C’è stato un momento in cui per far vedere agli altri che eri un musicista figo dovevi apprezzare e saper armonizzare su questa canzone. Oggi, dopo che mi sono ravveduto su numerose cose che ai tempi bandivo dai miei gusti anche solo per posa, “Soul food to go” è ancora una delle poche su cui non ho cambiato il giudizio e mi fa cagare tantissimo, proprio come allora.
alti e bassi di fedeltà sonora
almeno tre video con mods che ballano northern soul ingiustificatamente
StandardDal più recente al più vecchio, e se ne avete degli altri vi citerò nei ringraziamenti.
un nuovo brano dei tv on the radio
StandardChe roba, sentite qui o qui sotto dal vivo.
troppi dj, pochi amministratori
StandardLa disaffezione alla politica e il malcontento qualun-vegan-animal-sciochimichista ha spinto un bel po’ di persone nella morsa pentastellare ma, ancor più, nel pantano dell’astensionismo che, giusto per ricordarlo, ormai raccoglie quasi un italiano su due o poco più. E se sono in così tanti che non hanno per le balle di votare, è facile immaginare quelli che impegnarsi in politica in qualsiasi forma non gli passa nemmeno per l’anticamera del cervello. Le cause vanno ricercate senza dubbio nella fiducia verso i partiti o qualunque forma di associazionismo a fini rappresentativi, oggi pari a zero. Ma se io non mi rifiutassi già di dedicarmi a qualunque forma di rappresentatività perché in tale caso rischierei di sottrarre tempo utile al mio egoismo di fondo che mi spinge a privilegiare quello che reca giovamento solo a me, sono certo che rifiuterei di candidarmi a qualsiasi carica pubblica perché, fondamentalmente, di rappresentare molta della gente che vedo in giro non me ne importerebbe nulla. A prescindere dal fatto che molta della gente che si vede in giro non è gente che voterebbe per me. Ma voi lo fareste? Vi impegnereste per il bene comune di persone che lo dilapidano, lo pasticciano, se lo intascano per fini personali, lo nascondono a chi ne avrebbe diritto? Non dimentichiamo che poi gli amministratori pubblici, locali e centrali, sono tenuti ad amministrare tutti, anche quelli di cui non hanno ottenuto il voto. Quindi sottrarreste tempo alla vostra famiglia per chi veste D&G, per chi segue Amici, per chi percepisce privilegi a cui non ha diritto, per chi fa le foto alle barche ormeggiate a Porto Cervo, per chi si riempie di tatuaggi, per chi non ufficializza uno status famigliare per godere delle esenzioni riservate ai bisognosi, per chi ascolta il rap italiano, i metallari e chi ti saluta con “buona vita”? C’è poco da dire, io vi dico già da subito di no ma non ho lo spirito del crocerossino e non faccio testo. D’altro canto, invece, l’Italia pullula di dj. Avete letto bene. Un tempo per fare il dj dovevi spendere centinaia di migliaia di lire in dischi da portarti appresso e non ce n’erano mai abbastanza. Oggi con un portatile e uno di quegli alambicchi che li colleghi via usb puoi avere a disposizione tutto lo scibile musicale universale e scegliere di mettere musica anni 80, ma perché l’hai scelto veramente scartando il resto dello scibile. Quasi dimenticando che poi la differenza la fa saper distinguere un battere da un levare, i BPM, magari dare un senso e una successione logica alla scaletta e non semplicemente mettere a cazzo una canzone dopo l’altra solo perché in comune hanno il fatto di essere musica e di avere una batteria preminente su tutto il resto. Qualche sera fa ho partecipato a una festa e su trenta persone di dj ce n’erano almeno quattro. Una percentuale di tutto rispetto, il 13%. Quasi un partito politico.
da giusto pio al pulcino pio: evoluzione di un disco per l’estate
StandardSe mi chiedete a bruciapelo un disco da associare al mood estivo ho la risposta pronta ed è “La voce del padrone” di Franco Battiato. Ora non voglio farvi il pippotto su un uno degli album più celebri della musica italiana perché potete leggerne storia, vizi e virtù con una banale ricerca su Google. Rolling Stone Italia lo ha classificato addirittura al secondo posto delle migliori produzioni nazionali di tutti i tempi, secondo solo – e immeritatamente, a mio giudizio – a quel Vasco d’altri tempi di Bollicine che anche lì ce ne sarebbe da raccontare sui numerosi singoli tratti da quell’insieme di successi gettonatissimi (oddio cos’ho scritto) nei juke box delle rotonde sul mare. Il valore del disco di Battiato però secondo me è doppio, perché intanto è del 1981 ed è una sorta di suo coming out artistico perché poi i puristi lo menano ancora oggi del suo periodo progressive e sperimentale, ma vorrei far notare a costoro cos’era la musica commerciale italiana nel 1981. Non si può certo paragonare con Bollicine, tutt’altro genere, però la pietra miliare del rocker di Zocca esce un paio di anni dopo e non tocca certo a me ricordare il peso socio-culturale di quei due anni di mezzo. E poi conoscete il mio giudizio su Vasco. Ma per tornare allo spunto di questo post, associo La voce del padrone al mood estivo perché il disco rimase ai vertici delle classifiche praticamente per tutta l’estate dell’82 e, davvero, non si sentiva altro. E non so spiegarvi il motivo, ma io quell’anno lì non me lo sono filato per niente. Non si trattava di snobismo. Non saprei spiegare il perché ma proprio tra me e Battiato non c’era feeling il che è strano, voglio dire, capisco con Vasco Rossi ma con lui boh. Così ho il rammarico di non aver usato un pezzo come “Summer on a solitary beach” come colonna sonora per la bella stagione dell’anno in cui siamo diventati campioni del mondo, di non aver apprezzato abbastanza la sagacia del testo di “Bandiera bianca”, di non aver fatto mio l’inno di battaglia di “Centro di gravità permanente”, di non aver sognato romanticamente sulle note di “Cuccuruccucu”. Forse era quel titolo autoritario che evocava antiche emancipazioni mancate o una ironia difficile da cogliere nell’universo adolescenziale in cui mi stavo perdendo. Ma vi giuro che poi ho recuperato, adoro quel disco e non me ne separerei per nulla in cambio, nemmeno per due album di Neffa che, a dirla tutta, con “Devi stare molto calmo” da “Summer on a solitary beach” ha preso a piene mani. Magari è un tributo, lui l’ha detto ma nessuno se ne è accorto.
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i dieci pezzi più belli dei depeche MODE
StandardDato che siamo in odore di tappe italiane del tour che non vedrò, uno perché costano un botto due perché li ho già visti più volte negli anni 80 e tre perché non c’è Alan Wilder, ecco una mia personale classifica dei loro brani. Ognuno mette la sua, quindi per non scrivere in giro commenti di biasimo perché manca questo e manca quello, perché non fare la mia proposta? Leggetela, anzi ascoltatela, e poi ditemi che cosa notate.
10. Ice Machine
9. More than a party
8. Something to Do
7. Black Celebration
6. But not tonight
5. Love in itself
4. And Then…
3. Get the balance right
2. Leave in silence
1. Shake the Disease
tre allegri ragazzi immaginari
StandardGià, perché sono talmente morti che poi alla fine uno si dimentica chi si tratta. Sicuramente è un problema mio e spero di non offendere nessuno, ma io è da vent’anni che sento parlare della band friulana soprattutto in contesti nei quali è indicata come gruppo di punta di questo e quello e onore alla carriera, per carità. Li vedo a programmi televisivi come portavoce dell’underground e ogni due per tre sono su Repubblica come in questi giorni in cui ricorre il tredicesimo anniversario dell’etichetta fondata dal chitarrista del gruppo. Per non parlare del cantante, Davide Toffolo, da tutti incensato come uno dei migliori fumettisti italiani contemporanei (così dice la sua pagina su Wikipedia). Sta di fatto che vi giuro non conosco nessuno che li segue e che abbia i loro dischi, eppure insomma io e il mio entourage – diciamo così – non è che siamo proprio degli sprovveduti in ambito underground e musica alternativa. Ricordo persino di averli visti dal vivo come supporter dei dEUS ad Alessandria almeno quindici anni fa o giù di lì, in un concerto per zanzare e zampironi all’aroma di Autan. La cartina tornasole di tutto ciò è che, se me lo chiedete, non saprei ricordarvi nemmeno una loro canzone. Eppure, in vent’anni di carriera – si sono formati nel 94 – un po’ di dischi devono averne prodotti per suscitare tutta questa risonanza, con le loro maschere e il mistero che è nato dietro alle loro vite (era ironico). Che poi è un po’ il limite delle cose che si fanno qui, tutte rivolte su sé stesse con i quattro gatti di pubblico che tutti spacciamo come roba di nicchia ma se vogliamo raccontarcela va bene così. No vabbe’, a dir la verità un pezzo me lo ricordo ed è questo qui.
il nuovo video dei Franz Ferdinand
StandardMolto più bello del pezzo, che diciamocela tutta, mah.
una botta e via
StandardC’era una specie di leggenda che aleggiava su un ex collega di un paio di aziende fa. Praticamente aveva indovinato un singolo di quelli che spaccano in discoteca tutto fatto di “i say yeah ah ah i say yeah” e la peculiarità era che non si trattava di uno di quei topi da studio di registrazione che mettono in cantiere decine di progetti musicali al giorno con l’obiettivo di sbarcare il lunario per sfamare sé e basta – i topi da studio di registrazione non amano i rapporti duraturi perché hanno sposato l’arte e tanto meno aspirano alla genitorialità – ma era uno come te e me, no come me no. Diciamo uno che si trastullava a fare il dj e poi ha sognato questo ritornello, lo ha condiviso con un amico produttore, gli hanno costruito tutto il brano intorno e oplà, il successo è servito. Non stiamo parlando di “Da da da” o “My Sharona” dove magari c’è anche un certo sforzo dietro in originalità (il primo) e in bravura tecnica (il secondo), ma di quei micro-tormentoni a breve ciclo di vita. Metti via un po’ di grana grazie alle vendite, i passaggi radio e tv, i diritti eccetera e magari ti ci compri la casa, fai un fondo con la speranza di non spenderlo in badanti quando sarai vecchio, metti su un’attività. Un sistema che nell’era del pulcino pio fa ridere, nel senso che come dice il fake di Casaleggio i giovani possono essere pagati in like, perché se magari un tempo il pezzo da una botta e via – e vi chiedo scusa se siete arrivati su questo post pensando a chissà che cosa – aveva un valore comparabile con il tredici alla sisal, oggi ci hanno anche preso quello e chi scrive, suona, fotografa o monta (nel senso dei video) lo fa per la gloria che sul web è ancora più volatile, e poi arriva il coreano di turno e ci seppellisce tutti con i suoi balletti.
Comunque a me è venuta un’idea per fare un successone di questi e mi è venuta mentre guidavo verso casa ieri sera, lo sapete che i mezzi di trasporto privati e pubblici con il loro incedere più o meno costante rilasciano rumori e suoni a tempo che per chi ha il ritmo nel sangue, senza esser necessariamente afroamericano, coadiuvano quella creatività distratta, quella che scorre parallela ai pensieri e che se non stai attento o non ci sei abituato poi dopo due minuti la perdi. Conviene fermarsi e prendere qualche appunto. Io che sono uno di quelli che tiene il tempo mentalmente anche con la sirena dell’ambulanza, questo quando sto in compagnia perché se non mi sente o vede nessuno faccio pure i versi di groove di beatbox, ho iniziato a canticchiare una notissima canzone da oratorio che non vi dico perché altrimenti mi rubereste l’idea e veniva fuori un pattern house perfetto. Ho immaginato poi una melodia tutta gridolini al femminile da metterci sopra e diventava un brano perfetto per spaccare in disco, sul web, magari con un video virale. Ma è successo che le pupille a forma di dollaro mi hanno annebbiato la vista e a momenti tiravo dentro un cancello in una strada un po’ stretta. E quel frangente è stato fatale, la botta l’ho evitata ma la botta e via è svanita insieme all’ispirazione. Peccato, si vede che non è un modello che fa per me.
allo stadio però c’è un concerto rock
StandardIn certi momenti, due stati d’animo convivono in me malgrado la palese contraddizione. Del resto, se ogni tanto leggete da queste parti, sarete abituati al vero motto del blog che è “tutto e il contrario di tutto”, altro che la prossima vita e il futuro e le puttanate varie che mi invento. No perché da una parte mentre mi reco ai concerti malgrado la mia veneranda età, in cui al massimo dovrei accompagnare i figli per poi aspettare chiuso in macchina la fine dello spettacolo per riportarli a casa, in quei frangenti mi guardo intorno e ho l’impressione che tutti stiano andando verso la mia stessa meta. In auto i fan come me sono facilmente riconoscibili perché quando li supero o mi superano in autostrada vedo le sciarpe e cuscini dei Guns N’ Roses e penso che bello, sto andando a sentire i Soundgarden che casualmente aprono il concerto di quel gruppo di tamarri metallari. O ancora, se siete musicisti o ex come il sottoscritto, vi sarà sicuramente capitato di incrociarvi con altre band agli autogrill. “Dove suoni stasera?” “Ai Murazzi, e voi?”. Ed è anche facile individuare i gruppi sconosciuti che rubacchiano gelati e roba da poco consumandola prima di arrivare in cassa, perché vestono più o meno simile e stanno tutti compatti, poi arrivi nel locale dove ti devi esibire e scopri con sorpresa che sono loro quelli con cui dovrai dividere la serata.
Per i mezzi pubblici, invece, il discorso è differente. Se sono sulla metro come ieri sera, mentre raggiungevo Matt Berninger e la doppia coppia di fratelli che si aggiungono a lui nella formazione dei The National, in concerto all’Ippodromo di San Siro, riconosco nelle facce quelli che si contenderanno con me i posti migliori scoprendo poi, alla fermata di Lotto, che non scende nessuno con me perché sono tutti impiegati che rientrano dall’ufficio, gruppi di ignavi studentelli seguaci di quella roba che i media si ostinano a definire rap italiano, stranieri che a malapena hanno di che sfamare i figli e figuriamoci se spendono sessantasei mila lire per un gruppo tremendamente di nicchia. Che invece non è più così, ed è questo il rovescio della medaglia. E cioè che questa cosa per cui c’è gente che conosce i gruppi che piacciono a me mi urta, e ora “questa gente” sono pure in tanti. Anche se lo spazio per la loro esibizione, ieri sera, era oggettivamente sovradimensionato e dispersivo. Tanto che si vedevano persone spostarsi in libertà da un punto all’altro del prato, che tra me e me pensavo che senso ha camminare durante un concerto quando l’unico motivo per cui uno ci si reca è quello di concentrarsi sull’esibizione, cantare le canzoni, ballare, o al massimo puntare il proprio smartphone in direzione delle migliaia di altri smartphone puntati contro il palco.
Questo per dire che, se pensavate di trovare una recensione del concerto di ieri, siete capitati sul blog sbagliato. I The National poi sono impeccabili, suonano divinamente, sono animali da palco e non è banale esserlo facendo il genere che fanno loro, hanno ormai un repertorio talmente ampio che alla fine sono tutti a dire ah non hanno fatto questa o peccato non hanno suonato quell’altra. Io sono arrivato giusto in tempo per perdermi Colapesce, che mi fa cagarone forte eh, e stava suonando quella cover band degli Smiths al fondatore della quale vorrei ricordare che la sineddoche – la parte per il tutto – è una figura retorica che poco si presta al pop-rock.