Sanremo 2014, ecco chi vincerà il Festival (senza essere nemmeno eletto dalla gente che votano)

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La mia visione un po’ ingenua e infantile dell’Italia è quella di un paese in cui il PD prendeva il 74 per cento e i Perturbazione vincevano Sanremo, che è un po’ come dire un posto dove ci abitano solo quei quattro gatti di amici e conoscenti che frequento in carne ed ossa e sui socialcosi e che sono tali e quali a me, oltre il sottoscritto e famiglia, naturalmente. Ma sappiamo tutti che non è così. A partire da voi che state leggendo: su cinque, tu e tu non avete nemmeno votato, tu che non riesci a leggere perché hai gli occhi iniettati di odio acritico hai votato i nazisti del grillinois, tu che non capisci cosa scrivo hai optato per qualcosa di destra e tu, con cui da sempre siamo in sintonia, sei del PD ma di chissà quale corrente. Allo stesso modo ci dividiamo in quelli che, come me, ieri sera sono stati a teatro ma il teatro non gli è piaciuto perché avrebbero preferito seguire Sanremo, quelli che fanno andare in testa alla classifica le canzoni dello specifico sanremese, quelli che Frankie Hi-Nrg è ultimo e quelli che se la prendono con Fazio, con la noia, con i soldi del canone e così via. Trovo però che una visione della realtà in cui ogni cosa è al suo posto, funziona secondo leggi matematiche e arriva spaccando il secondo è tanto ingenua e infantile quanto la mia, e tutti i visionari condividono la stessa delusione per i motivi di fondo: siamo in tanti, siamo in troppi, leggiamo poco, ci informiamo di meno, siamo presuntuosi ma ignoranti, ma sopratutto non la pensiamo tutti come me. Ed è già un buon risultato il fatto che i Perturbazione siano al quarto posto, se non sbaglio, e ci sia uno come Renzi – e lo sapete come la penso, davvero non credo di aver sostenuto mai uno peggio di lui – che davvero è l’ultima possibilità. Si governa con una maggioranza, e se non si deve discutere con i pregiudicati trovo che non lo si debba fare nemmeno con i fasciochimichisti antidemocratici che non ti danno nemmeno il tempo, per discutere, così iniziamo almeno con le nuove proposte. Se avete un’alternativa senza stelle e senza Giovanardi, se pensate che comunque vada è giusto che vinca uno come Renga/Renzi, sono pronto ad ascoltarvi.

senza l’amore l’uomo che cos’è su questo Saba è d’accordo con me

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Come avete fatto tutti questi anni senza l’Internet? Già vi ci vedo con carta e penna e il radioregistratore a cassette a schiacciare play e pause in maniera ossessiva per scrivere i testi delle canzoni del vostro gruppo preferito, e a dare la vostra interpretazione ai passaggi in cui la voce è coperta dalla musica, il cantante si mangia le parole, o semplicemente la vostra abitudine che vi ha impigrito il cervello e ora non riuscite a risolvere il conflitto se prima della tal parola c’è una congiunzione o solo una sillaba d’intercalare a generare l’equivoco. Quindi ecco un’altra pratica in disuso, caduta nel dimenticatoio. Con i motori di ricerca veniamo velocemente indirizzati al testo che vogliamo citare nel nostro status su Facebook e nessuno che invece ha più la necessità di scrivere a mano Auschwitz di Guccini per una ricerca sul Giorno della Memoria, per dire. Copi, incolli e stampi. Un giorno così dovremo ringraziare i padri fondatori dei contenuti in rete, perché non è che si sono autogenerati da soli, almeno qui sul web il creazionismo funziona. Chi è che per primo ha messo disponibile l’archetipo delle parole di Marco Ferradini da copiare e inviare in chat a San Valentino a un amico col cuore spezzato? Che poi forse non solo non esiste più Marco Ferradini oggi, ma nemmeno esistono cuori spezzati, tanto è facile trovare il conforto e il calore umano sui Social Network, anche da sconosciuti. Comunque di cantonate pop come queste ne abbiamo prese tutti a iosa, prima di angolotesti.it o lyricsmania. L’esempio autobiografico che ho riportato nel titolo è un po’ ingenuo ma mi fa tuttora ridere. C’erano poi le incomprensioni contestuali. Io per esempio, nel verso iniziale di “The Hanging garden” dei The Cure, capivo “Pictures kissing in the rain” anziché “Creatures kissing in the rain” fino a quando un amico studioso della materia me lo ha fatto notare ridendo perché comunque la mia versione aveva un suo perché, ma lì il problema era diverso perché comunque sul vinile c’erano i testi e avrei potuto anche leggermeli. Ma allora era già finita la stagione dei canzonieri da portare alle scampagnate e dei libretti con i testi di Sanremo, ve li ricordate? Quelli minuscoli delle Messaggerie Musicali che si acquistavano in edicola. Roba da pazzi, se ci pensate. Pazzi chi se li comprava. Quindi davvero, come avete fatto tutti questi anni senza l’Internet?

una volta qui era tutto fatboy slim

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Attenzione perché il giochetto sono passati X anni da questo o quel disco porta a conclusioni tragiche, diminuisce l’autostima e genera vertigini. Misurare il tempo sui solchi dei vinili come si fa con i tronchi degli alberi induce una sindrome da disorientamento che è facile da provare sulla vostra pelle: pensate alla storia con le sue ricorrenze e gli anniversari, o anche solo al valore che aumenta con il tempo in un mobile di antiquariato, e poi pensate a tre o quattro minuti di musica registrata – lasciate perdere il supporto – che suonano allo stesso modo oggi come ieri come cinque anni fa o come nel secolo scorso. Tutto questo perché poco fa mi è capitato di vedere in tv uno spot della Nissan Qashqai o come diavolo si chiama, con la colonna sonora di “Right here, right now” di Fatboy Slim. Ora, correggetemi se sbaglio, ma “You’ve Come a Long Way, Baby” è uscito nel 1998, con tutti i suoi super singoli da “Gangster Tripping” a “The Rockafeller Skank” e “Praise you”. Sono quindi sedici anni, che è un bel periodo, e anche se evitiamo i luoghi comuni della musica sempre attuale e che è un album che come quello non ne hanno più fatti e non ci sono più i producer di una volta e il big beat è molto meglio dell’elettronica che c’è in giro oggi, bene. Vi sfido a provare il contrario.

freak antony, eroi ed eroine

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Io che ho sempre preso sul serio il rock, o almeno c’ho creduto per buona parte della mia vita, per anni non mi sono fidato granché di chi si burlava della gente che oltre a investirci i risparmi avrebbe scelto anche di morire per la musica. Quelli che scrivevano i passaggi delle canzoni in cui si riconoscevano sul taglio davanti dei libri di scuola, che collezionavano i dischi, che facevano le distinzioni tra mostri sacri e demiurghi e inascoltabili, un contesto in cui quelli come me ricoprivano il ruolo di sacerdote, non vedevano di buon occhio la promiscuità tra musica e cabaret, quel modo di sdrammatizzare la passione del rock con la satira e l’ironia a cui qualcuno, un giorno, ha dato il nome di rock demenziale.

Se ti impegni in una cosa e qualcuno ride quando la fai hai fallito, a meno che il tuo scopo sia quello. Far ridere. Ma che c’entra col rock. Il rock non ride. Piange, si ferisce volontariamente con le lamette fino a sanguinare, si spara in bocca, si ammala e muore di malattie che nel mondo dei settori produttivi che si imparano a scuola non esistono e non interrompono le carriere dei professionisti. A maggior ragione, che spreco se sotto c’è un potenziale musicale dirompente, addirittura punkettone, e sopra testi in italiano a cazzo. Parolacce, nonsense, battute, nichilismi, disimpegno.

Guardate che la gente vi ascolta e vi giudica, gli dicevo a quelli come gli Skiantos e a quelli che ascoltavano gli Skiantos. Capisce i vostri testi e vi prende per idioti. Voi che a differenza di Vasco siete dalla parte giusta e sprecate energia e risorse verso il nemico sbagliato. Gli Skiantos erano quelli che avevano superato a sinistra il rock, come era successo nella politica con gli autonomi di “Io sono un autonomo”.

Quello che non si capiva era che gli Skiantos erano l’unica band che almeno un po’ aveva tirato fuori la testa dai tombini dall’underground, e che spreco che si trattasse proprio di un gruppo che non faceva le cose a modo, seriamente, con testi come dovevano essere. Poi in realtà erano conosciuti proprio per quello. Che poi è stata la stessa cosa che mi hanno trasmesso Elio e le storie tese quando sono usciti. Cazzo, potrebbero essere dei nostri, ma non certo a parlare di quei temi lì e in quel modo.

Ma era un fattore legato all’età. Pian piano poi ho cominciato ad ascoltare bene le parole delle canzoni, a prestarvi attenzione. A tutte, le canzoni. Di ogni genere e in italiano. E a trovarle sempre più demenziali. Ma non solo quelle dei Pooh, ma anche quelle dei Litfiba. E dei CCCP. Sempre più didascaliche. Sempre più retoriche. Sempre più imbarazzanti. Sempre più in italiano cantato, che è una finzione, una convenzione dell’italiano letterario, una licenza poetica che nessuno gliel’ha autorizzata a chi fa il rock. Fino a quando ho detto basta. I testi mi piacciono solo in inglese e americano, almeno di quelli si capisce solo il senso generale, il resto rimane sotto la musica. Ecco.

Poi c’è stata qualche altra occasione in cui Freak Antony, Dandy Bestia e il sottoscritto ci siamo sfiorati per poco, qualche grado di separazione che ci ha ridotto le distanze, si vociferava persino un loro interessamento in qualche progetto in cui ero coinvolto, ma niente di più. Ora il rock non lo prendo più sul serio, quello italiano addirittura mi sembra grottesco, e in questo quadro, caro Freak, i tuoi vaneggiamenti giganteggiano. Non c’è dubbio, poi, che tu nella vita ti sia divertito, molto più di me (che comunque non ci vuole molto).

tributi: pagarli tutti per pagare meno, anche in musica

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Qualche giorno fa, ricorreva il quindicesimo anniversario della morte di Fabrizio De André, riflettevo sul fatto che ciò che ci rende meno facilmente sopportabile l’assenza di cantanti che non ci sono più, ma anche gruppi che si sciolgono, è il proliferare di tributi artistici. Nella mia casella di posta, mea culpa il fatto di non essermi mai disiscritto – ricevo ancora le comunicazioni di tutte le organizzazioni, enti, etichette discografiche, management in ambito musicale di quando cercavo di fare il musicista – nei giorni precedenti a quella ricorrenza ho ricevuto la comunicazione di almeno una decina di eventi, iniziative, o anche semplici auto-promozioni artistiche di concerti-tributo allo scomparso cantautore genovese.

Quello del riunirsi intorno a un comune denominatore con finalità celebrative è un aspetto della nostra indole di animalità sociale (in qualche caso socialista ma questo è un altro discorso) a partire dall’andare a messa ogni domenica fino alle community del Pan di Stelle sull’Internet. E probabilmente chi sa suonare lo fa a modo suo e se uno riesce persino a cavarci qualche lira, tanto di guadagnato, è proprio il caso di dirlo. Buon per lui. Ma come la religione ha un suo risvolto intimo e personale, così la percezione dell’interpretazione di una serie di cover all’interno di un progetto tributario, passatemi il termine inappropriato ma che ci sta bene, ti fa rimpiangere spesso il fatto di non essere rimasto in casa a mettere su con i tuoi cari i dischi originali, che sono sempre molto meglio.

I concerti commemorativi sono poi riconducibili a un mutuo guardarsi negli occhi pensando tutti insieme che sì, Fabrizio De André ci manca, era meglio se non moriva, con la variante “caspita il chitarrista esegue alla perfezione l’arrangiamento di Mussida nella versione della PFM” degli addetti ai lavori, corrispondente a un auto-compiacimento del turnista di turno, appunto, sul palco, che è lì solo perché è amico del cantante che voleva fare il tributo a De André e ha coinvolto un po’ di mercenari super-tecnici che, almeno nella versione della PFM, possono mostrare ai quattro gatti convenuti il proprio valore nelle svise e negli assoli e magari, perché no, rimorchiare qualche malinconica fan di De André lì per caso. Per non parlare dei boriosi pseudo-De André che fanno la stessa cosa chitarra voce, emulando persino l’effetto timbrico cavernoso-maudit. Ho fatto l’esempio di Faber, ma potete utilizzare questi spunti a vostra discrezione e a seconda delle occasioni. Tra i morti e i vivi, Lucio Dalla come i Pooh, Freddy Mercury come i REM.

Ci sono comunque millemila modi di sublimare il proprio entusiasmo per questo o quell’artista quanti sono gli adepti di ognuna delle singole religioni e delle pop-reliquie. Uno dei modi che preferisco è la promiscuità digitale, meglio conosciuta come arte del sampling che ultimamente è un po’ desueta e fuori moda, alcuni sostengono che i campionamenti hanno rotto giustamente il cazzo o, meno volgarmente, hanno fatto il loro tempo. Per esempio, sentite questo pezzo in cui Beck utilizza egregiamente una battuta di “The Death Dies” dei Goblin, inutile raccontarvi chi sono, vero? La colonna sonora di “Profondo Rosso”, mica paglia.

Beck, che probabilmente riconosce nel film in questione e nella sua soundtrack l’effettivo valore culturale, il momento di rottura cinematografica e di inizio di qualcosa, un punto di riferimento citando il quale è sufficiente uno sguardo con gli amici e sodali e un tacito assenso con il mento che va su e giù, a indicare che i Goblin in quel disco hanno suonato roba assolutamente insuperabile, dicevo che Beck ha santificato un’assenza rubando in buona fede qualche secondo strumentale del brano (che poi è tutto strumentale) per usarlo tra gli ingredienti di un suo album. Lo so, si tratta di una pratica che era all’ordine del giorno anche solo per fini puramente commerciali, come Puff Daddy con “Every Breath You Take” che leggevo tempo fa sul Post che garantisce non so quante migliaia di dollaroni al giorno a Sting di diritti. I Goblin sono dei signori – forse un po’ strani – e probabilmente si sono accontentati del fatto che dall’altra parte dell’oceano e a quarant’anni di distanza c’è ancora gente che lamenta il fatto che non suonano più insieme. Anche perché, diciamocelo, ormai avranno anche una certa età e se non fosse per certi nerd del progressive o per i fan di Tarantino non se li filerebbe più nessuno almeno dal 1977.

E comunque stamattina, fortuitamente, ho ascoltato a un programma radiofonico un brano vincitore di una vecchia Canzonissima che, oltre a essere un pezzo che spacca, ha un inizio che sarei felice di poter campionare per utilizzare in una nuova composizione, sentite qui:

questo per dire che anche se non ho sufficiente devozione per farmi carico di un tributo a Gigliola Cinquetti ma solo perché vive e lotta insieme a noi, ruberei quell’intro volentieri per donarla a una composizione originale. Ma non avendo un gruppo mio da anni né un progetto solista e che iddio me ne scampi, lo lascio a chiunque di voi la pensa come me sul modo di ringraziare i padri fondatori del pop con le citazioni, come facevano i latini con i greci. Se vi riesce il colpaccio, spero che ne traiate profitto e non vi chiederò nessuna quota dalle vendite, ve lo giuro. Mi basta un’attestazione di stima nel booklet.

C’è stato un momento però in cui mi sono divertito un sacco con questo genere di cose. Quello che vedete sotto per esempio è una specie di remix di “Siamo Meridionali” di Mimmo Cavallo, chissà se eravate già maggiorenni e vaccinati quando era in auge il suo stile un po’ figlio dei fiori scanzonato e napoletanissimo. Ecco. Questo è il mio tributo a Mimmo Cavallo, vivente anche lui, di cui sentiamo un po’ la mancanza, una versione superatissima con il suo big beat anni 90 che contiene anche un po’ di autocelebrazione. Già, con le macchine di quel tipo posso dire che me la cavavo dignitosamente.

la vita è troppo breve per ascoltare musica italiana

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Lo so che così ci si fanno dei nemici, si perde il consenso, i lettori vanno da un’altra parte verso blog più accondiscendenti, quindi trattatemi pure come uno dei due vecchietti dei Muppet che al sicuro dal loro palchetto a teatro e protetti dalla loro senilità – nonché dalla loro natura artificiale – possono sputacchiare sentenze impuniti sulla platea sottostante. Ma lo sapete, vero, che trovo imbarazzante la musica italiana attuale, non tutta ma solo quella che conosco, e sicuramente non ne conosco molta perché non mi interessa, e non ho nessuna intenzione di occuparmene perché la vita è troppo breve anche solo per fare dei tentativi.

E i gruppi o cantanti stessi che troverete nel listone qui sotto non devono preoccuparsi troppo, sono tutt’altro che un influencer, il mio giudizio vale come il due di picche, per non contare che sono fuori target perché sono già nella fascia anagrafica della balera alla domenica pomeriggio.

Trovo comunque così teneri certi quotidiani nazionali che ogni tanto mettono notizie su questi fenomeni musicali nostrani in evidenza come se si trattasse di David Bowie o, per essere più comprensibile a voi del nuovo secolo, gli One Direction, ma non è difficile immaginare la reazione del lettore medio che già per lui la musica è quello che passa il convento MTV o Radio Diggei, figuriamoci simili cianfrusaglie trovate in cantina dove usano esercitarsi con le loro pianole elettroniche o i loro ampli valvolari e, onestamente, è giusto che lì rimangano. Tanto per quei tre o quattro seguaci al netto di fidanzate e amici che ci provano con le loro fidanzate, nei seminterrati o nei box adibiti a sala prove c’è spazio sufficiente ad accoglierli.

Ecco, qui di seguito, di chi faccio volentieri a meno, anche perché a parte giornate come questa in cui mi capita di leggere qualcosa di loro, oggi c’era una foto di uno di questi sulla home di Repubblica, il tempo di finire questo post e sono già belli che tornati nell’anonimato, torno a non saperne nulla e posso mettere su un disco di un bel gruppo americano di quelli che piacciono a me.

Quindi cari Brunori, Dente, Baustelle, il Genio, Luci della Centrale Elettrica, i Cani, Di Martino, Zen Circus, Management del dolore post operatorio, Ministri, Marta sui tubi, Colapesce, Beatrice Antolini, Mariposa, A Toys Orchestra, che siete addirittura la punta di un iceberg di sommerso che solo a Rockit sanno cosa c’è dentro, ecco, mi spiace, ma proprio non ci siamo. E lo so, forse dovrei motivare caso per caso cosa c’è che non va. I testi, i suoni, l’approccio, l’atteggiamento, le storie raccontate, le pose, il metro quadro a cui vi rivolgete, gli strumenti stessi a volte. Quando vi ascolto mi sembra che tutto si sia rimpicciolito, che più che il paese reale di Manuel Agnelli questo sia diventato il paese delle meraviglie di Alice, quando si fa di dimensioni minime solo per seguire il Bianconiglio. La metafora fatevela da soli. Comunque siete liberi di aggiungere qui sotto le vostre preferenze al contrario, vi ricordo solo che è vietato pronunciare il nome Offlaga Disco Pax.

rozzabrianza

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Visto che ci sono territori la cui notorietà sale e scende a seconda del momento, e in questo periodo la Brianza che presto non sarà più una provincia non può essere nemmeno una regione a sé e in più la macroregione del nord sta perdendo pezzi importanti – roba che scota – la stessa Brianza sembra essere al centro dell’attenzione per il film di Virzì sul quale non mi pronuncio. Non l’ho ancora visto e non so a quale capitale umano si riferisca. Ne ho però avuto un assaggio su un treno ad alta frequentazione sulla direttrice verso Monza, dove due ragazzini ascoltavano musica ad alto volume da uno smartcoso. Un’abitudine sempre più frequente e fastidiosa, il che è una disdetta proprio ora che stava per estinguersi quell’altra mania di tenere le suonerie a palla. Comunque il nocciolo della questione è che nel 99,99 per cento dei casi quando c’è qualcuno che ascolta musica ad alto volume negli spazi pubblici potete stare certi che si tratta di musica di merda, e non so se sia più di merda il rap italiano dei tarri italiani, il reggaeton dei tarri sudamericani o la tecno dei tarri del resto del mondo. Comunque i due ragazzini sono stati costretti ad allontanarsi da un folle che si è avvicinato loro, un tizio rude e sgarbato sulla quarantina che, esasperato, ha estratto un tablet da 7 pollici e ha sparato a manetta Rozzemilia dei CCCP. Molti viaggiatori – il treno era gremito – si sono spaventati, sapete, di questi tempi. Qualcuno deve aver persino pensato che il tablet potesse esplodere. Ma io manco a dirlo ho apprezzato. Come a dire: punirne due per educarne cento.

ecco perché gli anni ottanta hanno rotto il cazzo, ma anche i saldi non sono da meno

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Non mi accorgo subito del pezzo, in genere riconosco le canzoni dalla prima battuta e questa vi posso assicurare che si tratta di una dote che farà di me un volto noto della tv nazional-popolare quando un giorno si decideranno a rifare il Musichiere, ma come potete ben immaginare saperle proprio tutte è quasi impossibile. Ho i miei punti di forza, le mie aree di eccellenza, rimango tutt’ora convinto di essere la persona più competente in ambito musicale che io conosca, ma stavolta ho toppato.

La delusione è duplice perché la signora in coda davanti a me sta ballando a tempo con il suo cane in braccio. Che poi definirlo cane si fa fatica. Se ne è stato per un bel po’ accoccolato vicino al collo della padrona e con il muso invisibile, nascosto nell’ammasso di pelo, immobile da sembrare un collo di pelliccia. Quando inconsapevolmente viene sballottato a ritmo di musica rivela tutta la sua pucciosità, anche se io non la colgo perché non ho un buon rapporto con gli animali ma diverse commesse e gli altri che sono lì in attesa di pagare i capi di abbigliamento in saldo scelti si superano in moine, versi, vezzeggiativi e smancerie che mi fanno rimpiangere i tempi di guerra in cui nessun tipo di bestia veniva risparmiato per sopravvivere alla fame, altro che la crisi in cui versa il nostro occidente industrializzato che, a quanto vedo intorno a me, non sembra voler rinunciare a un ricambio del guardaroba.

Comunque, per non essere da meno e non sembrare insensibile, mi lancio in un tentativo di socializzazione chiedendo alla donna tutta orgogliosa del suo cucciolo a quale razza canina appartenga quel minuscolo esemplare di toporagno che tiene in braccio, a mio giudizio inguardabile e insulso nella sua piccolezza. Se un giorno prenderò un cane, e questo consideratelo un periodo ipotetico dell’impossibilità anche se forse i tempi verbali non corrispondono alla regola, quel giorno prenderò un San Bernardo o un cane di taglia gigantesca, perché così devono essere i cani. Perché altrimenti, se mi fanno paura le dimensioni, continuerò con i gatti.

La signora, lusingata dalle attenzioni di un uomo distinto come il sottoscritto, si rivela proprietaria di un volpino di Pomerania, mica cazzi, un volpino di Pomerania che nella mia ignoranza non ho mai sentito nominare in vita mia e che solo prima di accingermi a scrivere queste righe ho scoperto che Google lo riporta come primo suggerimento non appena si imposta la ricerca con il termine chiave “volpino”. Non solo. Come seconda informazione si trovano anche dettagli sul prezzo, dai € 1300 in su. Non so voi, ma se avessi un cane così in casa passerei il tempo a cercare di non calpestarlo, sai che danno.

Comunque, mentre immagazzino una delle principali nozioni utili della giornata, la canzone di cui non mi sono accorto subito ha svelato la sua identità, e cioè “Dolce Vita” di Ryan Paris, al che non posso che essere severo con me stesso. Avrei dovuto aspettarmelo, dopo “People from Ibiza”, i soliti Via Verdi di “Diamond” e un altro paio di oscenità italo-disco che mi riportano subito ai tempi dei sofferti primi pomeriggi in discoteca: io che bramavo qualcosa dei Depeche Mode o dei New Order per distinguermi un po’ dagli amici tamarri che invece, con la loro competenza da Dee-Jay Television, beccavano molto più di me.

Così, mentre la mia attenzione dal mini-cane si sposta in basso sui leggings fantasia che la signora, obiettivamente, non si può proprio permettere data l’età e la stazza, penso che gli anni ottanta hanno davvero rotto il cazzo. E credo di averlo scritto mille altre volte in questo blog, lo so, ma faccio prima a ripeterlo anziché cercare i post in cui ho disperso le mia invettive contro il periodo che si è consumato a contorno della mia adolescenza. Gli ottanta hanno davvero rotto il cazzo e, soprattutto, musicalmente non ne posso più.

Non c’è centro commerciale in cui vada, non c’è stazione radio su cui mi sintonizzi in cui almeno una volta non venga programmato e diffuso uno di questi brani inutili che sono la mia maledizione. Mi rompevano il cazzo quando sono stati composti, mi hanno rotto il cazzo quando erano già superati ma c’era chi li ascoltava ancora, mi hanno rotto il cazzo quando è iniziato il revival degli anni ottanta e la moda connessa, e ora, trent’anni e rotti dopo, continuano a rompermi il cazzo. E forse l’immobilismo culturale, sociale, politico che è la nostra rovina oggi deriva proprio da qui, da un manipolo di perfidi selezionatori musicali che vogliono far sentire la gente ancora negli anni ottanta perché lo leggiamo anche su tutti i giornali che consumi e sviluppo non sono cambiati da allora.

E la sfortuna vuole che la coda, con quel toporagno canino che cerca di catturare la mia tenerezza ma sono certo utilizzerei in ben altro modo e la sua padrona che si muove a ritmo con la Dolce Vita di Ryan Paris, dura un bel po’. I clienti in fila alle casse sono tanti, le cassiere sono solo due e malgrado la ressa ne approfittano per indurre le persone – come accadrà a me dopo – a fare la tessera fedeltà.

Ma a me la voglia di ballare non aumenta per nulla. Mi viene in mente però l’ennesimo adattamento della celebre barzelletta del bunga bunga, quella che ha dato il nome all’ancora più celebre passatempo preferito del nostro ex ex presidente del consiglio. Immagino me vestito da esploratore legato a un albero da un branco di selvaggi armati di frecce avvelenate che vogliono farmi la festa, e il loro capo mi chiede, con il tono da stereotipo di uomo non civilizzato delle barzellette da colonialismo italiano anni venti, “Hei tu! Vuoi morire o andare per saldi?”. Io, con la voce rotta dal terrore, rispondo: “Morire… morire…”. Lui, soddisfatto, mi mette al corrente della sua decisione: “Va bene, però prima un po’ di saldi”.

facciamo la gara a cosa sentiamo dentro di noi

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Finché scatta qualcosa nella testa, come se l’organismo attivasse degli anticorpi finalizzati a un impulso di conservazione, un istinto di sopravvivenza, un vero e proprio moto a difesa dall’estinzione della specie cui apparteniamo che assume le sembianze di una canzone che si diffonde dentro di noi a un volume esagerato.

Per nostra fortuna nessuno al di fuori percepisce di che brano si tratta a meno che, nell’impeto del momento, la sorta di trance cui siamo soggetti ci induce all’oblio e il nostro inconscio si appropria del nostro sistema fonatorio per cui la cantiamo pure, e in quel caso sono cazzi. Perché di solito si tratta di pezzi oltremodo inopportuni, che in condizioni normali nemmeno ci ricordiamo che esistono. Io così ho preso l’abitudine di razionalizzare a caldo ciò a cui vengo esposto e a segnarmi sul mio taccuino la colonna sonora che mi nasce in quei momenti. Non vi ho ancora specificato quali, però.

Per esempio, a me succede di provare forte imbarazzo o sensazioni di vergogna incontrollabile, uno stato d’animo talmente preponderante che qualcosa nel mio corpo mette la manopola dell’amplificatore che c’è in me a manetta, come se dovessi coprire con il suono qualcosa che non posso permettermi di ascoltare. E mi accade per cose che faccio o che dico, in momenti solitari o in compagnia, quando vengo redarguito di qualcosa o se prendo un abbaglio vistoso. Non so, chissà se capita anche a voi.

Mi sono accorto che quando vengo preso da questi attacchi mentre sto guidando e non c’è nessuno con me, ecco che mi viene d’istinto di cantare cose sciocche a squarciagola, per stordirmi e farmi passare il disagio che ho provato per una cosa che ho pensato o che mi sono ricordato. In genere, invece, se mi trovo con qualcuno, sui minuti successivi è bene stendere un velo pietoso proprio per la selezione musicale a cui un qualcosa di veramente profondo in me si dedica per stemperare a suo modo le conseguenze emotive, senza accorgersi che invece così peggiora la situazione.

Ecco le prime tre situazioni tipo che mi vengono in mente:
a) vistoso calo di autostima dovuto a svarione preso nella vita privata o professionale in presenza di testimoni oculari presso i quali la considerazione nei miei confronti, da quel momento in poi, non sarà più la stessa. Il mio dj subconscio propone immediatamente roba tipo “Voglia di morire” dei Panda, ovviamente nel punto del ritornello in falsetto. Agghiacciante, no?

b) improvvisa reminiscenza di episodio increscioso che mi ha visto protagonista, a scelta tra la volta in cui a dieci anni scontrandomi con un amico in bici lui si è rotto la gamba o quando, qualche tempo dopo, mi fingevo medium in sedute spiritiche per acquisire autorevolezza su ragazzi più grandi. In questo caso Radio Plus1gmt si sintonizza immediatamente sulla strofa di “Tu semplicità” dei Matia Bazar, che voglio dire sono un gruppo che stimo e rispetto ma quella canzone lì è davvero discutibile.

c) fatal error in relazione sentimentale, come una affermazione detta a sproposito o anche in buona fede ma di quelle che il partner ne assimila solo la componente deleteria e si scatena un diverbio a rischio rottura definitiva. Una scena postuma piuttosto tipica vede me che lavo mestamente i piatti tentando di cancellare dalla memoria “Uomini soli” dei Pooh che, anche qui, ci sarebbero canzoni più consone come “Big mouth strikes again” degli Smiths ma spesso questo juke box che risiede a nostra insaputa in qualche area nascosta del nostro ego sembra contenere solo roba trash italiana che in confronto Julie & Julie sono gli Interpol.

Be’, che dire? Spero che a voi sia andata meglio, e se avete queste stesse reazioni da sgradevolezza di voi stessi possiate contare su un repertorio più presentabile. A me è toccata una coscienza degna di un autoscontro in un piazzale sterrato di un paesucolo di provincia, in un giorno qualunque.

se sei fuori dal tempo basta un click

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Se osservate bene questa foto del mio pianoforte, e dovete avere molta lungimiranza e fantasia perché in realtà la foto non esiste ma il pianoforte si e prima o poi una foto la farò e la posterò, potrete notare che il metronomo nero non è assolutamente in tinta con il marrone scuro del mobile dello strumento. Forse il primo pianoforte che ho avuto, a noleggio e agli albori dei miei studi pianistici, era nero e il metronomo è stato acquistato di conseguenza, ma non ricordo e non ci metterei la mano sul fuoco. I miei, che hanno disposto e provveduto economicamente anche alla mia educazione musicale, non badavano granché a dettagli estetici come quello.

Ma questa è solo l’unica lacuna di quello che ritengo sia l’elemento cardine di tutta la musica e, in senso traslato, di tutta la vita. Il sistema di scansione regolare del tempo – quell’odioso, rassicurante e marziale tìn tac tac tac tìn tac tac tac a velocità regolabile che dovrebbe accompagnare ogni pezzo eseguito durante le sessioni di studio del pianoforte – e soprattutto l’abituarsi a suonare con esso qualunque cosa – classica, rock, jazz, canzonette, improvvisazioni a cazzo, il gatto che zompetta sopra la tastiera eccetera – farà di voi non solo dei valenti e rigorosi musicisti, ma anche persone migliori (guardate me!) capaci di scandire ritmicamente ogni gesto, di camminare senza intralciare l’andatura altrui, di ballare in armonia ai concerti evitando di dare testate e gomitate inopportune al prossimo, di programmare al meglio il vostro futuro imminente misurando le distanze e il tempo impiegato per raggiungerle (anche solo metaforicamente) nonché di tagliare e riciclare parti di brani in formato digitale con apposito software di audio editing e farne ciò che preferite. Una serie di vantaggi mica male. Se non mi credete, provate ad ascoltare musicisti cresciuti studiando senza e ad accompagnarvi con loro. Tecnicamente ineccepibili ma alla seconda strofa li avrete già persi. E non sono solo io a dirlo.

Dovremmo fare tutti quanti come Giorgio Moroder. Giorgio Moroder voleva fare un album con il suono dei 50, dei 60 e dei 70 e quindi ottenere il suono del futuro, almeno questo è ciò che asserisce nel tributo che i Daft Punk gli hanno dedicato nell’ultimo celeberrimo album. Giorgio Moroder voleva inventare il suono del futuro, e pur non avendo idea di cosa fare e di come ottenerlo decise che avrebbe usato un click, che per i non addetti ai lavori è un impulso sonoro che, registrato su una traccia di un registratore a più piste, è in grado di far suonare a tempo non solo i musicisti in carne ed ossa che lo utilizzano come un tradizionale metronomo, ma anche di trasmettere il tempo da tenere a sequenze preregistrate su sintetizzatori analogici. In questo modo non solo batteria, basso, chitarra e tastiere possono suonare a tempo e non necessariamente simultaneamente, ma anche arpeggiatori, parti ritmiche, drum machine eseguono parti perfettamente sincronizzate con tutto il resto. Oggi ci sono i sequencer e i computer, e se un tempo le cose funzionavano diversamente il risultato non cambia. Quando ascoltate una canzone del vostro gruppo preferito, tutto fila miracolosamente a tempo perché da qualche parte, nascosta sotto tutti gli altri strumenti, in studio è stata usata come prima cosa una traccia di metronomo.

Ma non lasciatevi spaventare da questo mini-manuale operatore, peraltro molto approssimativo. Il bello di suonare o registrare o fare qualunque cosa di musicale con il click è che un brano alla fine puoi montarlo, smontarlo e paciugarlo come vuoi. Ci si può intervenire facilmente con qualunque strumento o effetto sonoro prima, dopo, durante fino a stravolgere il risultato.

Ora pensate la genialità di questo sistema e provate ad applicarlo a voi stessi. Se tutto è a tempo, tutto è assolutamente intercambiabile. Possiamo entrare e uscire a piacimento dalle situazioni e rimanere perfettamente allineati a ciò che accade, sia che siamo dentro che se per qualche motivo ci siamo chiamati fuori. Abbiamo infatti comunque la certezza della sequenza di ciò che succede suddivisa in moduli della stessa durata e possiamo tornare a reimpadronirci del flusso degli eventi a nostro piacimento. Per non parlare della assoluta percezione di fattori quali la durata, la velocità e ciò che succede lungo le altre tracce che stanno suonando contemporaneamente alla nostra, sincronizzate al millesimo di secondo. Non solo. Disseminare la propria vita di punti fissi facili da ripercorrere e trovare, un po’ come accadeva per i sassolini bianchi di Pollicino, perché collocati intelligentemente a tempo – l’intelligenza sta proprio nello scegliere una velocità adeguata alla propria indole – ci permette di disporre di una mappatura della nostra esistenza con tanto di introduzione e finale che, si spera, sia il più possibile ad libitum.