Posso dirvi, giusto per rompere il ghiaccio, che dei The Cure ho tutti i primi dischi fino a “The head on the door” che è dell’85. Tutti i vinili a 33 giri, intendo. Il fatto che poi abbia acquistato “Disintegration” successivamente e anche “Wish”, che tutto sommato è un album con un suo perché e anche le sue hit, tipo quella di Robert Smith che si innamora ogni venerdì, e poi ci meravigliamo di immaginarcelo dolcemente complicato come in “This must be the place” al fianco di una moglie splendida come Frances McDormand. Dicevo, ho preso “Wish” in cd perché forse già allora i dischi avevano smesso di fabbricarli ma potrei sbagliarmi, e per esempio mi manca “Kiss me Kiss me Kiss me” e poi tutta la produzione recente di una delle band che mi accompagna da più tempo, ma si tratta di lacune che non mi turbano affatto. Semplicemente si tratta di dischi che non ritengo indispensabili.
Questo mi consente così di non condividere le frustrazioni non solo di quelli che hanno anche le rarità, i bootleg, le copie mai aperte ancora imbustate nel cellophane, quelle promozionali o numerate o autografate, quelli che registravano il disco su cassetta e per non rovinare i solchi con la puntina ascoltavano solo i nastri. Ma anche semplicemente di chi ama circondarsi dell’opera omnia tout court perché certe cose si affrontano con sistematicità e uno deve perseguirle coerentemente dall’inizio alla fine, e solo questo approccio da kamikaze delle esperienze conduce al centro della serenità interiore, quella che solo uno sguardo compiaciuto sui propri scaffali gremiti di oggetti ci consente. Forse perché è un’attitudine che riempie la vista e colma un altro genere di vuoti, chissà.
Il punto è che anche in questo campo mi annovero tra le file di quella parrocchia degli incostanti ma con un motivo fondato. Ho amato fin nelle viscere – e li amo tutt’ora – i The Cure di quel periodo là: i primi pezzi un po’ punkettoni e adolescenziali dei maschi che non piangono, dei ragazzi immaginari e degli oggetti negli occhi. La trilogia della cupezza, quel non-disco altamente ballabile che è “Japanese Whispers”, un imperdibile “The Top”, poi il live con la struggente “Charlotte Sometimes” che si trovava solo lì e infine il capolavoro che raccoglie da “In between days” a “Sinking”, almeno come l’ho vissuto io, un disco perfetto che calzava a pennello con il me stesso di allora. Per questo sono soddisfatto di avere la collezione completa dei loro long playing ma solo fino a un certo punto, un punto che ho stabilito io. Il dopo non mi interessa più, e ci può stare che comunque li abbia in mp3.
Ora non sto a farvi la cronistoria di ogni mia semi-fissazione musicale, ma analogamente posso vantare la discografia incompleta dei Depeche Mode fino a “Black Celebration” e al maxi-single di “Shake the disease”, prima cioè che qualcuno permettesse a Martin Gore di imbracciare sul palco quella cazzo di chitarra elettrica. Talking Heads tutto fino a “Speaking in Tongues”, al riparo dalla svolta plasticosamente pop di “Little Creatures”. Dei Simple Minds, manco a dirlo, tutto fino a quella hit universale di “Don’t you” che ha visto poi la dipartita di Derek Forbes al basso rovinando un po’ tutto.
Non soffro il vuoto di quello che mi tiene lontano da questo genere di integrità, e anche se sono venuto a capo di questa riflessione poche sere fa tenendo in mano “Trespass” dei Genesis che va a concludere una serie di cimeli rigorosamente comprendenti Peter Gabriel – da sempre esercito una forma di damnatio memoriae per tutto quello che hanno prodotto in seguito con Phil Collins al microfono e per la carriera solista dell’ex Rael che mi è sempra sembrata un po’ così – potrei applicare lo stesso metro di analisi su altre cose, per esempio i Dylan Dog originali ma solo dal 18 al 120.
Così, giusto per fornirvi un alibi alle accuse di accumulo compulsivo di cose reali o virtuali ed evitare di essere tacciati di paranoia da controllo, bulimia commerciale o schiavitù consumistica solo per una banale e comprensibile tendenza al possesso di tutti gli elementi di un insieme e gratificare così la vostra inclinazione all’armonia della totalità, ho voluto rendervi partecipi di un caso come il mio da fornire come esempio di – passatemi il termine – regolare imperfezione o, viceversa, parziale interezza. Questo affinché le vostre mogli non riescano a mettere alla berlina questa forma di coerenza a tratti, parificandola a una sorta di schiavitù a tutti gli effetti. Potete comunque sempre difendervi sostenendo che quando il totale è due non rientra nei parametri della collezione, come per i Joy Division. Perché poi uno si vanta di avere tutti i dischi dei Nirvana. E grazie, ne han fatti tre in croce.