collez, la storia di un collezionista a metà

Standard

Posso dirvi, giusto per rompere il ghiaccio, che dei The Cure ho tutti i primi dischi fino a “The head on the door” che è dell’85. Tutti i vinili a 33 giri, intendo. Il fatto che poi abbia acquistato “Disintegration” successivamente e anche “Wish”, che tutto sommato è un album con un suo perché e anche le sue hit, tipo quella di Robert Smith che si innamora ogni venerdì, e poi ci meravigliamo di immaginarcelo dolcemente complicato come in “This must be the place” al fianco di una moglie splendida come Frances McDormand. Dicevo, ho preso “Wish” in cd perché forse già allora i dischi avevano smesso di fabbricarli ma potrei sbagliarmi, e per esempio mi manca “Kiss me Kiss me Kiss me” e poi tutta la produzione recente di una delle band che mi accompagna da più tempo, ma si tratta di lacune che non mi turbano affatto. Semplicemente si tratta di dischi che non ritengo indispensabili.

Questo mi consente così di non condividere le frustrazioni non solo di quelli che hanno anche le rarità, i bootleg, le copie mai aperte ancora imbustate nel cellophane, quelle promozionali o numerate o autografate, quelli che registravano il disco su cassetta e per non rovinare i solchi con la puntina ascoltavano solo i nastri. Ma anche semplicemente di chi ama circondarsi dell’opera omnia tout court perché certe cose si affrontano con sistematicità e uno deve perseguirle coerentemente dall’inizio alla fine, e solo questo approccio da kamikaze delle esperienze conduce al centro della serenità interiore, quella che solo uno sguardo compiaciuto sui propri scaffali gremiti di oggetti ci consente. Forse perché è un’attitudine che riempie la vista e colma un altro genere di vuoti, chissà.

Il punto è che anche in questo campo mi annovero tra le file di quella parrocchia degli incostanti ma con un motivo fondato. Ho amato fin nelle viscere – e li amo tutt’ora – i The Cure di quel periodo là: i primi pezzi un po’ punkettoni e adolescenziali dei maschi che non piangono, dei ragazzi immaginari e degli oggetti negli occhi. La trilogia della cupezza, quel non-disco altamente ballabile che è “Japanese Whispers”, un imperdibile “The Top”, poi il live con la struggente “Charlotte Sometimes” che si trovava solo lì e infine il capolavoro che raccoglie da “In between days” a “Sinking”, almeno come l’ho vissuto io, un disco perfetto che calzava a pennello con il me stesso di allora. Per questo sono soddisfatto di avere la collezione completa dei loro long playing ma solo fino a un certo punto, un punto che ho stabilito io. Il dopo non mi interessa più, e ci può stare che comunque li abbia in mp3.

Ora non sto a farvi la cronistoria di ogni mia semi-fissazione musicale, ma analogamente posso vantare la discografia incompleta dei Depeche Mode fino a “Black Celebration” e al maxi-single di “Shake the disease”, prima cioè che qualcuno permettesse a Martin Gore di imbracciare sul palco quella cazzo di chitarra elettrica. Talking Heads tutto fino a “Speaking in Tongues”, al riparo dalla svolta plasticosamente pop di “Little Creatures”. Dei Simple Minds, manco a dirlo, tutto fino a quella hit universale di “Don’t you” che ha visto poi la dipartita di Derek Forbes al basso rovinando un po’ tutto.

Non soffro il vuoto di quello che mi tiene lontano da questo genere di integrità, e anche se sono venuto a capo di questa riflessione poche sere fa tenendo in mano “Trespass” dei Genesis che va a concludere una serie di cimeli rigorosamente comprendenti Peter Gabriel – da sempre esercito una forma di damnatio memoriae per tutto quello che hanno prodotto in seguito con Phil Collins al microfono e per la carriera solista dell’ex Rael che mi è sempra sembrata un po’ così – potrei applicare lo stesso metro di analisi su altre cose, per esempio i Dylan Dog originali ma solo dal 18 al 120.

Così, giusto per fornirvi un alibi alle accuse di accumulo compulsivo di cose reali o virtuali ed evitare di essere tacciati di paranoia da controllo, bulimia commerciale o schiavitù consumistica solo per una banale e comprensibile tendenza al possesso di tutti gli elementi di un insieme e gratificare così la vostra inclinazione all’armonia della totalità, ho voluto rendervi partecipi di un caso come il mio da fornire come esempio di – passatemi il termine – regolare imperfezione o, viceversa, parziale interezza. Questo affinché le vostre mogli non riescano a mettere alla berlina questa forma di coerenza a tratti, parificandola a una sorta di schiavitù a tutti gli effetti. Potete comunque sempre difendervi sostenendo che quando il totale è due non rientra nei parametri della collezione, come per i Joy Division. Perché poi uno si vanta di avere tutti i dischi dei Nirvana. E grazie, ne han fatti tre in croce.

il ponte dei morti

Standard

Mi stavi ricordando – e tra me pensavo che non era proprio il caso – che siamo arrivati a una certa età in cui dovremmo già aver scoperto, nostro malgrado, che non solo nonni, genitori, congiunti e amici non sono immortali. Persino quei miti le cui effigie tappezzavano le pareti delle nostre camerette, spazi temporaneamente adibiti a nostro regno grazie a benefattori che inspiegabilmente ci consentivano di condividere gratis l’abitazione con loro, malgrado ci ribellassimo ai loro suggerimenti in ogni occasione per puro spirito polemico. Persino quegli eroi in onore dei quali ci siamo pure immolati sacrificando addirittura la nostra integrità per non parlare della nostra salute, prendendoli come esempio di condotta di vita. Persino loro possono morire di malattia causata da una vita sregolata, per incidente o di semplice vecchiaia magari sdraiati in un capezzale con tutti i nipotini intorno, e non necessariamente suicidi come vuole il curriculum standard per aspirare alla hall of fame di MTV. E mentre mi ricordavi tutto questo io riflettevo sulla dubbia necessità di mettere per iscritto queste considerazioni, che poi ti succede qualcosa tipo un tram con su la pubblicità del concerto dei Negramaro che ti prende in pieno mentre attraversi la strada e allora qualche giornalista affamato di coccodrilli 2.0 sgama la tua predizione e scrive che te l’eri cercata, e poi un altro giornalista che trova l’articolo in cui prevedi il giornalista che ti sgama e scrive che ti eri pure cercato il fatto che un giornalista ti sgamasse, e dopo ancora un giornalista legge che tu avevi previsto che un giornalista sgamasse il fatto che avevi scritto che un giornalista avrebbe potuto sgamare il presagio del tram e che ti eri cercato pure quello e così via, potrei andare avanti per ore. Quindi niente, la riflessione su Lou Reed ci sta tutta, e grazie per avermi anche ricordato, a valle di quella sfilza di brutte reminiscenze, quello splendido monologo dell’artista newyorkese scomparso ieri in “Blue in the face”, che è una specie di “making of” – ma definirlo “making of” è riduttivo, forse è più appropriato spin-off o progetto parallelo, boh – del mio film preferito che è Smoke di Wayne Wang (quello con la sceneggiatura di Paul Auster, per intenderci), così ne approfitto e anziché postare qui sotto “A perfect day”, che tanto oggi e nei giorni a seguire la sentirete sai quante volte – che invece secondo me avrebbe al limite molto più senso “Heroin” – anziché una delle tante canzoni che vedrete elencate in lungo e in largo, ho deciso di ricordarlo così. E mi spiace di non essere riuscito a ringraziarti per lo spunto, perché mentre mi parlavi di morti poi è passata una alta con i leggins attillati e ti sei girato a guardarla dietro e hai cambiato discorso.

l’autunno ha crashato, meglio spegnere e riaccendere

Standard

Viviamo strani giorni, canta Franco Battiato. La stranezza quotidiana nelle canzoni è un tema ricorrente, ci sono giorni e giorni e alcuni più bizzarri degli altri. In questa domenica di ottobre in cui sembra che la stagione abbia bisogno di un upgrade tanto si pianta di continuo e forse è meglio disinstallarla e riprovare da capo, stavo organizzando un po’ di musica per il nuovo smartcoso di mia moglie quando mi è capitata tra le mani questa che è la madre di tutti i giorni strani.

il ritorno degli otto otto trash

Standard

In certi ambienti funziona così. C’è qualche pensatore aderente a una lobby di opinion leader che a un certo punto va a prendere l’opposto del senso comune con l’ovvio motivo di ribaltare i parametri del buon gusto con il paradosso. E lo fa per motivi a noi ignoti, probabilmente gli hanno negato un abbraccio da bambino e quel trauma lì lo ha interiorizzato con il primo input che è sopraggiunto dall’esterno. Una linea di design, il profumo della mamma guastato dopo una giornata passata alla cassa del VèGè, la superficie della vigogna di quei pantaloni corti invernali che non voleva indossare a scuola per la paura di mostrare le ginocchia. Fatto sta che questo transfert emotivo gli rimane dentro e a un certo punto, quasi per manifestare una reazione contro le fortune altrui superiori alla propria frustrazione remota ma sedimentata, ecco che il flashback riemerge.

Il che non sarebbe un problema se l’artefice di questo rigurgito culturale non fosse qualcuno inserito negli ambienti giusti, quelli che in quattro e quattr’otto con il loro spirito di influencer operano, in modo che più virale non si può, affinché quella quisquilia dalla profondità dell’oblio comune e giustificato ad un certo momento diventa tremendamente e oggettivamente figa. Questi bastian contrario delle tendenze che più le cose sono agli antipodi dell’estetica vigente meglio è facile convincere l’opinione pubblica che ne vale la pena, e il verbo si diffonde con una velocità inaudita.

Non si spiegherebbe perché una ventina d’anni fa, per esempio, qualcuno ha tirato fuori dalla discarica del pensiero popolare tutta quella merda di cinema anni 70 con i vari Pierino e i Monnezza che, se già facevano cagare ai tempi in cui sono stati realizzati – mi perdonerete spero se sono così diretto nel linguaggio – figuriamoci a così tanto tempo di distanza. Se non che, siamo passati dalle bobine con lo strato di muffa, tanto era che non venivano proiettati, alle loro versioni tirate a lucido in digitale, il tutto amplificato dal web tanto che di Bombolo e di Edvige Fenech sono ancora pieni gli archivi video di youtube.

Dico questo perché da qualche mese a questa parte è tutto un parlare di Max Pezzali. Ho visto per caso una trasmissione di rapper che lo idolatravano come maestro di vita per aver cantato le gesta dell’Uomo Ragno quando questi zarri tatuati facevano a malapena le elementari. Ogni due per tre c’è un articolo con lui che racconta le sue gesta musicali di quell’album con i punti cardinali che in molti, oggi, mettono tra i fondamentali del loro vissuto. Ora se non sbaglio è uscito pure il disco nuovo ed è facile incrociarlo in qualche canale tv, ad ogni ora del giorno e della notte.

Il problema è che poi questi guru delle tendenze passano oltre e ci lasciano nella nostra broda trash che nel frattempo è diventata di culto, non so se mi spiego. Così chi si è perso il primo passaggio, quello originale, in cui il paradosso era una provocazione per sondare la capacità di convincimento della massa, ora pensa che Pezzali non sia per nulla lo sfigato che era con gli 883 e da solista, ma anzi uno che ha costruito le basi del nostro presente. Come con quell’altra moda dell’assurdo: ormai ci siamo scordati che pellicole del calibro della dottoressa che ci sta con il colonnello erano già state seppellite una volta nel dimenticatoio e tutt’ora, come zombi, deambulano resuscitate nel nostro immaginario con fame di vendetta. Ma di cervelli buoni da mangiare, ormai, ce ne sono più pochi.

ci vorrebbero più strumenti musicali tascabili

Standard

Presso la scuola di musica del paese in cui vivo, quest’anno è stato istituito un corso di chitarra da scampagnata. Ora non ricordo la corretta dicitura ma il senso è quello: insegnare l’uso sociale dello strumento a sei corde, divulgare la sua funzione di collante delle attività di gruppo e ripristinare l’antico valore della “chitarra sulla spiaggia” nella cultura del tempo libero. La chitarra acustica, nella musica, riveste lo stesso ruolo del pane durante i pasti, un appagante e completo supporto armonico alle melodie. Ma il suo uso universalmente noto come “di accompagnamento” necessita di un’educazione musicale a sé. Basta riff, basta soli e arpeggi: se volete compiacere i due amici e guadagnarvi il diritto a fare un paio di tiri dallo spinello come si cantava ai tempi dei collettivi studenteschi, la chitarra dovete saperla suonare come si deve, con pochi personalismi e al servizio della comunità con pennate e barrè. E c’è ancora oggi chi ha voglia di imparare così e diventare un chitarrista senza troppe pretese, per questo l’idea della scuola di musica che vi ho riportato prima mi sembra tanto onesta quanto funzionale.

Ci sono infatti due aspetti da tenere in considerazione, che tengo a sottolineare in quanto tastierista/pianista e, come tale, sempre afflitto da una sorta di “invidia del manico” nei confronti dei miei nemici-amici chitarristi. Intanto la completezza armonica del timbro data da una giusta misura di note suonate simultaneamente lungo la scala (gravi, medie e acute), un risultato che non sono mai riuscito a ottenere in modo equivalente con il pianoforte vista la maggiore possibilità di rivolti (almeno credo) e la difficoltà di supportare una linea melodica con la base di accordi migliore. Suonare a due mani è una scocciatura, soprattutto se sei una mezza calzetta come il sottoscritto.

Oltre a questo, è la portabilità dello strumento che fa la differenza. Non a caso l’adesivo dell’hippy di spalle che campeggiava sulle automobili da fricchettoni di una volta aveva una chitarra sulla spalla, e non un piano verticale. Si tratta di un altro elemento di frustrazione. Vorrei vedere voi fermi in coda in autostrada per un incidente, quei blocchi in cui si sta lì per ore, e tutti i vostri compagni di viaggio che tirano fuori tromba, sax, contrabbasso, rullante e chitarra semi-acustica dal furgone e improvvisano un concertino nella corsia d’emergenza e voi nulla perché non ci sono prese di corrente e amplificatori.

Ma ci sono anche altri momenti che un tastierista vive con imbarazzo, quando per esempio c’è un pianoforte a disposizione e amici o parenti o colleghi ti chiedono di suonare qualcosa. Se sei un pianista classico o un jazzista, capace di suonare temi e di accompagnarli allo stesso tempo, il gioco è fatto. Gli spari senza indugi un notturno di Chopin o The Koln Concert e il successo è assicurato anche se qui, attenzione, il rischio di passare per un Richard Claydermann o, peggio, per un Giovanni Allevi è dietro l’angolo. Ma se non siete così esperti o siete più avvezzi ai synth, come me che ero scarso e pure abituato a suonare con una mano mentre l’altra smanettava su manopoloni e potenziometri, mettere a disposizione un brano di senso compiuto, con un capo, una coda e una serie di note in mezzo comprensibili, mica è facile. Non c’è una scuola intermedia e di conseguenza un modo ufficiale per diventare un pianista equivalente al chitarrista da scampagnata.

Ma a volte basta trovare una propria nicchia. Io per esempio avevo tutto un repertorio di stupidaggini musicali, che andavano dalla sigla de “Il pranzo è servito” a “Profondo rosso” e potevo contare su una discreta capacità di riprodurre al volo canzoni anche senza averle mai studiate con attenzione, attività che rientra nella categoria dell’improvvisazione. Questo mi ha regalato momenti irripetibili, come un’esibizione a una cena di Natale a casa di una fidanzata, molto tempo fa, con parenti, nonni e animali annessi, un convivio a cui ho aggiunto valore con il mio accompagnamento usando una di quelle tastiere da dilettanti a tutto un rito famigliare, e mi spiace averne dimenticato i dettagli. Mi pare che ci fosse un membro designato alla consegna dei regali ad ogni componente della famiglia e che, ogni volta, dovesse accompagnare l’attribuzione del dono con storie, battute, aneddoti famigliari. Sono stato così assoldato nel musicare improvvisando quelle scenette, fino a quando la nonna si era messa a piangere dalla commozione, anche se non riesco proprio a ricordare quale brano avessi scelto per sonorizzare il suo momento. Inutile sottolineare che quello, che era il primo Natale trascorso con quella ragazza, è stato anche l’ultimo, l’unico insomma, ma sono pronto a scommettere che quella cena, con tanto di esibizione di pianobar tutta per loro, se la ricordano ancora.

chi è il prossimo?

Standard

Qualche giorno fa discutevo di musica con un paio di directioner la somma delle cui età non superava la metà della mia, e vi assicuro che il mio piglio è agli antipodi di quello dei boriosi quarantaseienni di una volta di fronte alle spille da balia piantate nelle guance degli adolescenti, l’eroina o le cupe riflessioni senza speranza indotte dal pessimismo cosmico di gente del calibro di Peter Murphy. Comunque ho ammesso che questi ameni ragazzetti d’oltremanica tutto sommato sono meglio di altri esperimenti commerciali per ragazzine come, tanto per fare un esempio, le boy band di qualche decennio fa che, oggettivamente, si prendevano un po’ troppo sul serio. Questi 1D li vedi che sono un po’ cazzoni, mirano al divertimento alla base del guadagno e guidano il mercato senza pretese, proprio perché l’industria musicale ad oggi pretese non ne può avere. Ho però obiettato su una somiglianza abbastanza palese di un loro brano, l’autocelebrativa “Best song ever”, con “Baba O’Riley” degli Who. Ho fatto qualche ricerca in rete e ho visto che non sono il primo a muovere questo dubbio. Quindi niente, io come sapete sono un garantista e vedo queste coincidenze quasi sempre come tributi, più che scopiazzature. Come a dire, siamo qui e siamo famosi anche a gente del calibro di Pete Townsend. Giudicate voi.


versus

pretty fly for a white guy

Immagine

zanda_offspring

vecchie canzoni per giovani amori

Standard

Trovo che sia irriguardoso nei confronti della contemporaneità e degli sforzi dell’umanità intera, compiuti per tirare avanti e migliorare se stessa, ascoltare solo ed esclusivamente canzoni di cantanti morti o gruppi ormai più che dimezzati, vuoi per questioni anagrafiche o per la condotta di vita talvolta poco salutare dei componenti, che ora comunicano ai loro fan le giuste vibrazioni dal paradiso delle rockstar. Ecco perché credo sia fondamentale tenersi sempre aggiornati sulle novità discografiche, se non altro si può contribuire al percorso verso un successivo stadio di evoluzione e si toglie un po’ di eredità in termini di diritti alla progenie dei cantanti famosi, evitando che il frutto di tanti sforzi venga dilapidato solo in termini di nepotismo in tentativi di emulazione con successi oltremodo discutibili. D’altronde sembra quasi un destino comune alle persone normali, quello degli anziani di mescolarsi in mezzo ai giovani. Se John Lennon – che è morto ma che se fosse ancora in vita avrebbe 70 anni e rotti – usa risuonare nelle playlist degli adolescenti del 2013 è perché, tra la gente comune, i pensionati amano sbrigare al sabato commissioni e fare cose di cui potrebbero tranquillamente occuparsi in settimana, quando in uffici, negozi, servizi pubblici ci sono sono solo loro e la forza giovane e produttiva di questo paese cazzeggia sui Social Network in ufficio. Invece a tenere in mano il numerino delle code nei pochi negozi rimasti, o nei tavolini comuni ai numerosi bar a gestione cinese dei centri commerciali, sono in larga maggioranza loro, i pensionati che non a caso sono anche la larga maggioranza della popolazione autoctona. Come biasimarli, stare in mezzo a tatuaggi, infradito e pettinature da calciatori è meglio che contornarsi di carampane e fisici cadenti. E poi, con l’occhio dell’esperienza, è possibile trarre il meglio dai comportamenti e dalle abitudini delle nuove generazioni, si possono criticare e tirare sospiri di sollievo su che cosa, chi è nato sensibilmente prima, è riuscito ad evitare. E non mi riferisco solo ai soliloqui con il proprio dispositivo touch screen che probabilmente comporterà l’estinzione del genere umano. Qualche sera fa mi sono trovato in mezzo a un nutrito campione di giovani e giovani adulti, per così dire, in quelle atmosfere da ormoni e contratti a tempo determinato di cui i luoghi di ritrovo per giovani e giovani adulti sono pregni, uno scenario in cui l’anziano ero io. Tra crocchi di avventori con bicchieri di plastica pieni a metà di birra industriale emergevano qui e là, seduti sull’erba di un parco, coppie prevalentemente etero in via di formazione. Ragazzi impegnati in presentazioni in stile marketing di sé cercando di approfittare del giusto livello di persuasione nella ragazza target, e ragazze che si raccontavano guardando un punto indefinito mentre i ragazzi di cui erano target cercavano il giusto varco per compiacerle. Il tutto con canzoni di cantanti e musicisti defunti da tempo. Così ho pensato che ci sono cose che è bello non dover più fare, e che certi posti è meglio evitarli perché quello che avviene mescolato a quello che si sente a una certa età va fuori dalla nostra capacità di comprendere.

comunque the sound > comsat angels > joy division

Standard

I Joy Division hanno mietuto molte vittime a posteriori, e non mi riferisco certo al loro frontman suicida ma a numerose band che, oscurate dall’aspra darkitudine molto glamour del quartetto di Manchester, non hanno goduto di una notorietà consona al loro valore contenutistico se non nelle ristrettissime nicchie di allora e nei maniaci dell’alternativo dei decenni successivi come il sottoscritto, non nel senso di decennio (perché se vogliamo dirla tutta sono quasi un cinquantennio) ma di maniaci della cultura off. Se avete notato il mio avatar in giro per la rete, magari nei commenti che lascio nei vostri blog a me cari, avrete notato la copertina di Jeopardy dei The Sound, tanto per cominciare. Probabilmente Adrian Borland non era dotato dello stesso carisma epilettico di Ian Curtis e non ha ispirato una band altrettanto importante come i New Order nata dalle ceneri di sé – sempre che sia stato cremato -, e certi singoli come “Heartland” – tratto da Jeopardy – non li troverete mai nei dj set più hipster, che raramente comunque si spingono oltre a hit più blasonate come “Love will tear us apart”. Non bisogna dimenticare che è facile fare la storia della musica con due o tre album e poi diventare leggenda con il proprio togliersi di mezzo all’apice della carriera. Borland si è ammazzato nel 99 quando ormai quel mondo lì, quello del post-punk, era finito da un pezzo. Ma c’è un altro gruppo inglese appartenente allo stesso periodo che forse ha avuto ancora meno fortuna, mi riferisco ai Comsat Angels, sicuramente più discontinui e penalizzati dal decorso intrapreso dopo i primi tre album per rincorrere un successo pop mai arrivato. Chi se li ricorda alzi la mano. Per la biografia vi rimando a Ondarock, qui sotto uno dei miei pezzi preferiti, la titletrack dell’album più bello che secondo me è il secondo, Sleep no more.

e sentirai la strada far battere il tuo cuore

Standard

Domenica scorsa è andato in onda non ricordo su quale tv un programma su Fabrizio De André, un documentario con tanto di biografia alla visione del quale sono capitato più o meno al momento della comparsa di Dori Ghezzi nella vita del cantautore genovese. Sapete meglio di me che l’uomo del duemila guarda la tv con un dispositivo connesso a Internet a fianco, che in quel frangente è stato utile a mia moglie e a me per precipitarci su youtube a cercare “Un corpo e un’anima”, il cavallo di battaglia del duo di Dori Ghezzi con Wess. Roba del 74, mica paglia. E leggendo il testo che chi ha caricato il video ha sincronizzato in sovrimpressione con le immagini, una versione pseudo-live tratta da Canzonissima, il commento mio e di mia moglie è stato unanime: certo che quello era un altro mondo. D’altronde sono passati quarant’anni, e facendo il solito gioco che faccio io dell’applicare le stesse distanze temporali alle date del passato che ho vissuto ma che non mi sembrano all’apparenza così remote, quarant’anni prima del 1974 era il 1934, che agli occhi di un blogger sembra altro che preistoria.

Ma, tornando al modo di percepire una cosa banale come la musica di precedenti periodi del pop, avevo maturato una riflessione analoga proprio qualche giorno fa scorrendo i versi di “Apapaia”, il conosciutissimo brano dei Litfiba pubblicato nel 1986 in 17re, quindi 27 anni or sono. Pensavo a quanta forza ispirassero quelle parole a me ventenne di allora e a quanto provi imbarazzo il quarantaseienne che vive in me di oggi, sia per il testo pregno di idealismo giustamente adolescenziale che per l’etica e l’estetica dei ventenni della nostra contemporaneità, che di vincere una guerra da soli o in due o di conquistare l’altrui rispetto delle proprie idee non sanno che farsene, principalmente perché non trovano l’icona del “like”.

E credo che l’effetto sia lo stesso di quando vediamo la domenica in autostrada le automobili d’epoca che i nerd delle quattro ruote sfoggiano guidandole verso i raduni di fanatici come loro. Bianchine e duetti scoperchiati con autisti e passeggeri fieri di essere sferzati dal vento con i loro cappellini da sole e i foulard che svolazzano nel traffico della corsia di destra. Vasi di terracotta costretti a viaggiare tra vasi di ferro, perché a fianco di SUV e cassoni in uso oggi sembra davvero impossibile che un tempo stessimo in spazi così ridotti e tali catorci costituissero la normalità. Un metro di giudizio che vale anche per le tv a tubo catodico, i telefoni con la rotella e quasi tutti gli oggetti della quotidianità di altri tempi.

Ma per i testi delle canzoni è un discorso più complesso, voglio dire subentrano aspetti meno comprensibili come la sensibilità diffusa, il proprio vissuto, persino il lessico domestico e quanto tradizionalismo emotivo – passatemi il termine, non saprei come definirlo diversamente – ci sia nei gruppi famigliari. La morale di questa storia è che manco a farlo apposta l’insegnante di religione di mia figlia ha appena cominciato un’attività in classe con “Strada facendo” di Claudio Baglioni, un brano che mi fa venire oggi come allora la “pecòla”, come si dice da queste parti quando si vogliono evitare volgarità tipo “mi fa cagare”. Non so, è che probabilmente in “Strada facendo” c’è tutto un metasignificato che non ho mai approfondito e forse, per coglierlo e anche per mettermi nel mood con cui mia figlia e i suoi compagni di classe affronteranno il programma di religione del nuovo anno scolastico, dovrei andare a rileggere. Anzi, a leggere perché non mi pare di essermi mai soffermato sul testo.

Ma vi posso assicurare che anche senza sapere quello di cui sto parlando – che poi è la strategia narrativa con cui porto avanti questo blog – sono certo che “Strada facendo” e la mimica di Baglioni di cui ho una reminiscenza dalle copertine del 45 giri che aveva mia cugina, sia una canzone altrettanto superata di una Fiat 850. Però tutta questo meltin pot trans-generazionale mi ha fatto invece venire voglia di rivalutare il duo canoro da cui sono partito per questa riflessione, e sperare che nel secondo quadrimestre il focus di religione sarà basato su un approccio più cartesiano alla materia divina, e che si possa quindi strutturare tutto un percorso proprio su “Un corpo e un’anima” di Wess e Dori Ghezzi.