lì, in piedi dietro al suo set, un po’ imbolsito e sempre più ingegnere, ma la sostanza non cambia. A volte assente, a volte sul pezzo, qualche incitamento della folla, qualche passo a ritmo anche se l’età inizia a farsi sentire, qualche cursore da spostare qui e là, ma per il resto è sempre la stessa solfa. Nelle esecuzioni in tv, le telecamere non lo riprendono nemmeno. Forse è il manager stesso dei dM che si mette d’accordo con i registi e i cameraman. Quello lasciatelo perdere, gli dicono, che fa finta. Ed ecco il grande dubbio a cui non si trova risposta. Che diavolo fa Andrew Fletcher mentre gli altri dei Depeche Mode suonano?
chi fermerà la musica, l’aria diventa elettrica
StandardVi siete mai chiesti cosa fanno i tre o quattro ragazzi, chitarre e synth e batteria alla mano, quando per la prima volta decidono di incontrarsi in un luogo insonorizzato per suonare insieme? Un gruppo si decide a tavolino quando a uno o due del nucleo originario gli viene in mente che fare una band è la risposta. È la domanda che non è ben chiara. Cioè dove scatta il passaggio per cui le cose non è più abbastanza farsele da solo ma occorre trovare compagnia. È un po’ come quando decidi che quella deve essere la tua ragazza perché ha i capelli così e il seno cosà e in quel periodo anche se non c’è la scinitlla ci si può accontentare, anche perché i parametri comunque sono quelli corretti e intanto cominciamo con il frequentarci, l’amore verrà da sé. Ben altra cosa è il colpo di fulmine travolgente, quello ti investe che poi non ne puoi fare a meno e non mangi e hai lo spleen che manda all’aria tutto il resto dei piani, la tua band compresa. Già, perché poi raramente i rapporti sentimentali continuativi e i gruppi musicali possono essere conciliati, ma questa è un’altra storia. Quella cosa lì che è un po’ come il primo amore funziona che si è in quattro adolescenti e non sembra ci sia altro da fare che mettersi insieme a suonare. Punto e basta. Quando sei più grande e disincantato sulla mitologia che gira intorno alle affinità elettive i gruppi li fai con gli amici degli amici che ti hanno detto che cercano il tale strumentista oppure, in tempi più recenti, con quel grande mare aperto che è il web in cui è a portata di mano il traffico di mogli dai paesi più poveri, figurati qualche musicista deluso dalle luci spente della ribalta che cerca il finto anonimato nei social network per rockettari. Perché poi arrivi già abbastanza esperto e disilluso sull’approccio da tenere proprio come agli appuntamenti combinati con le ragazze, quelli in cui sai come si fa a baciarsi e le tecniche per palpare o per procurare piacere come hai già esercitato precedentemente o hai visto fare nei documentari, chiamiamoli così. Allo stesso modo con quelli che hai contattato per metter su la band ti guardi pronto a parlare quel linguaggio che sai a memoria da solo, la lezione che hai ripetuto a casa ennemila volte sul dischi dei tuoi gruppi preferiti ma poi quando c’è da produrre qualcosa di tuo come si fa, se il tuo è il frutto di un lavoro a più mani? Per questo la convenzione più diffusa è iniziare con le cover, come il primo bacio con la lingua che dai è tutta tecnica e poca passione. Si decide al telefono o via e-mail un pezzo che piace a tutti, ciascuno si prepara in solitario proprio come si fa con le proprie parti del corpo per vedere se nel momento giusto sono ancora reattive, quindi qualcuno batte quattro – raramente è un pezzo dispari a rompere il ghiaccio – e già dopo qualche minuto, se non se più un ragazzino, l’esito è bello che servito. Ti accorgi subito se ci sono le basi per un rapporto duraturo o se è meglio finirla subito. L’equivalente del solo sesso non c’è, al massimo in certi stili da suonare solo di pancia nei posti in cui si suda e tutti si fanno canne dall’inizio alla fine. È dato per scontato che l’idillio non esiste, ci sono tutta una serie di compromessi che però prescindono dalla corretta percezione dei generi musicali. L’indicazione o i generi e gruppi di riferimento la si dà sempre, e sta negli altri che acconsentono a non bluffare in eccesso perché poi ti sfido a provare due o tre volte alla settimana per due ore roba che proprio ti fa schifo e non c’è verso a cambiare l’indole con il tuo approccio da salvatore del mondo e, in questo caso, della musica vera che è quella che intendi tu. Ci sono però dei parametri al di sotto dei quali capisci che le persone che hai scelto sono cool oppure no. Se fai rap e ti trovi uno che fa il gesto delle corna con la mano, tanto per fare un esempio. Quello è una distorsione del modo di gesticolare degli afroamericani che le parodie del genere hanno portato fino alla sintesi per caratteristi da rete ammiraglia televisiva come Gigi Proietti, che l’abbiamo visto tutti scimmiottare l’hip hop con il cappellino alla Jovanotti. Oppure quelli che pensano che per fare house sia sufficiente cadenzare note con il synth a distanze di semitoni che poi tutto sembra un eterno remix di “19” di Paul Hardcastle, con la drum machine da break dance sostituita con l’un-tz un-tz del caso. Chi si ricorda poi del moto dissacrante verso il genere più distruttivo di tutti, quel punk che in Italia ha preso piede con le lamette e le spille da balia che nemmeno a carnevale, mentre alla radio passavano parodie come “Pus” di Andrea Mingardi. Per questo poi alla fine c’è sempre il capo orchestra, che nel rock e i suoi derivati ha sicuramente un job title più sexy e adatto all’ambiente, che fa tutto da sé e sa imporsi. Arriva in sala prove e dice giustamente a tutti cosa devono fare, le parti che si amalgamano alla perfezione perché sono già tutte incise nella sua testa. Fino a quando poi scopri che tanto vale sfruttare le conoscenze informatiche e i programmi multitraccia per lavorare in proprio. Usare il te stesso polistrumentista che tanto con gli strumenti finti è facile alla fine fare tutto. Molto meglio così che attendere la fine di un solo di chitarra che non arriva mai, rincorrere cassa e rullante in costante accelerazione, bassi che seguono scolasticamente l’armonia con sfoggio di cose come lo slap. Ecco, sono giunto alla conclusione che il sistema c’è, ed è quello di pagarsi turnisti e scrivere per filo e per segno le parti, ma lo so, i più dicono che è come andare a puttane.
ma so che non lo era
StandardDevo essere sincero. Io Jannacci – come del resto Gaber e vi prego di non inorridire – non me lo sono mai filato più di tanto. Principalmente perché un po’ non lo capivo, faceva canzoni troppo sottili e intelligenti per quelli come me, quindi potete immaginare quando ero ragazzino e lui era uno degli esponenti di punta di una cultura che i pischelli a tutti costi aborrivano perché distante dalla voglia di rottura che veniva dall’estero. Voglio dire, oltre all’ignoranza c’erano anche i pregiudizi esponenziali. Una volta mi sono preso pure un cazziatone da un amico intellettuale perché ho confuso con Paolo Conte (idem con patate) la paternità di una canzone, ma non ricordo quale. Quindi a parte i pezzi più stranoti perché disponibili a profusione grazie a canali incrociati e mi riferisco all’Armando, alla fetta di limone nel tè, alla vita l’è bela, al secchio che fa rima con l’orecchio e all’irriverente sa l’ha vist cus’è sono arrivato a scoprire il resto, come molte altre cose da grandi come un certo jazz e una certa letteratura, solo da adulto. Non sono un esperto come molti di quelli che stanno a ragione coccodrillando l’Internet in queste ore, quindi non posterò nessun tributo a ricordo dell’artista scomparso, anzi non pubblicherò nemmeno queste righe. Scherzo. Mi spiace molto anche per un altro pezzo di novecento che se ne va, di cose con cui sono cresciute le generazioni addietro, di quell’Italia in bianco e nero e di periferia lontana dagli strass di mediaset e dalle stelle grillesche che oggi va in onda dopo mezzanotte, su Rai Storia.
Ma non è tutto. Ho un amico musicista che ha suonato con il figlio di Jannacci, e la cosa divertente è che nel periodo di quella collaborazione invece io ero stato contattato dal figlio di un cantante genovese che era stato lambito dal successo alla fine degli anni 50 grazie a un singolo beat, una vera una tantum dopo la quale era tornato giustamente nell’oblio da cui proveniva. Suo figlio mi aveva telefonato a casa, il beat ormai non esisteva e forse era stato appena messo in commercio il telefono Sirio a pulsanti che, da un punto di vista estetico, era meglio nasconderlo nel cassetto del mobile in corridoio vicino all’unica presa tripolare. Durante la conversazione ce l’aveva messa tutta per convincermi a far parte della band che avrebbe accompagnato il rilancio della carriera del padre. Si era però scusato per il pressing dicendo una cosa tipo “sai com’è per i figli di grandi artisti”. No, io non lo so com’è perché mio papà è un contabile in pensione. E chissà perché, dopo aver rifiutato e abbassato la cornetta ho subito pensato al mio amico che stava facendo strada con la sua batteria e al figlio di Jannacci che lo aveva contattato. Ma non volevo parlare di me a tutti i costi, ma di lui, di Enzo, con il quale poi l’amico batterista ha pure collaborato. A mia nonna non piaceva Jannacci, diceva che gli sembrava sempre ubriaco ma non fa testo, lei canticchiava le hit storpiando le parole, come in “Luna” di Gianni Togni diceva “E guardo un mondo da un gloglò”. E poi la mia di origine non è una famiglia di milanesi, e secondo me certe cose proprio non le possiamo capire.
7. Sense of Doubt – 3:57
StandardPensavo di acquistare il vinile del nuovo disco di Bowie ma non credevo che andasse fino in fondo con la copertina che, se l’avete vista, è Heroes con una pecetta sopra con su scritto il titolo del disco in un font di sistema che nemmeno Windows 3.1. Voglio dire, capisco il significato dell’operazione ma pensavo si limitasse alla campagna pubblicitaria, volta alla persuasione del pubblico di riferimento che il caro David fosse letteralmente risorto e a smentire le voci che davano le sue condizioni di salute non proprio buonissime. Ora, inutile sottolineare che la mia collezione di dischi comprende l’intera trilogia berlinese compreso l’album suddetto, un po’ sgualcito visto che risale al 1977, quando mio padre teneva la contabilità per un noto negozio di dischi della mia città che talvolta gli faceva omaggio (credo per motivi di tetto massimo di retribuzione) di novità discografiche e potete figurarvi la bellezza della cosa, vista la bulimia musicale che contraddistingue soprattutto la componente maschile della mia famiglia di origine. Quindi avere due elementi della collezione dallo stesso dorso urta la mia sensibilità, che già ho due Black Celebration dei Depeche Mode perché quello originale l’avevo portato a una festa new wave all’epoca e la dj aveva scambiato il vinile rifilandomi una release di Three Imaginary Boys dei The Cure da collezione, uno scambio in cui ci ho indubbiamente guadagnato ma non ditelo a nessuno che ho una copertina che non corrisponde al suo contenuto. E il dubbio di fondo è se tenere il disco insieme agli altri dei The Cure o tra quelli dei Depeche Mode, che è sempre stata una delle mie principali preoccupazioni. Anzi, voi se foste al mio posto cosa fareste? Questo per dire che poi mi ritroverei questo scherzo della natura in casa, in uno dei luoghi più visitati e di culto, facendo scorrere uno ad uno i dischi in ordine alfabetico mi ritroverei sempre a farmi domande sul perché è stata portata a termine una scelta così contraddittoria da un punto di vista meramente estetico senza che mi venisse chiesto un parere. Ci devo pensare. Ah, come avrete capito poi Black Celebration me lo sono pure ricomprato.
ma ritornare, ritornare perché quando ho deciso che facevo da me*
StandardOggi ci siamo chiesti chi potrebbe essere in grado di lavorare otto ore al giorno in un data center, quelli con il corridoio caldo e il corridoio freddo ad alta densità di apparati che fanno un baccano infernale senza interruzione, che già c’è gente che si lamenta per le ventole dei pc figurati in questi tunnel del vento. Ci vorrebbero i paraorecchie. Ma nessuno ci passa più di brevi frazioni della sua giornata lavorativa, qualche ora a staccare e riattaccare cavi e prese, controllare procedure. E nel bel mezzo di questa riflessione ho avuto un’idea. Mettiamo in competizione due macchine. Avete presente Shazam, l’app che ti riconosce la canzone al posto tuo. Caro, di chi è quella canzone…? Quella che fa…? Ma intendi quella di quel gruppo che…? Quelli che avevano fatto anche…? Ora i tempi dei grandi vuoti di memoria sono finiti. Attivi Shazam, metti lo smartcoso in posa davanti alla fonte sonora, e Shazam ti restituisce il titolo, l’autore, il cantante e pure la copertina e anche i link per acquistarla on line. Così ho acceso (si dice accendere un’app? Come accendere la radio?) Shazam davanti a uno degli armadi pieni di server e di apparati di storage del data center in cui mi trovavo per lavoro. Shazam ha compiuto il suo cerchio intorno al suo logo, questa è l’animazione standard che indica che Shazam sta pensando. Shazam ha compiuto il suo cerchio intorno al suo logo e io pensavo a quale canzone avrebbe associato il rumore del data center. Qualche gruppo industrial? Gli Einstürzende Neubauten? Un motivetto dei Godflesh o dei Cop Shoot Cop? Qualcosa dei F.A.R? Ed ero tutto contento per il risultato che avrei trovato e di come avrei potuto descrivere la cosa sul mio blog, sfoggiando tutta la mia cultura musicale, anzi, rumorista, sul genere. E sapete invece cosa ha trovato Shazam?
*no, non ha riportato “Rumore” di Raffaella Carrà
vicini di banko
Standard(Tra parentesi, il titolo di questo post non è granché, lo so). Chiusa parentesi. Riportano varie webzine come questa che Azealia Banks conferma il suo eclettismo pubblicando una cover a sua immagine e somiglianza di “Barely legal” degli Strokes, che non è male e stavo per postarla poi però ho letto bene nello stesso articolo e ho scoperto che Azealia – che lo scrivo sempre Azaelia – aveva già pubblicato remake di cose un po’ lontane dal suo genere, scegliendo addirittura gli Interpol. Ecco, qui sotto potete sentire uno dei miei singoli preferiti della band di Paul Banks tutto stravolto. Toh, che combinazione. Azealia Banks che coverizza Paul Banks. (Avete capito, vero?)
skary monster
StandardDalla pagina di Wikipedia: “Musicalmente Ashes to Ashes è notevole per il ritmo ska in levare, il suo delicato suono d’archi sintetici, contrappuntato dal potente basso funky, e dal complesso cantato stratificato su diversi livelli di Bowie.” Ritmo ska in levare?!? Ashes to Ashes di David Bowie?!?!
umanoidi e no
StandardQuando la gente in discoteca ha iniziato a ballare come i robot è stato il segnale che la componente elettronica nella musica stava diventando preponderante. Ma, David Zed a parte, non è mai stato facile muoversi come pensiamo che le macchine antropomorfe possano fare, nel senso che non ci sono robot che ballano di propria iniziativa se non programmati dagli esseri umani e in film, cartoni o a qualche fiera del settore. Anzi, se esiste una macchina antropomorfa a una fiera di settore dubito che qualcuno la programmi per ballare come un essere umano. Al massimo sarà configurata per eseguire le funzioni per le quali è stata pensata. Spostare scatoloni o pulire aree vaste o che ne so. Comunque un tempo bastava una batteria artificiale o qualche parte ritmica di synth che tutti irrigidivano arti superiori e inferiori e via di automi. E nel mio amore per la natura ricostruita da sempre vivo con fastidio questa associazione inconscia che però è molto comune tra suoni elettronici e replicanti di latta, cioè non sento differenza emotiva tra una corda che vibra e la stessa dopo che è stata digitalizzata e riprodotta. E vabbè che adesso tutto è una sequenza binaria, ma ai tempi dei quattro crucchi qui sotto performance di questo tipo avevano un loro perché. Molti degli spettatori in giovanissima età come il sottoscritto non hanno avuto ben chiaro nell’immediato quali fossero i musicisti veri e quali la loro versione robot, se quelli sul palco o gli altri mescolati tra il pubblico. Probabilmente eravamo tutti più ingenui e credevamo di poter cambiare il mondo, riprogrammandolo.