Algiers – Shook

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Non dovremmo riflettere sul nostro peccato originale – quello di essere bianchi in un sistema economico, politico e sociale bianco – solo quando esce un nuovo disco degli Algiers. Il punto è che blues/rap e punk industriale, combinati insieme, li percepiamo ancora come una forzatura e ascoltiamo le loro canzoni permeati dal senso di colpa di non riuscire a considerarlo un genere a sé.

Siamo già al quarto disco ma, da quello che si legge in giro, si fa ancora fatica a non considerare ostico l’attrito provocato dalle graffianti melodie soul/black di Franklin James Fisher nell’istante in cui entrano in collisione con le basi così maledettamente noise/punk degli Algiers. Un approccio beffardamente recidivo che induce a una sola interpretazione: l’intento è far provare disagio all’ascoltatore. Mettere la gente in allarme. Farci evacuare dalla comfort-zone della trasgressione ordinaria.

Il punto è che anche il prodotto della musica più estrema, quando nella fase di confezionamento si mettono insieme cose differenti, risulta una sorta di miscuglio omogeneo, una soluzione in cui le sostanze sonore di partenza non si riescono più a distinguere. Per gli Algiers la cosa si fa più complicata perché siamo invece nell’ambito delle emulsioni: uno strato resta ben visibile in superficie e anche quando lo bevi – aggiungerei “soprattutto”, quando lo bevi – si distinguono perfettamente sul palato persino le quantità di gospel, di rap, di jazz, di R&B e i cubetti di spoken word. Non ci sono dubbi, da questo punto di vista. Nella discografia degli Algiers, “Shook” è probabilmente il più dissonante dei quattro, una scossa che fa tremare le ginocchia.

Non so a voi, ma per me questo non costituisce affatto un problema, anzi. L’apparente dicotomia tra bianco e nero è incisa a chiare lettere nel manifesto della band di Atlanta sin dall’omonimo disco d’esordio e se, a quasi dieci anni di distanza, siamo ancora a parlarne in questi termini, sarà per questa ragione che la loro musica, al momento, non teme concorrenza. Come loro, ci sono solo loro.

Smarchiamo subito gli onori di casa. “Shook” è un disco pieno di featuring così riuscite da far passare ai neofiti più sprovveduti gli Algiers come un collettivo, più che un quartetto. In ordine di apparizione c’è l’outro a parole di “Everybody Shatter” recitate da Big Rube, artista che poi ritorna a declamare il minuto e rotti di “As It Resounds”. Un paio di strofe e il rinforzo del ritornello di “Irreversible Damage” a cura di Zack de la Rocha. I contributi rap di Billy Woods e Backxwash ad aggiungere valore al capolavoro di “Bite Back”. I cori di Samuel T. Herring dei Future Islands e il rantolo di Jae Matthews dei Boy Harsher in “I Can’t Stand It”. I versi di LaToya Kent (una delle vocalist del collettivo Mourning [A] BLKstar) in “Born”. Il bridge in egiziano di Nadah El Shazly in “Cold World”. Il sax di Patrick Shiroishi e la voce di DeForrest Brown Jr. in “An Echophonic Soul”. La coda della traccia di chiusura “Momentary”, affidata ai versi di Lee Bains. Presenze così protagoniste da condividere la parte centrale della cover, insieme al titolo.

Ed è anche grazie a questo assembramento militante che “Shook” risulta un cupo progetto permeato di rabbia e di riscatto, di rivalsa ai soprusi. Non sorprende, se già sono gli Algiers in sé a essere un concept, prima che una band, con un nome che incarna la ribellione al colonialismo e il sacrificio per l’emancipazione. Percepirli al netto di questa dichiarazione d’intenti/fondante pregiudizio ne diminuirebbe la portata deflagrante. Dell’ottimo quarto lavoro colpiscono l’elettronica a tinte industrial, la chitarra sferzante e lo spazio che giustamente viene lasciato al gusto e alla tecnica di Matt Tong, batterista fuori dal comune cresciuto nei Bloc Party di “Silent Alarm”. E poi l’anima di Franklin James Fisher, la sua voce e le sue parole, il suo essere Algiers senza soluzione di continuità, le sue melodie profondamente soul.

La struttura delle canzoni è fuori da ogni convenzione. Prendete la ritmica e i cluster di pure onde sinusoidali su “Irreversible Damage”, la drum’n’bass de-costruita e pronta a compattarsi in velocissimo post-punk di “73%”, il rigore di “Cold World”, la trap tutta arpeggiatori e synth di “Bite Back” e il suo ritornello motown, il punk di “A Good Man” e quella promessa di muro di suono che viene mantenuta solo troppo tardi, il dub scombinato di “Something Wrong” con quel gioco di pitch che vira verso il basso e quel modo di suonare fuori tempo che mette alla prova anche i temperamenti più pazienti, i mille volti di “I Can’t Stand IT” e l’ossessività della proposta dei cori gospel che si sprigionano un po’ ovunque per sublimare negli accordi jazz di “Green Iris”, un brano con un finale che toglie il fiato, e in “Momentary”, la traccia conclusiva che ci fa ripartire da capo, dalle radici della tragedia della comunità afroamericana da dove tutto, Algiers compresi, è iniziato.

“Shook” è, ancora una volta, un disco pensato per risultare impegnato e impegnativo. È un tentativo di dare voce a un mondo abitato da oppressi che nessuno di noi, da questa parte del pianeta e attratto da questo genere di ascolti, è in grado di comprendere appieno. Rispetto alla nostra realtà, nei suoni e nelle parole, gli Algiers si confermano degli alieni. Io li adoro, ma riesco ad andare poco oltre la dimensione musicale. Se riuscite a goderveli così a fondo da lasciarvi condurre nella perfetta sintonia che i loro brani richiedono, sappiate che vi invidio moltissimo.

rose

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Il teatro è pieno e qualcuno ha portato persino un mazzo di rose per l’attrice protagonista. Noto un uomo vestito da serata a teatro consegnare i fiori in biglietteria, con la preghiera di recapitarli in camerino al termine dello spettacolo. È troppo giovane per essere l’attempato ammiratore col cappello che qualcuno ha ascoltato, poco prima che si spegnessero le luci, confessare la sua smodata ossessione alla coppia di vicini di posto. Ha sostenuto di non essersi perso una replica della rappresentazione e pare si sia preso persino una diffida per questa sorta di stalking d’altri tempi. D’altronde, se non può avvicinarsi all’attrice che vorrebbe sposare oltre una certa distanza, in platee grandi come quella probabilmente ha qualche opportunità di soddisfare la sua brama senza rischiare problemi legali, scegliendo le ultime file – o, meglio, la galleria – acquistando i biglietti on line. Quando vengo a conoscenza di cose come questa ripenso a Cristina, una ragazzina di cui ero pazzamente innamorato in seconda media. C’era il suo indirizzo comprensivo di numero di telefono sull’elenco della Sip, così trascorrevo molto del mio tempo libero appostato dietro un angolo in prossimità di casa sua nella speranza di incontrarla. Ero pronto a farmi trovare casualmente lì ma, malgrado la mia abnegazione, l’evento non si è mai verificato. Forse Cristina non usciva mai di casa, forse mi vedeva dalla finestra e se ne guardava bene, forse era un caso di omonimia del padre a cui era intestato il numero di telefono e non abitava lì. Chissà se queste pratiche ossessivo/compulsive sono ancora in auge, tra i metodi di corteggiamento dei giovanissimi, oppure ci sono analoghi sistemi, ma molto più efficaci, da mettere in atto sui social. Meno male che oggi lo stalking è stato giustamente demonizzato come tutti i comportamenti un tempo ammessi e considerati sopportabili, a partire dal bullismo fino alle sigarette sui treni e nei locali pubblici, per non parlare del servizio militare obbligatorio su cui posso vantare un’altra esperienza personale discutibile. Facevo l’università e avrei voluto evitare la leva optando per il servizio civile ma, come un pollo d’altri tempi, presuntuoso com’ero ho fatto tutto da solo sbagliando la procedura. Sono stato spedito senza tanti complimenti al centro addestramento reclute di Salerno ed è lì che sono venuto a conoscenza delle musicassette “Mixed By Erry”. Poco prima della libera uscita, malgrado la presenza dello spaccio autorizzato come in tutte le caserme, veniva lasciato entrare un furgone nel piazzale dell’alzabandiera. In mezzo a prodotti contraffatti di ogni tipo, le cassette “Mixed By Erry” e le sigarette di contrabbando erano tutto sommato gli articoli meno tarocchi di tutti. Ricordo che, tra una traccia e la successiva, prorompeva al doppio del volume l’annuncio “Mixed By Erry”, registrato con quell’enfasi tipica da DJ mescolata a qualche effetto sonoro dozzinale. Ho scoperto che sta per uscire un film dedicato alla storia delle cassette “Mixed By Erry” che ha, nella colonna sonora, una canzone di Liberato. Non credo che, comunque, lo vedrò. A differenza del teatro, e delle attrici che ricevono le rose in camerino, dei film e delle fiction italiane non doppiate non si capisce una parola. Mi chiedo dove vadano a finire, tutti questi dialoghi. Magari c’è un cimitero, un po’ come quelli degli elefanti, dove i copioni biascicati e spesso privati delle ultime sillabe delle parole vanno a esalare l’ultimo sospiro, uno di quelli che gli attori cinematografici italiani considerano alla base della recitazione. Sarà per questo che i teatri sono sempre pieni e i cinema no.

le canzoni sono sempre lì

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Qualche centinaio di anni sarà sufficiente a dimostrarci – e confermarci – se l’avere tutte le informazioni sempre e subito a disposizione sia un bene o un male. Saremo esseri viventi con la mente atrofizzata o forse no. Liberi dal fardello del dover immagazzinare dettagli e procedure saremo iper-efficienti perché in grado di dedicare il 100% delle nostre risorse a mettere a frutto lo scibile umano e ad applicare tutto quello che in migliaia di anni abbiamo scoperto, interpretato e prodotto solo al momento in cui ci occorre. Al momento i contemporanei, lo sapete, si dividono tra entusiasti e detrattori. Di certo, in questa fase di trasformazione digitale, la coesistenza di antichità e modernità sembra sfuggirci di mano. I fenomeni che stiamo vivendo sono troppo diversi dai modelli che ci sono stati trasmessi nel passaggio di consegne dalle generazioni precedenti e applicare delle best practice non è per nulla facile. Il fatto è che i luoghi in cui conservare le informazioni e gli strumenti per consultarle sono sempre esistiti. Piuttosto è la portatilità del sapere che non riusciamo ancora a gestire. Oppure il modo lo abbiamo trovato ma la narrazione che ce ne fanno i nostalgici ci mette in difficoltà.

La percezione che abbiamo della musica trasmessa alla radio ha seguito lo stesso destino. Per anni abbiamo pensato che tutte le canzoni composte e pubblicate al mondo fossero lì dentro, da qualche parte, a disposizione di un intermediario che – per gusti propri o dinamiche commerciali imposte dalle case discografiche o altri complotti troppo elevati per essere compresi dalla massa – aveva il potere di riesumarle o lasciarle sopite sugli scaffali. Oggi ciascuno di noi ha a disposizione la propria radio personale che, come fanno i liceali con le versioni di latino che rintracciano nelle occasioni in cui ancora qualcuno chiede loro di mettere in pratica le regole di traduzione, evoca secondo un palinsesto il più in linea con i propri gusti. Il rischio è, come saprete, che manchi l’intermediario esperto in grado di ampliare le conoscenze dell’ascoltatore che, abbandonato a sé, finirebbe per non aggiornarsi più. Un rischio che abbiamo accettato di correre, sacrificando il richiamo dell’ignoto alla comodità. Il punto è che nell’abbondanza delle scorte – le piattaforme di streaming contengono qualsiasi rumore emesso dalla totalità degli esseri umani dalla loro comparsa sulla terra – non ci siamo ancora abituati al fatto che le canzoni sono sempre lì. Per questo ci sono ancora individui a metà strada di questo processo di cambiamento, persone che acquistano musica su supporti fisici (ma la stessa cosa vale per i libri o i film o per l’arte o per le cartine geografiche o anche solo le fotografie) per possedere le canzoni. L’equivoco è che la ricchezza consista ancora nella proprietà privata delle cose che ci piacciono per poterne disporne in ogni momento. Da qualche anno ascolto una stazione radio che è molto in linea con i miei gusti. Non ci sono speaker inutili ma è una infinita playlist piena di musica di cui sono in possesso e di altra tutta da scoprire. Non c’è molta differenza tra questo modello e Spotify, ma l’ascolto a sorpresa di un pezzo che amo è un piacere che continua a non avere confronti.

Festival di Sanremo 2023, le pagelle della prima serata

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Una delle cose più fastidiose dei festival condotti da Amadeus è che tutti i cantanti in gara lo chiamano Ama che si vede che lo fanno per passare l’idea che Amadeus metta chiunque a proprio agio, ma ai tempi in cui tutti si chiamano Amo’ sembra una pratica un po’ zarra. Io, se fossi in lui, chiederei a chi mi chiama Ama se abbiamo mai mangiato insieme o se sono stato il fidanzato di sua sorella.

Quest’anno il Festival è carico di aspettative perché la gestione Ama comincia a ripetersi da troppo tempo e questa reiterazione di una formula che funziona alla fine, lo sappiamo, smette improvvisamente di funzionare. Potrebbe avergli staccato la spina quel Blanco che, in una sola sera, è passato dai fasti della vittoria alla precedente edizione – una fama che lo ha portato persino a esibirsi di fronte a sua santità – al farsi prendere a fischi dal pubblico in sala per aver distrutto a calci un costoso addobbo floreale.

Il vero fuori programma è stato il supereroe Mattarella, comparso a inizio serata come a una prima della Scala qualsiasi per poi defilarsi non sappiamo quando, speriamo prima di quella scena patetica. Benigni lunghissimo sulla costituzione ma necessario – domani sentiremo tuonare qualche fratellista d’Italia – e l’inno italiano, in onore del capo dello stato, in piena restaurazione nazi-onalista melonifera.

Doveroso nominare la Ferragni, che dovrebbe essere imitata 24×7 dalla Guzzanti perché sembra la Guzzanti quando imitava Moana Pozzi, e il cameo di un Pelù destinato a vincere in ogni scenario la palma del più tamarro di tutti, a ex aequo con i suoi Bandidos.

Spero abbiate notato le sciure acchittate in modo inqualificabile dietro a Amadeus quando ha presentato i Pooh e converrete con me che gli stessi Pooh dovrebbero diminuire le tonalità dei loro brani, lo fanno gli U2 non vedo perché non dovrebbero farlo anche loro.  Facchinetti, nei momenti di panico in cui pensi che gli venga una sincope, ogni tanto fa un urletto come quelli che hanno la Tourette. Pallosissimo invece il monologo della Ferragni, e spero che non abbiano costretto Mattarella a sorbirsi quella roba. Dicono che si sia accomiatato molto prima.

Ecco allora qualche nota sulle canzoni in gara della prima serata.

Anna Oxa: si presenta sul palco con il rossetto sui denti, la canzone è una vera merda e ti chiedi che cazzo abbia da urlare. A me sembra che dica “portatemi i sali” ma potrei sbagliarmi. Con i capelli così sembra una maga di una storia di Paperon de Paperoni ma non la trovo in rete quindi stateci.
Gian-Maria De Filippi: è alto e secondo me vince lui. In quota a quelli che salutano alla fine il pubblico con grazie mille come quando la cassiera al supermercato ti fa lo sconto dei centesimi per non dare il resto in monetine.
Mister Rain sembra Jim Carrey che canta la milionesima canzone con quel giro di accordi. Un brano di una bruttezza devastante, lui è vestito da AB Normal che canta “Puttin’ on the ritz”. Nel testo dice che due gocce di pioggia salvano il mondo dalle nuvole, e ditemi voi che cazzo significa. Si porta sul palco un surrogato dell’Antoniano e fa piangere persino una bambina del coretto. Una merda. Anzi, meno che una merda.
Marco Mengoni: conciato come uno dei Village People, presenta una canzone banalissima come tutta la sua produzione a parte il capolavoro melodico/armonico che è “L’essenziale”. Poi questi pezzi che a metà partono con la cassa in quattro dopo esser stati delle lagne hanno rotto il cazzo.
Ariete: il pezzo è carino, lei è carina, lei è senza voce, non ha ancora fatto un percorso dal logopedista come auspicavo dopo averla sentita al primo maggio, nel pezzo manca qualcosina, mi sono segnato “Parlami d’amore” dei Negramaro ma non ricordo già più perché
Ultimo: si conferma l’ultimo tra tutti, nome omen quasi più degli zero assoluto, una merda assoluta e ultima
Coma_cose in versione “Me contro te”, mi è venuto un po’ di diabete.
Elodie: il pezzo si chiama come il voto che Pitchfork ha dato al disco dei Maneskin, è strano perché ha un ritornello brevissimo, le resta una piuma impigliata sul microfono. Vorrei metterle un voto alto ma non saprei quale e quanto e soprattutto dove, perché qui non li sto mica mettendo.
Poi non c’è due di Elodie senza i tre cuori di Gassmann, in quota agli inutili di Sanremo come un Zarrillo comune, quelli bellocci che cantano canzoni che, terminato il festival, non si sentono più e tra vent’anni li faranno vedere agli speciali sulle meteore.
Cugini di Campagna: onesta, forse la migliore al momento e mi preoccupa ammettere che nel 2023 io possa aver scritto che i Cugini di Campagna hanno una dignità. Si sente l’impronta “ciao ciao” della RDL. Peccato per loro, vestiti come dei teletubbies da sera che rendono tutto molto poco credibile. Belli però i synth a tracolla customizzati Fiorucci, ne fanno una specie di Devo da Canzonissima.
Grignani: non ho mai capito che problema avesse e non l’ho capito nemmeno stasera, anzi non si è capito proprio niente se non che c’entrava con suo papà. Potrebbe vincere, anzi, speriamo vinca lui, mette tenerezza.
Olly: lo vedi e non promette niente di buono. Sa di autotune e di tutta quella merda pop che ascoltano i miei alunni, la giacca rosa con la canotta sotto è qualcosa di osceno e negli acuti sembra Blanco prima del floricidio. Però, almeno, lui si comporta da uno umile.
Colla Zio: che tipi assurdi, canzone divertente quanto sembrano divertirsi loro e cioè un botto. Cioè, voglio dire, poteva andare molto peggio.
Mara Sattei me la ricordavo gnocca e #ineffetti sale sul palco seminuda. Il pezzo è di coso lì dei Maneskin il che, dopo il 2 di PItchfork, mi fa venire voglia di spegnere subito. Nella prima strofa non si capisce una parola ma forse perché è l’una e non capisco perché non comincino il festival alle sette di sera così uno può andare a dormire alle 23. Il brano è in quota cantanti brave con canzoni inutili, tipo Annalisa e, anni fa, Giorgia.

Finalmente posso andare a coricarmi.

l’ultimo post sui Litfiba

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Tornerei indietro nel tempo solo per convincere i Litfiba a pubblicare nel live “Aprite i vostri occhi” l’intera scaletta del concerto al Tenax di Firenze registrato per l’occasione il 12/5/87 e non invece, come è avvenuto nell’amara realtà, solo i dieci miseri brani presenti, undici se consideriamo separatamente il medley che raccoglie “Vendette” e “Luna”. La tracklist dell’esibizione è ovviamente stata più corposa, come nel resto delle tappe di quel tour (ho ancora il biglietto del concerto del 17 febbraio a Genova a cui ho assistito). Mi sono chiesto diverse volte perché sia andata così. Probabilmente un doppio live sarebbe stato troppo dispendioso, o poco adatto al mercato, o forse al momento della lavorazione non tutte le tracce sono state ritenute di qualità sufficiente a una loro pubblicazione su un disco ufficiale che non suonasse come un bootleg. Dico questo perché l’assenza di “Eroi nel vento” da “Aprite i vostri occhi” è una ferita aperta che ancora grida vendetta. Avrete capito che “Eroi nel vento”, come per miliardi di altri estimatori della band di Pelù, è un brano che amo a dismisura. È una canzone che mi piace così tanto da rendermi faticoso l’ascolto della versione ufficiale in studio presente su “Desaparecido” (che poi dei Litfiba è il mio ellepì preferito, io sono della corrente che già con “17 re” ha iniziato a dissociarsi) perché la presenza della drum machine al posto della batteria mi infastidisce. Qualsiasi esecuzione live infatti può confermarvi il tiro superiore che la ritmica di Luca De Benedittis conferisce a “Eroi nel vento”, ma va detto che l’algida e diafana estetica wave di quegli anni prediligeva giustamente atmosfere più rarefatte e poco rock che solo l’apporto dell’elettronica poteva assicurare. Non credo infatti che la batteria programmata e utilizzata in studio sia stata scelta a compensazione di limiti tecnici degli strumentisti, anche se leggendo in giro sembra trattarsi di una teoria diffusa. C’è chi sostiene che non è vero e che nei brani di “Desaparecido” la batteria abbia suoni sintetici ma sia suonata da un essere umano. Da fonti dirette so che persino in “17 re” è stata utilizzata una macchina programmata (a parte per la traccia “Ferito”) ma non ve lo posso provare quindi la mia opinione vale quanto la vostra. Comunque fatevi un regalo. Cercate su Youtube un’esecuzione dal vivo di “Eroi nel vento” del periodo a cui mi riferisco e ditemi che ve ne pare. C’è questa

che riporta a un fantomatico concerto al Tenax del 14/3/87, tappa che non risulta dagli archivi della band e che, di conseguenza, potrebbe essere proprio la versione omessa su “Aprite i vostri occhi” di due mesi più tardi. La migliore, per me, è la versione suonata in diretta al programma di RaiDue “DOC”
ma, con tutti i tour che hanno fatto prima della svolta tamarra di “Pirata”, chissà quanti se ne trovano in giro.

Ora, come avrete letto in giro, sembra che i Litfiba abbiano definitivamente gettato la spugna, ma il mondo è pieno di artisti che dichiarano di ritirarsi dalle scene e poi ci ripensano, e come biasimarli. Io da sempre sogno un ritorno sulla cresta dell’onda che unisca il suono dei Litfiba degli esordi con il mio desiderio più grande. Una ri-edizione dei primi due album tale e quale ma con le tracce di batteria registrate da musicisti in carne e ossa. Lo scrivo qui, tanto sognare non costa nulla.

i 55 migliori dischi del 2022

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Ma al momento in ordine alfabetico. Per la top ten c’è ancora qualche giorno di tempo. In neretto quelli che mi sono già comprato, in normale quelli che acquisterò, in corsivo quelli che non sono abbastanza ricco per possedere tutto quello che mi piace. Così, giusto per averlo segnato da qualche parte.

ADWAITH – Bato Mato
ALVVAYS – Blue Rev
ANGEL OLSEN – Big Time
AUTOMATIC – Excess
BAMBARA – Love On My Mind
BERRIES – How We Function
BIG MOON – Here Is Everything
BLACK MIDI – Hellfire
BODEGA – Broken Equipment
CATE LE BON – Pompeii
CHARLOTTE ADIGéRY & BOLIS PUPUL – Topical Dancer
COLA – Deep In View
DOMi & JD BECK – Not Tight
DRY CLEANING – Stumpwork
ETHEL CAIN – Preacher’s Daughter
FKA TWIGS – Caprisongs
FOALS – Life Is Yours
FONTAINES D.C. – Skinty Fia
GOAT – Oh Death
GOMMA – ZOMBIE COWBOYS
HOLODRUM – Holodrum
HONEYGLAZE – Honeyglaze
IBIBIO SOUND MACHINE – Electricity
INTERPOL – The Other Side Of Make-Believe
KING HANNAH – I’m Not Sorry, I Was Just Being Me
KOKOROKO – Could We Be More
IBEYI – Spell 31
LIBERATO – Liberato II
LIFE – North East Coastal Town
LUNA LI – Duality
LYKKE LI – EYEYE
MAYA HAWKE – Moss
MELT YOURSELF DOWN – Pray For Me I Don’t Fit In
M.I.A. – Mata
MITSKI – Laurel Hell
MODERAT – MORE D4TA
NILüFER YANYA – PAINLESS
PHOENIX – Alpha Zulu
PORRIDGE RADIO – Waterslide, Diving Board, Ladder To The Sky
POST NEBBIA – Entropia Padrepio
PREOCCUPATIONS – Arrangements
PVA – Blush
SANTIGOLD – Spirituals
SHARON VAN ETTEN – We’ve Been Going About This All Wrong
SOCCER MOMMY – Sometimes, Forever
SORRY – Anywhere But Here
SUDAN ARCHIVES – Natural Brown Prom Queen
SUNNY WAR – Simple Syrup
TESS PARKS – And Those Who Were Seen Dancing
THE COMET IS COMING – Hyper-Dimensional Expansion Beam
THE MYSTERINES – Reeling
THE SMILE – A Light For Attracting Attention
WARPAINT – Radiate Like This
WET LEG – Wet Leg
YARD ACT – The Overload

generazione generatore

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Quando faccio la solita cernita in classe dei generi conosciuti dai bambini raramente c’è qualcuno che cita la techno. Trap e rap sono i primi due a essere smarcati, e a ruota i più spregiudicati si assicurano, nei successivi tre o quattro interventi, pop, rock, metal, musica classica e jazz.  In mezzo a questo brainstorming c’è sempre qualcuno che prende cantonate, che poi sono sempre le solite: musica italiana, musica romantica, musica strumentale, musica dei cartoni animati, che tutto sono tranne dei generi musicali, ma alla techno non ci arriva nessuno. Mi è successo ancora venerdì: una collega si è presa il Covid – a cosa servono, tanto, le mascherine – ed è toccato a me sostituirla proprio nell’ora di musica. Siamo andati a fondo fino al punk e al reggaeton, per dire, ma di techno nemmeno l’ombra ed era un problema, perché volendo spiegare cos’è il ritmo avevo in playlist un paio di brani dal flavour inequivocabilmente cassa dritta. Il punto è che i trenta-quarantenni di oggi, che sono i genitori dei bambini che ho per le mani a scuola, sono nati e cresciuti con la techno ma probabilmente non la praticano più. Mi sorprende, quindi, quando leggo che ci sono ancora centinaia e migliaia di persone che partecipano ai rave party. Nei servizi dei tg di questi giorni si sentiva come sottofondo quell’indiscutibile marchio di fabbrica in quattro quarti, artificiosi e così spediti che, per stare a tempo, finisce che è meglio stare fermi. Non a caso, nel capannone della disco-rdia un sacco di gente stava lì, imbambolata e attonita, con il bicchiere in una mano e la siga tra le dita dell’altra, rapita a scrutare il suono guizzare impalpabile tra le vestigia dell’archeologia della logistica che fu. Non è la prima volta, né sarà l’ultima, che la folla si raduna in massa al richiamo della musica discutibile.

Black Midi – Hellfire

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Le recensioni dei dischi fondamentalmente sono un mucchio di cazzate, quelle che scrivo io più di tutte, sia chiaro. Fortunatamente i dischi li ascoltano in quattro gatti, li comprano in due a essere ottimisti e, di questi, non più di uno – tu che sei capitato qui grazie a Google o alla nostra pagina Facebook – legge quanto vi si scrive a corredo. E il merito principale dei Black Midi è di essere tra i pochi artisti in grado di rendere superflua qualunque tipo di analisi delle loro opere e di mettere a tacere chi, come me, ha la presunzione di saper scrivere o parlare di musica.

La prova è che basta che qualcuno si proponga attraverso registri al di sopra delle convenzioni che è tutto un propagarsi di cortocircuiti nella fruizione dell’arte e nella sua conseguente interpretazione. Nel caso dei Black Midi non è tanto che loro siano dei marziani con cui è impossibile qualunque forma di confronto. Semmai le domande che dobbiamo porci sono se quello che fanno i Black Midi è suonare e cantare e se il pubblico, ancor prima di comprendere, sia certo di ascoltare della musica. Usiamo quindi, per questa cosa che fanno i Black Midi, la generica definizione di entità.

L’entità in questione si chiama Hellfire, viene venduta come il nuovo album della band di South London e può essere percepita con i nostri abituali mezzi nelle consolidate due dimensioni riconducibili a sviluppo verticale (che quando parliamo di musica è l’armonia) e orizzontale (la melodia e il ritmo). Il punto è che questa riduzione semplificata non ci porta da nessuna parte se non a una banalizzazione di ciò che cogliamo, nonché ai consueti riferimenti che usiamo per spiegare l’ignoto e che, nell’antichità, ci hanno indotto ad assegnare sembianze umane ai fenomeni naturali.

Perché una volta citati i soliti Frank Zappa, Mr. Bungle, i Primus, John Zorn o certi King Crimson, non siamo stati utili a nessuno, fermo restando che fosse il caso di portare aiuto per facilitare l’orientamento in questa nebulosa che è Hellfire. Perché quando anche il super-telescopio spaziale James Webb rappresenta l’universo come un pavimento in graniglia nera alla genovese tirato a lucido con la cera, capirete che a questo mondo vale proprio tutto. Potrei aprire una jpg qualsiasi con Blocco Note, copiare e incollare il risultato qui che sarebbe la stessa cosa. Anzi, provateci e dite se non ho ragione e se, quanto ottenuto, non sia più comprensibile di quello che sto scrivendo ora.

Oppure potrei elencare una lista dei frammenti di Hellfire grazie ai quali, secondo quanto ci riportano i nostri recettori prestati a restituirci il piacere della bellezza (decodificatori di linguaggi di basso livello, se vogliamo impiegare una categorizzazione informatica) si riaccende invano la presunzione di poter ricomporre il senso generale di quest’opera, un po’ come si fa con la scrittura degli etruschi.

E allora potrei confermare – secondo il rigoroso ordine di quella che ha le sembianze di una scaletta – che [traccia 1.] nella titletrack il parlato va straordinariamente a tempo con la base e che fa venire voglia di mettergli sotto quei beat della trap con i pattern di hi-hat a sessantaquattresimi, avete presente? E anche che, per non più di tre o quattro secondi, si sente una progressione armonica di archi di cui riusciamo addirittura ad anticiparne l’evoluzione.

Che [traccia 2.] “Sugar/Tzu” quell’assurda alternanza di parti non rientra nei nostri canoni e nelle nostre vite ed è fuori discussione provare qualsiasi tipo di sensazione, fredda calda o tiepida che sia. Certo, il batterista è inumano, ma a quale pro? Che [traccia 3.] “Eat Men Eat” i Black Midi giocano al flamenco e poi qualcuno si stufa e vuole giocare a Trespass dei Genesis. Che [traccia 4.] “Welcome To Hell” qualcun altro ha dimenticato un sample di batteria rhythm and blues acceso ma poi, giusto il tempo di provare il feeling, il resto della band si precipita ad aggiungerci del suo mandandoci ancora in confusione.

Che [traccia 5.] “Still” o c’è finita per sbaglio o ci stanno prendendo per il culo ma non fateci l’abitudine, perché verso la metà siamo punto e a capo. Che [traccia 7.] “The Race Is About To Begin” sembra un folle comizio prog-punk. Che [traccia 8.] “Dangerous Liaisons” sconfina in qualcosa che per noi risulta fusion – senza offesa – suonata da dio. Un consiglio: prestate attenzione agli stacchi sguaiati e isterici che caratterizzano il pezzo da metà in poi, sono tutt’altro che innocui.

Che con [traccia 9.] “The Defence” oramai non ci caschiamo più. Inizia bene, noi ci fidiamo, ci facciamo portare al largo senza salvagente tanto il mare sembra calmo ma poi ancora una volta qualcuno ci abbandona lì, a cercare la salvezza in quell’imitazione da crooner a cui non affiderei nemmeno il mio peggior nemico. E che con [traccia 10.] “27 Questions” abbiamo perso ogni speranza.

Arrivare in fondo a Hellfire è faticoso, uscirne vivi è un’impresa, e possiamo anche discutere se sia un capolavoro o una cagata pazzesca, se “Schlagenheim” aveva ben altre attitudini, se acquistando una copia del disco il rischio è che si riproduca in casa come Alien, saltando fuori dalla pancia della gente. Perché intanto dovremmo metterci d’accordo sull’aspetto fondamentale della questione: di cosa stiamo parlando?

Foals – Life Is Yours

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Non lasciatevi influenzare dai quattro singoli che hanno anticipato il nuovo disco. “Life Is Yours” non è solo un validissimo album pop ma anche l’opera matura di una band in grado di rinnovare ancora la propria musica, mantenendo inalterata l’originalità artistica degli esordi.

Se siete rimasti perplessi all’ascolto di “Life Is Yours” forse dimenticate che la precedente pubblicazione dei Foals è quell’apoteosi di casse dritte che è la raccolta di remix “Collected Reworks” e che, tra i due volumi di “Everything Not Saved Will Be Lost” e oggi, in mezzo c’è stata una pandemia mondiale.

Voglio dire, è chiaro che stiamo parlando di una band a cui indubbiamente piace divertirsi. Ed è facile fare i pessimisti quando va tutto bene. Passate due anni senza mettere i piedi sul palco e senza gente in carne e ossa che vi salta dal vivo davanti e vedrete che dello spleen ne farete anche a meno. La gente vuole riprendersi gli spazi che chi non voleva saperne di vaccinarsi gli ha negato e sanare quella ferita ancora aperta di due anni di stand-by. Vogliamo tutti la stessa cosa: tornare a ballare e limonare in pista, possibilmente senza mascherina.

Converrete inoltre con me che il lockdown ha spaccato in due il panorama musicale. Da una parte gli apocalittici che, appena le cose si sono messe meglio, non sono riusciti a trattenere tutto il loro pessimismo e che ci danno dentro con il registro del moriremo tutti. Dall’altra gli integrati che, al contrario, hanno lavorato per ricordarci che – appunto – la vita è nostra e ci hanno fatto il pieno (almeno fino a quando il carburante non costava un occhio della testa) per farci partire alla ricerca della felicità, della spensieratezza, di com’erano le cose prima, per quello che è possibile.

Che poi, a dirla tutta, non è che siamo molto distanti dai Foals di “Total Life Forever” o di “Holy Fire”. La musica della band guidata dall’istrionico Yannis Philippakis possiamo figurarla come un template neutro – ma ben strutturato – che assume la fragranza dei contenuti di cui si popola. Il math-rock diventa geometria in grado di generare poligoni regolarissimi se lo fai filare liscio nella perfetta parità del quattro quarti, al massimo con l’estrusione di figure solide più elaborate riconducibili a ritmiche e atmosfere perfette per i dancefloor delle Baleari in alta stagione. Le melodie si assestano su architetture più comode e diventano ammiccanti. L’elettronica è quella di sempre, e basta giocare d’esperienza con qualche preset di synth meno algido per fare breccia nella pancia ustionata per l’eccessiva esposizione al sole del pubblico danzante.

Scevra della cupezza del precedente doppio disco di inediti, la musica dei Foals e la voce da inni da dj set di Philippakis riescono a mantenere un’integrità che qualunque altra band indie-rock se la sogna. Non è facile, con questi ritmi, votarsi al pop senza trasformarsi in dei Maroon 5 qualunque. Basta ascoltare le undici tracce di “Life Is Yours” per sincerarsi che comunque è tutto a posto, che un’altra estate musicale è possibile, che nel momento più torrido di sempre ci è concesso ancora abbassare i finestrini della vita e far ondeggiare la nostra mano al vento caldo, abbandonati alla musica che ci guida verso la spiaggia dei nostri sogni.

“Life Is Yours” si apre con la sicurezza dei quattro singoli usciti negli scorsi mesi. I Foals liquidano in fretta la pratica del già sentito, il rovescio della medaglia dell’industria della musica liquida che impone troppi stuzzichini di antipasto ma, come ci hanno insegnato le nostre mamme, ad abbuffarsi prima è facile guastarsi l’appetito. Ed è un vero peccato, perché paradossalmente i pezzi più noti sono i più deboli dell’album e, dopo “Summer Sky”, la breve coda strumentale di “2001”, le cose si fanno davvero molto più interessanti.

“Flutter”, forse il brano più convincente del disco, gioca tutto il tempo sulla ripetizione del lungo riff di chitarra. “Looking High” e “The Sound” si presentano come raffinate produzioni indie-funky degne di Nile Rodgers e impreziosite da ritornelli che non deludono. L’album accelera finalmente con “Under The Radar”, una composizione ricca di arrangiamenti e citazioni del migliore synth pop anni 80. Ma se siete nostalgici, riuscirete a rintracciare i Foals degli esordi in “Crest Of The Wave” e, soprattutto, nella trascinante “Wild Green”, l’ultima traccia, canzone che si snoda in un finto crescendo alla “Blue Gold” e che, anziché portare l’ascolto al parossismo, lo imbriglia per domarlo verso un finale in completa naturalezza.

“Life Is Yours” è, in sintesi, una prova positiva di artisti che sanno mettersi in gioco anche dopo cambiamenti di formazione importanti (il bassista e il tastierista polistrumentista, fondatori della band, hanno dato forfait nel corso degli ultimi anni). L’approccio corretto all’ascolto dei Foals del 2022 deve tener conto della loro longevità artistica, di come sono andate le cose, di quello che è già stato detto e che non sarà mai più uguale a prima. Un disco leggero ma intelligente, in cui non c’è proprio nulla di sbagliato.

radio libera (dal blues)

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Della radio mi piace tutto tranne i dj, i presentatori, i programmi, i contenuti rubati da “forse non tutti sanno che” della Settimana Enigmistica, la musica di merda che trasmettono, l’idea che le radio hanno del rock, le risate sguaiate, le voci cavernose e suadenti, le interruzioni pubblicitarie, i jingle autoreferenziali che passano al termine di ogni sacrosanta canzone, certe equalizzazioni pensate per impianti stereo da miliardari, gli accenti iperinglesi che non ce l’hanno nemmeno gli anglofoni madrelingua. Ed è per questo che la radio non la accendo mai. Poi è nata Lifegate, che si prende solo a Milano, ora mi pare anche a Torino, e ora, anche a casa e non solo in auto, non ascolto altro. La metto anche quando vado a correre e sto valutando di disdire l’abbonamento a Spotify. Tutto perché Lifegate trasmette molta della musica che preferisco. Lifegate riflette perfettamente la mia collezione di vinili, con numerosi inserti del mio archivio di mp3. Lifegate poi è migliorata tantissimo da quando non trasmette più blues. Fino a qualche mese fa, ogni due o tre canzoni interessanti, mi toccava cambiare canale perché mettevano un pezzo blues e, se lo conoscete, saprete che il blues è un genere popolato da canzoni tutte uguali che durano un’eternità sugli stessi tre accordi che poi, indipendentemente dalla tonalità, sono sempre quelli. La colpa credo fosse di un noto attempato giornalista musicale fissato con il blues che probabilmente collaborava con la redazione nella definizione del palinsesto musicale. Poi non so cosa sia accaduto ma Lifegate ha confinato il blues in un canale streaming a sé – che evito come la peste, anzi, come il Covid – e sulla frequenza principale – che è 105.1 – del blues non c’è più nemmeno l’ombra. Una scelta che ha migliorato tantissimo l’esperienza di ascolto di Lifegate, tanto che adesso posso dire che, malgrado delle emittenti che si ascoltano non salvi davvero nulla (al netto di Radio Tre e di Sei Uno Zero su Radio Due) ho finalmente trovato una radio perfetta per me. Si chiama Lifegate ma tanto è inutile che faccia pubblicità perché scommetto che, anche voi, ora che il blues è finito, non riuscite ad ascoltare altro.