Un tempo qui era tutta musica chill out ed era molto facile sfruttare il minestrone commerciale della new age da supermercato per rilassarsi nei diversi momenti della giornata. Si trattava di un buon momento storico in generale, un discreto compromesso tra qualità, prezzi, persino evoluzione tecnologica e persino stabilità politica apparente. C’erano momenti lounge alla mattina, in penombra mentre preparavi colazione. momenti budda bar alla sera mentre cuocevi il fegato a luci soffuse. Era molta la musica da relax che avevamo a disposizione, esistevano interi cicli di programmi radiofonici che conciliavano il sonno, con lo speaker con la voce grave che ci accompagnava verso viaggi notturni con destinazioni monegasche. Io per esempio avevo una radiosveglia con lettore CD su cui potevi impostarne l’avvio all’ora prescelta, e mi piaceva svegliarmi con Moon Safari degli Air, il crescendo di “La Femme d’Argent” era perfetto perché ti riportava in modo radicalmente discreto verso una nuova giornata da vivere nella bolla economica, l’ultima prima della recessione. Altri preferivano uno dei tanti jazzisti che per vendere qualcosa avevano messo il loro estro in mano a dj dai nomi di altri tempi e a tutto un filone di grafica retro per un’intera generazione di produzioni strumentali a bpm variabili ma tutte dallo stesso sapore armonico, con le trombe e i sax tutti effettati per prolungarne la presenza e cancellare le pause che, se nel jazz sono musica, nello show business sono perdita di tempo e spreco dei soldi investiti in arte. Ci sono ancora echi di questo plasticume pre-fibra ottica, la madre di tutti i random sui giga di roba scaricata che in fondo bastava avere una manciata di pezzi che tanto erano tutti uguali. Ci sono gli echi perché poi a un certo punto è arrivato qualcosa che ha spazzato via tutto tanto che ora chi ha bisogno di diluire il logorio della vita post-moderna ricorre ancora a quella ingenua formula chimica ad alta percentuale di elettronica, in un infinito bacino di suoni e samples cui attingere tanto che ormai nessuno ci fa più caso. Tanto vale riciclare un po’ di quell’eccesso di roba messa in commercio, uno vale l’altro, pure gli Air non fanno più nulla ma loro erano la punta dell’iceberg. C’è da chiedersi cosa faranno ora i produttori seriali di benessere emotivo da vestaglia da casa, quelle cose che ti metti su – abbigliamento ma anche sottofondo sonoro – perché stanno bene e si intonano perfettamente con la solitudine. Comunque gli Air li ho visto pure dal vivo e, tipologia di pubblico a parte, mi sono divertito un casino.
alti e bassi di fedeltà sonora
e noi del conseguimento del sessantesimo anno di età
StandardMi unisco all’agiografia dedicatagli da Leonardo su Il Post augurando a Giuliano Lindo Ferrara, pardon, Giovanni Lindo Ferretti di trascorrere un lieto compleanno nella sua Emilia Paranoica ora miracolata. Vi confesso che non ero poi così deciso nell’espormi fino a quando ho dato un’occhiata a questa splendida versione di “Io sto bene” in cinese, postata da un blog più che meritevole di essere seguito, e giuro che riguardo alla cover non sono ironico: l’interprete cinese, con tanto di copricapo evocativo che va oltre la post-modernità, riprende pienamente lo spirito di uno dei migliori pezzi dei CCCP. Molto meglio, per dire, delle parodie e degli adattamenti realizzati – per esempio – recentemente da tribute band composte da ex componenti originari del mio gruppo filosovietico preferito. Quanto a te, caro GLF, lo sai che a noi piace ricordarti così. Senza offesa, eh.
ho visto in sogno il tuo successo
StandardCaro Andrea Ceccon, la mia stima acritica e motivatamente campanilista per il tuo genio è testimoniata dal fatto che ad appena pochi giorni dalla scoperta del tuo nuovo progetto, i Rusenenti, ho già sognato un paio di notti fa una vostra esibizione, forte di una ripresa sommaria testé visualizzata su youtube a documentare un vostro concerto. Nel sogno eseguivate un adattamento di “Firestarter” dei Prodigy per strumenti acustici e in lingua italiana, il cui titolo era “Attaccabrighe” che poi dovrebbe essere il suo significato vero, molto più attinente e appropriato del letterale “colui che appicca incendi”. Ricordo persino il testo delle strofe, una serie di nonsense con diverse rime tipo “sono un attaccabrighe/ho anche una maglia a righe”, oppure “sono un attaccabrighe/che suona solo gighe” e ancora “sono attaccabrighe/se tu sei attaccabrighe” fino alla scontata “sono un attaccabrighe/che attira tante fighe”. Tu seduto dietro ai tamburi tenevi il ritmo, che nel pezzo originale è in intruglio di campionamenti anni 90, e cantavi con il ghigno beffardo che ti porti dietro sin da quando insultavi cameratescamente ma mica tanto una delle voci più atroci della tua celebre band a cappella, che davvero lì in mezzo con quel cognome non si poteva rispettare per un cazzo. Prendi così questa visione onirica come un fruttuoso presagio e metti in repertorio la cover di “Firestarter”, potrebbe essere davvero la svolta e ti prego, la prossima volta che mi compari in sogno anche se non sei morto dammi qualche numero da giocare, per vincere e diventare milionario. Prometto di investire sui Rusenenti e sul loro primo singolo in vetta alle classifiche – anche dell’entroterra genovese – dal titolo “Attaccabrighe”.
ecco perché dovreste smettere anche voi
StandardVivo il mio aver smesso di suonare un po’ come penso accada a quelli che dopo aver passato la vita da eterosessuali a cinquant’anni esplodono in tutta la loro gayezza e fieri sbandierano il loro coming out a supporto dell’equilibrio finalmente ritrovato. Uno passa decenni a pensare che inondare i propri spazi con suoni autoprodotti sia la chiave per assimilare la realtà e restituirla fuori sotto forma di rapporti armonici, melodici e ritmici, realizzando quindi il proprio sé con l’emissione di vibrazioni dirette al prossimo e poi quando decide di darci un taglio si accorge che no, il turbamento che lo ha accompagnato sin dalla comparsa dei primi peli pubici derivava proprio dall’incompletezza e dall’inadeguatezza alla dimensione musicale come canale espressivo. Voglio dire, non è che la mancanza di un referente in grado di gratificarti con feedback di comprensione sia l’unico aspetto che conferisce allo suonare uno strumento i caratteri del coito interrotto spingendo l’individuo a volerne sempre ancora perché impossibilitato a portare a termine almeno una prestazione. Le frustrazioni sono molteplici, e quando ti sei liberato di un passa-perdi-tempo così poco costruttivo ti accorgi di quanto sia bella la vita fuori dalla cantina, lontano dai compagni di gioco, dall’altra parte del palco a potersi liberamente inorridire dei problemi irrisolti delle adolescenze altrui. Forte di questa superiorità morale mi sento autorizzato a pensare, ogni volta che accendo la tv e c’è la classifica italiana di MTV, ogni volta che clicco play su qualche canzone postata di gruppi o cantautori locali su Facebook, ogni volta che qualcuno mi dice sai suono in una band, ti faccio sentire i nostri pezzi. In tutti questi frangenti mi parte in automatico un commento che solo la mia buona educazione mi consente di tenere represso, anche se vorrei guardare negli occhi artisti e ascoltatori e dir loro, in tutta franchezza, ma cos’è questammmmmerda?
three at least, free at last
StandardTre storie di richieste di libertà, di denuncia, di riscatto. La prima è di Linton Kwesi Johnson, che chiedeva la liberazione di George Lindo:
La seconda è degli Specials, che cantavano contro l’arresto di Nelson Mandela nel modo più gioioso possibile:
La terza è degli Asian Dub Foundation ancora con Deeder, che volevano libertà per Satpal Ram:
e lo so che per prevenire i commenti di chi so io dovrei fare un cenno a “free anche mio cugggino”.
Piuttosto, semmai, Liberi tutti.
Cattaneo senatore a vita
Standardbelli e d’annata
StandardLo strano caso del novantaseienne che ha commosso il web con una canzone d’amore composta per la moglie scomparsa mette il tempo dalla vostra parte, cari amici che con oltre cinquanta inverni sul groppone continuate a postare quotidianamente sui socialini mainstream le vostre canzoncine con lo stesso spirito di quando le strimpellavamo insieme al ritmo della sala prove. Ciò significa che sono io quello in difetto, che stavo per dedicarvi l’ennesima invettiva brontolona giacché ogni mattina corredate il vostro saluto duepuntozero con uno dei tre barra quattro pezzi del vostro repertorio più attuale, che per motivi anagrafici risulta sempre meno zompettante e con toni tendenti a una mestizia geriatrica che capisco, visto che anche io, che faccio la stessa cosa con questa specie di rubrica egoriferita, ne sono nel bel mezzo. Un punto per voi e l’ennesimo smacco nei miei confronti. Ma come darvi torto? Sarebbe interessante d’altronde mettere a punto una volta per tutte questo benedetto sistema in grado di rilevare la ragione di una persona o la percentuale di essa rispetto a un contendente. Certo, realizzare un software o un’app di questo tipo è impossibile, direte voi – anche se è bene non dimenticare che nei blog può davvero succedere di tutto – ma la difficoltà principale consisterebbe nell’impostare i parametri e gli algoritmi su cui far funzionare il sistema in quanto comunque i principi dovrebbero essere pensati e immessi da un essere umano e allora saremmo daccapo perché subentrerebbero le annose questioni sulla giustizia, l’interpretazione dei fatti, i valori morali in base ai quali si spiegano e si tramandano le cose e via così. Ditemi quindi se lo fate per racimolare ancora un po’ di figa contatti femminili o, come il virtuoso Fred Stobaugh, provate tutte quelle cose lì, altrettanto profonde. Ma visto che oggi mi sento vittima di vittimismo estremo, ve la dò vinta, tanto io ragione non ce l’ho mai. Così, a prescindere.
The National – Graceless
Standardmi son distratto un attimo
StandardAvete sentito bene. Siete proprio voi, decine di milioni di persone che da più di trent’anni continuate ad acquistare i dischi di Vasco Rossi, a non aver capito un cazzo. Voi, orfani dell’irriverenza al sistema col distorsore acceso per un impatto trasgressivo del calibro del Rock di Capitan Uncino, voi avete ceduto a una delle più semplici equazioni, rock più parole dritte alla pancia uguale evasione dall’ordinario accompagnata da beveroni con superalcolici da discount. E non dite che non è vero, perché se non vi foste fermati al primo tamarro che passava tanto eravate stufi della trascuratezza musicale dei cantautori, tutta una generazione di gruppi no, scherzo, a pensarci bene nessuno avrebbe catalizzato così come lui la voglia caciarona di disimpegno e di stracciare la tessera del partito anzi no riciclarla come filtrino da spinello. La fortuna è che la sua parabola umana tende per motivi anagrafici verso la conclusione, in questo paese lo sapete che sperare nella vecchiaia è l’unica via plausibile per liberarsi di personaggi che hanno stufato da tempo, abbiamo un esempio ancora più illustre. Ma vi assicuro che ancora ieri sera in una spiaggetta qui a fianco ho colto l’inconfondibile successione di accordi di “Colpa d’Alfredo” e siamo nel 2013, non avete sbagliato a impostare la data del vostro pc. Siamo nel 2013 e come ai tempi in cui dire negro e troia nella stessa frase non faceva né caldo né freddo a nessuno perché il politically correct non era stato ancora inventato ci sono menestrelli da outdoor che si cimentano nel timbro roco con accento emiliano più celebre d’Italia per farsi due risate con gli amici dopo il tramonto, con quel giro di chitarra che sa fare chiunque, anche io che suono i sintetizzatori e potete immaginare quanto ci tenga ai miei polpastrelli. L’occasione buona si è persa in un sera di un’era storica fa, quando ognuno di noi ha sentito la prima volta l’immediatezza di un modo di esprimere il glocale, in tempi in cui non si poteva passare da uno stato all’altro per validi motivi di politica internazionale e quindi ci si autoriferiva ancora di più tra città, periferie urbane, contesti ibridi e agglomerati rurali in pieni contesti di sviluppo impazzito se non abusivo, laddove nella complessità delirante soprattutto under venti si è allargata a macchia d’olio questa paralisi artistica che ci portiamo dietro perché facile da trasportare, proprio come una chitarra acustica sulla spiaggia. E sono convinto che se non ci fosse stato lui avremmo detto sì lo stesso, ma almeno a qualcun altro.
per non fidarsi del relativo minore
StandardIl secondo accordo in una qualsiasi canzone è cruciale, da lì potete capire se è in corso un tentativo per fare breccia nel vostro universo sonoro fatto di tradizioni armoniche facili facili, se qualcuno sta facendo il furbo e cerca di forzare la portata evocativa dell’ascolto per farvi mettere a vostro agio, prego accomodatevi mi hanno preceduto decine di brani così e se la musica è matematica e se la matematica non è un’opinione allora anche la musica non è un’opinione, c’è una proprietà transitiva che può confermarvelo, quindi questo prodotto fresco fresco di stampa non può non piacervi come suoneria, che solo lì ci ricaviamo qualcosa. Oppure se l’autore vuole atteggiarsi da pazzesco e portarvi sul suo fuori strada, per ora metaforico poi coi i diritti siae chi lo sa che magari ci scappa anche il suv, e vi incuriosisce con un secondo accordo a un intervallo inusitato giusto per mettervi sulle spine e raggiungere il terzo con il fiato sospeso fino a quando il cerchio si chiude in una giro quadrato quanto quelli più classici e amici come prima, mentre aspettate il ritornello potete uscire un attimo a prendere una boccata d’aria. Sul secondo accordo cadono anche i più temerari, non serve tirare in ballo i talebani più instransigenti come il sottoscritto che hanno consumato i tasti next di tutti i riproduttori in proprio possesso a furia di cercare qualcosa di stimolante ma solo perché la tendenza a cercare prima l’accordo successivo anziché seguire le vicissitudini della melodia che si va componendo è facile da smascherare. Il motivo è infatti una forza stand alone, per dirla come gli informatici, prova ne è che il divertimento più succoso consiste nel farsi consegnare le tracce voce nude e crude dai cantanti e mettergli sotto tutt’altre cose. Ritmi, rumori, raptus, sample e quello che ci pare che ci sta bene, ma per piacere toglieteci quelle manate sulle chitarre acustiche o sui pianoforti buttati sotto come cemento a presa rapida per riempire il vuoto tra la melodia e la vertigine del cantare sul nulla. Non so se vi ricordate certi remix dei Massive Attack che della versione originale non rimaneva proprio nulla se non il cantato, e se un pezzo rivoltato come un calzino mantiene inalterato il suo fascino significa che è stato fatto un gran lavoro di ispirazione. Invece un po’ per noia un po’ per abitudine e un po’ perché infonde sicurezza viene da pensare a dove parare con gli accordi e poi spostare la voce come si fa con la biancheria da un cassetto a un altro. Ma vi pare? Siamo artisti o siamo mutandai? E notate quanto facilmente i cantanti si siedono proprio sulle battute e rilasciano note dalla bocca distanti dal primo battito, come se dovessero stabilizzarsi su un supporto ondivago, capire esattamente come posizionarsi e quindi intonarsi sull’accordo sottostante. Roba da musicisti malati di nevrosi e tendenti alla nerdidutine, direte voi. Ma quando capita di trovarsi nelle orecchie una canzone composta su un solo accordo che però non te ne rendi conto perché la melodia è così varia che ribalta i canoni a cui siamo abituati, quello sì che è un miracolo. D’altronde una volta, per giustificare gli epigoni e i plagi, si diceva che le note sono dodici e accadeva tanti anni fa. Ora sono state aggiunte tonnellate di composizioni e, inevitabilmente, una volta o l’altra davvero dovremo inventarcene delle altre.