fenomenologia del sound check

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Il sound check preliminare a un concerto con più gruppi condensa una serie di dissapori inaudita perché è raro raccogliere in un unico agone tante piccole rivalità fuori dall’ambiente sportivo e in un ambito che non è un concorso. Non c’è nessuno che può vincere o arrivare secondo o classificarsi all’ultimo posto perché è già tutto deciso. Ci sono gli headliner, i supporter, si sa già a priori chi inizia per primo e chi gli succede, e forse è per questo che certi attriti sono palpabili. Le ingiustizie arbitrarie non possono essere vendicate in nessun modo e si accetta la dura legge degli organizzatori e dei direttori di palco, che non è detto che sia corrispondente al giudizio popolare, un po’ come nella politica. Ma ai concerti con più gruppi bisogna prendere o lasciare, già ci sono poche occasioni per esibirsi e quindi potrebbe sembrare meglio che niente.

E mentre poi durante il live degli altri gruppi è bene starsene appartati dietro le quinte a scaricare la tensione, il sound check è un momento per fare squadra seduti di fronte al palco e studiare il nemico. Il suo suono, la tecnica, la strumentazione, qualche anticipazione sui pezzi anche se è una regola implicita quella di non eseguire i cavalli di battaglia ma di bruciarsi le retrovie del proprio repertorio per poi sbaragliare i giochi quando si farà sul serio. Ed è preso come un tradimento alla causa l’allontanarsi dagli altri membri della band mentre si osservano gli altri gruppi mentre provano, si tratta di un momento delicato per il morale collettivo e mai in questo caso l’unione è in grado di fare la forza.

La regola vuole poi che il sound check venga eseguito a partire dall’ultimo gruppo che si esibirà per concludersi con il primo a salire sul palco, in modo che i tecnici – ai quali almeno in teoria dovrebbe andare il plauso di tutti considerando la mole di lavoro in tali frangenti – possano lasciare mixer e varie impostazioni inalterate alla fine della prova del suono e partire con il primo gruppo già con tutto a posto.

I comportamenti poi sono abbastanza standard. I batteristi sotto il palco osservano i batteristi che provano piatti e tamburi e normalmente maggiore è la differenza tecnica in favore di quelli sotto il palco – il che significa che il batterista che sta facendo il sound check suona con un gruppo ritenuto più importante ma è uno strumentista oggettivamente più scarso – maggiore sarà il livore per i propri compagni. Il batterista più bravo ma in forza al gruppo meno capace penserà che la sua posizione inferiore sia a causa del resto della sua band. Ma poi, una volta iniziato il live, sarà evidente che a fare la differenza è l’insieme dei musicisti, anche con strumentisti meno in gamba. Sono le canzoni e l’insieme che contano. Se un gruppo suona più tardi degli altri, nel clou della serata, un motivo ci sarà.

I chitarristi sono sempre i più difficili da gestire perché richiedono di provare tutte le sfumature del loro suono: pulito, con effetti, poco distorto, molto distorto, solista, ritmico, in arpeggio, il wah wah, la seconda chitarra, l’acustica, l’accompagnamento mentre fanno la seconda voce. E quando non sono loro intenti nel sound check, osservano gli altri cercando di dissimulare l’effetto sorpresa dovuto al riconoscimento della superiorità.

I bassisti si giocano invece tutte le carte in poco tempo, provano l’intesa con il loro compagno di sezione ritmica dietro ai cassa e hi-hat, e a meno di richieste particolari hanno poche pretese. Nell’ascolto altrui sono quelli più nerd, si avvicinano per scrutare da sotto pedaliere e amplificatori e ne fanno spesso tesoro.

Più complessa la situazione per i tastieristi a cui nessuno è abituato. Ci sono quelli con più strumenti che occupano troppi ingressi nel mixer e vengono accusati dal tecnico del suono di non essersi attrezzati adeguatamente con un pre-mixer personale. C’è poi anche il problema del cablaggio a seconda degli spinotti per non parlare del posizionamento sul palco, se ci sono altri gruppi bisogna poi spostare tutto e non è come per gli altri strumenti che certe parti possono essere condivise. Ognuno ha i suoi synth e i suoi suoni. Nel complesso sono i più umili, riconoscono lo strapotere economico che consente un set più ricco e, conseguentemente, maggiore qualità. Fanno domande e si scambiano impressioni, sempre con il dovuto riconoscimento reverenziale all’ordine nel cartellone.

I cantanti invece sono i peggiori, da questo punto di vista. Si vergognano ad andare oltre il SA SA SA PROVA SA UAN CHECK UAN TWO CHECK CHECK e quelli al mixer impazziscono per capire l’intensità con cui sbraiteranno al microfono. Li riconosci anche perché hanno la fidanzata sotto il palco che tiene in mano una macchina fotografica puntata verso di loro. I cantanti arrivano comunque per ultimi, sono quelli meno propensi a confrontarsi con la concorrenza e raramente, durante la loro prova, danno il meglio. Il loro apporto è frutto dell’ispirazione, mica si devono allenare prima, loro.

Nel complesso, si tratta di comportamenti che valgono per tutte le band, dalla più scrausa alla più professionale, da quella esordiente alla più popolare, da quella più giovane a quella con maggiore esperienza. Il copione è sempre lo stesso, e la cosa divertente è che un buon ottanta per cento del tempo impiegato per il sound check, che nel caso di concerti con tanti gruppi porta via anche un pomeriggio intero, non serve a nulla. Niente. Il concerto inizia ed è tutto da rifare, perché nel mezzo c’è stata una cena con abbuffata, qualche birra di troppo, l’umidità, senza contare la scarsa considerazione dell’eterogeneità degli stili di ogni band, il non aver fatto i conti con la sala o l’area senza il pubblico che assorbe i bassi, la tendenza dei musicisti ad aumentarsi a cazzo il volume sul palco, un po’ di errore umano dovuto alle distrazioni a cui i mixeristi sono soggetti e il gioco è fatto. Se il concerto con più gruppi è una merda lo si vede anche solo dal sound check.

quel pop new wave da serie C

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C’è poi la serie C composta da un unico girone in cui militavano tutte quelle band e artisti che erano a metà tra la new wave e il pop, anzi più verso il pop che la new wave, comunque composta da teste di serie di tutto rispetto che erano gli OMD, i Propaganda, gli Human League, i Talk Talk, i Visage, i Tears for Fears, i Blancmange, Lloyd Cole, i Big Country, i The Cult e tutta quella roba lì che passava a Deejay Television. Per la cronaca, mentre la serie A potete immaginare da chi fosse frequentata, in serie B militavano quelli subito sotto ai grandi campioni, roba comunque di tutto rispetto del calibro di Echo and the Bunnymen, Chamaleons, Soft Cell e Comsat Angels. In serie C invece rientrano quelli che, alla peggio, ti alzavi dai divanetti e li ballavi perché comunque sempre meglio dei Modern Talking o di Tracy Spencer e di tutta la merda italodisco che non ho mai capito perché tutti, poi, l’abbiano additata come un prodotto originale come quelle scarpe che oggi esportiamo in tutto il mondo e che rendono milioni di persone inscopabili a livello globale.

Erano comunque cantanti che tutto sommato nei video accennavano movenze un po’ dark e sulle riviste commerciali erano già considerati ampiamente alternativi e al terzo White Lady la soglia critica scendeva sempre, irrimediabilmente, quindi si riempiva la pista. Ma, come potete immaginare, per chi aveva il potere di giocarsi fuoriclasse di altri pianeti come Polyrock, Durutti Column, Tuxedomoon, The Sound, Clock DVA o Suicide o, comunque, sintonizzarsi su prodotti più facilmente e oggettivamente categorizzabili come Joy Division, The Cure e Bauhaus ma sempre di qualità eccelsa, ballare i ritmi ordinari di brani piuttosto commerciali costituiva una pratica da seguire in modo distratto, come un virtuoso abituato a Rachmaninov approccia una sonatina in do maggiore di Muzio Clementi. Sigaretta in mano e consumazione dall’altra, la passione per le atmosfere cupe doveva esser giustamente impiegata proporzionalmente al livello di impatto emotivo del sonoro sullo stato d’animo.

Poi sapete come è andata a finire, il tempo dilata qualsiasi ricordo e oggi certi ascolti se li filano in pochi mentre le mezze calzette delle riviste patinate sono finite nel calderone della memoria collettiva a simboleggiare un periodo e una scala di valori di giudizio che, se avete vissuto quegli anni perché ci siete cresciuti, come me, allora erano assolutamente rigidi. In serie C c’erano per esempio anche gli Eurythmics, che a me al terzo pezzo già mi annoiavano pur essendo sempre tra le prime tracce delle compilation ufficiali per nostalgici (che poi trovo che farsi preparare compilation da altri al di fuori di me un abominio). Un po’ troppo pretenziosi, nevvero? Piuttosto ben vengano gli Heaven 17, eleganti, con quelle belle pettinature e direttamente da Sheffield che, ricordiamolo, doveva essere un bel concentrato di british sound tra la fine dei 70 e i primi 80. Oltre al celeberrimo “Let me go”, che nelle versioni extended play riuscivi ad ascoltarlo anche per venti minuti senza dare di matto, a me piaceva molto questo pezzo qui. Anche per la vocalist, se ve la devo dire tutta.

1994-2014 almeno dieci cose che son successe ma potremmo andare avanti all’infinito

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La notizia della ristampa di “Hai paura del buio” degli Afterhours con tutto quel parterre di ospiti, che tra parentesi “Rapace” cantata da Sangiorgi me la immaginavo proprio così com’è considerando che sembra un pezzo tagliato su misura per i suoi vibrati melodici e popolari, mi ha mandato nel panico perché operazioni di questo genere siamo abituati a vederle fare in occasione del ventennale di qualcosa. Anniversari a cifre tonde, insomma. Mi sono davvero preoccupato perché non mi sembrava così tanto, come invece per l’analoga iniziativa dei 99posse che hanno rifatto “Curre curre quagliò” nuovo di pacca. Ma il primo disco di Zulu e compagni è del 93, mentre quello di Manuel Agnelli e soci è del 97 e quando me ne sono sincerato ho tirato un sospiro di sollievo. Perché questo dannato ventennio che si consuma tra qualche settimana, che è il ventennio della rise and fall of Silvio Berlusconi e the Renzi from Mars è facile metterlo tutto insieme, analizzarlo in modo compatto proprio come fosse un tutt’uno, un’epoca a sé stante che finisce con le slide in PowerPoint del neo-premier a quasi due decenni giusti giusti da quelle elezioni che hanno cambiato – in peggio – il corso del nostro Paese.

Quindi lasciando da parte il doppio CD della band milanese presentato e strombazzato a destra e a manca in questi giorni, e il fatto che abbia conquistato la ribalta quello che si dice una minestra riscaldata la dice lunga sullo stato della musica in Italia, se non li avete vissuti come è accaduto a me perché magari eravate troppo piccoli o già troppo adulti per accorgervene, in questi due decenni a cavallo del nuovo secolo è davvero successo di tutto. Io ho smesso di suonare e mi sono costruito una professionalità a cui mai avrei pensato di giungere, tanto per iniziare. E per continuare il punto di vista personale, sono partito spiantato sentimentalmente fino a farmi una famiglia con persone davvero in gamba. Mi sbellicavo dalle risate sulle vignette di Vauro e leggevo Il Manifesto tutti i santi giorni, mentre oggi non capisco più né l’uno né l’altro. C’è stato Friends che sembrava una nuova età dell’oro per i giovani e la loro scalata all’indipendenza e invece ha portato un po’ sfiga, almeno qui dove le camerette a scrocco da mamma e papà vanno ancora alla grande. C’è stato un apice, quello della politica italiana con Prodi e l’Ulivo e un vero e proprio tracollo con i nazisti del grillinois e i loro capelli naif.

Ma lasciatemi azzardare una riflessione. C’è stato anche il punto di non ritorno della musica di tutti i tempi che ha un nome che è OK Computer, e un analogo fenomeno sull’Internet che è legato a doppio filo proprio con l’album dei record compositivi dei Radiohead. Ricordate la storia, vero? Un utente ha avuto l’intuito di mettere insieme alcune delle decine di migliaia di cover soliste o in gruppo di Paranoid Android, ma a tempo e sulla traccia originale. Il risultato, che è un video che trasuda devozione e amore per il quintetto di Thom Yorke, è stato così tanto commovente che i Radiohead stessi l’hanno condiviso in home page sul loro sito. Si tratta di una vicenda che è successa qualche anno fa ma che mi è tornata in mente in questi giorni di baci rubati al viral marketing. Emozionare con l’Internet si può, ma è importante toccare i tasti giusti.

salite a vedere la mia collezione di dischi

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Forse l’unico aspetto deleterio per cui verrà ricordato il processo di dematerializzazione della musica, dovuto all’avvento del digitale, non sarà tanto l’aver mandato in fumo un intero sistema economico identificabile nell’industria culturale di riferimento, quanto la fine dell’ascolto collegiale e del valore sociale del supporto. Non mi riferisco tanto al primato dell’uno o dell’altro tipo – vinile, nastro o cd – quanto alla straordinarietà intrinseca dello stesso dovuta alla dilatata ricorrenza con cui avveniva l’approvvigionamento personale, almeno nel mio caso, tanto che procurarsi questo o quel disco generava una vera e propria catalizzazione di interessi comuni e non era raro considerare la possibilità di vedersi in spazi privati tra più persone, con l’obiettivo di condividere la fruizione in compagnia di una novità, un’alternativa ad altri passatempi ma di eguale livello di interesse rispetto, per esempio, a un film al cinema, per non parlare della visione di un programma tv.

Ma non so, forse recarsi a casa di uno o dell’altro che si era procurato il 33 giri appena uscito del gruppo xyz era un rito consumato solo da fanatici operatori del settore, come il sottoscritto e la sua ristretta cerchia di musicisti dilettanti. Ricordo stanze dedicate all’impianto stereo gremite, gente seduta un po’ ovunque, sigarette accese a raffica e qualcosa da bere, ma soprattutto la noncuranza con cui si affrontavano gli sguardi dei convenuti intenti a posarsi sul vuoto, considerando che esercitare l’udito non comporta necessariamente l’osservazione della sorgente sonora. Gli occhi si posavano sulle espressioni altrui come a condividere l’emozione che la fine di una canzone stava sostituendo alla pienezza del suo manifestarsi con accordi, strumenti, melodie, ritmo e parole congiuntamente. L’elaborazione intima dei solchi di separazione tra un brano e l’altro, un moto interiore come un liquido denso che va a riprendere la forma del suo contenitore non appena riposizionato correttamente dopo esser stato inclinato per versarne un po’ altrove. Quindi l’informale dibattito finale seguente al numero di ripetizioni sufficiente a farsi un giudizio motivabile e l’immancabile richiesta di duplicazione o, nei casi di maggior confidenza, di prestito, una proposta difficilmente esaudibile, facile immaginare il perché.

Oggi l’ascolto collegiale fa sorridere come una qualsiasi altra pratica obsoleta soppiantata dalla facilità e dalla conseguente sovraesposizione con cui il suo elemento cardine è divenuto fruibile individualmente. Resta solo l’inconfessabile soddisfazione che l’invio di un link a youtube abbia uno scarto emotivo sensibilmente diverso, se non minore – ma non voglio spingermi nelle considerazioni etiche – della ricezione di un pacco a seguito di un ordine effettuato per corrispondenza, un tempo le riviste musicali erano piene di inserzionisti che promuovevano questi servizi antesignani del commercio elettronico. L’arrivo della rarità direttamente dal Regno Unito conferiva al destinatario l’aura di miracolato dalla modernità e richiamava un allargato uditorio a festeggiare l’evento in una sorta di rito: prendetene e ascoltatene tutti, questo è il sacrificio che ho fatto con tutti i risparmi che ho speso, condividete con me la gioia del suono nuovo che si sprigiona, per la prima volta, negli spazi in cui vivo.

fate ciao alla mia amica Neneh Cherry

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Se giochiamo a persone famose con cui abbiamo raggiunto il minore grado di separazione, il che significa la conoscenza più o meno dal vivo, una delle mie carte che spiazzano l’uditorio maschile è quella di Neneh Cherry, che magari non impressiona tanto per il valore artistico soprattutto in certi ambienti dove i sette secondi di etno-pop con Youssou N’Dour non hanno tutta questa importanza, ma comunque è indubbio che quando è successo il tutto la mia amica Neneh era al massimo del suo fascino. E questo ve lo posso assicurare. Lo scenario era un festival musicale di metà anni 90 di quelli che nessuno si ricorda più, io e la mia amica Neneh eravamo lì entrambi per fare il nostro show con le rispettive band, io ho aperto una porta per sbaglio e lei era lì che stava chiacchierando con un giornalista e io, paonazzo per la gaffe, ho tentato le scuse con un sorriso che lei ha immediatamente restituito mostrandosi in tutto il suo splendore. Ben poca cosa, lo so, per voi che andate a pranzo con questo o quel cantante indie, ma per un ex tastierista di provincia si tratta di un exploit mica da poco. E ci scommetto che se avessi portato con me la copia in vinile di “God” dei Rip Rig + Panic, che scommetto anche che nessuno di voi sa che era il gruppo post-punk in cui la mia amica Neneh cantava e che io ho acquistato quando voi ancora consumavate i 45 giri del tempo delle mele, la mia amica Neneh avrebbe apprezzato eccome, stanca di dover rispondere alle domande di giornalisti – come quello che a differenza della mia amica Neneh si è innervosito per la mia gaffe – sul black-out della sua carriera successivo a Buffalo Stance. Comunque sono certo che tutti voi potrete recuperare ora con la mia amica Neneh. C’è in giro – o sta per uscire – un suo nuovo disco che, a giudicare dal singolo, mi sembra davvero niente male.

pezzi reggae a loro insaputa

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E se vi dicessi che uno dei miei gruppi reggae preferiti sono i Bauhaus? Mi prendereste per matto, vero? Sì, in effetti un’affermazione di questa portata suona più come una provocazione, considerando che la band di Peter Murphy e la musica giamaicana sono piuttosto agli antipodi, almeno per temperatura. Ma io sono uno uso a vedere cose dove non ci sono specialmente in due ambiti: le facce delle persone, trovo somiglianze molto spesso non riconosciute dai più, e colgo il reggae da tutte le parti.

Ma facciamo un passo indietro. Il vostro problema è che non dovreste classificare il reggae solo in presenza di uno strumento in levare. Pur essendo questo l’elemento che viene riconosciuto universalmente come distintivo per il genere, il fatto che per fare un pezzo reggae occorra mettere una ritmica in levare e, viceversa, il fatto che un pezzo che ha una ritmica in levare è un pezzo reggae, è un mito da sfatare. Per dire, la polka ha la chitarra in levare veloce, ma non è che si balla come lo ska. Magari sarebbe divertente da provare in una di quelle feste di paese estive in cui il liscio trionfa sul bene e sul male, ma questo è un altro discorso. E la letteratura pop e rock di casi analoghi è piena. Invece non è difficile considerare reggae canzoni che non hanno uno strumento smaccatamente in levare ma sono caratterizzate da linee di basso e pattern di batteria che, senza nemmeno un po’ di fantasia, potrebbero fungere da base per qualcosa di veramente reggae.

In UK, per esempio, il reggae alla fine degli anni 70 si era infiltrato un po’ ovunque nel rock, nel punk e in certa new wave. Quello dei Bauhaus, però, costituisce un paradosso. Voglio dire, provate a mettere un giamaicano sotto un palco dove c’è uno che sembra un pipistrello travestito da David Bowie che parla di cose deprimenti. Va bene che il reggae è parte della black music, ma dal black al dark il divario è sotto gli occhi di tutti, si tratta di materia scura ma per altri principi. Ma se così fosse, cosa ci facevano i Tv on the Radio sul palco proprio con Peter Murphy e addirittura quella sagoma solare di Trent Reznor a cantare un pezzo che è tutt’altro che un inno alla gioia di vivere, ovvero Bela Lugosi’s Dead?

Sì, ammetto che i Tv on the Radio sono dei musicisti black anomali, ma tant’è. Comunque questo mi consente di arrivare al punto. Il brano in questione, uno dei più noti dei Bauhaus, ha un incedere molto reggae. La batteria con la cassa dritta senza il colpo di rullante a raddoppiarne la portata, i colpi sul bordo molto utilizzati dai batteristi reggae, e il giro di basso, soprattutto. Il parallelo è facilitato anche dal fatto che ogni tanto a Daniel Ash una pennata in levare sulla chitarra gli scappa. Quindi qui, parlare di reggae, è fin troppo semplice.

Il pezzo invece a cui mi riferisco è la traccia uno di “Burning from the inside”, il quarto album in studio della band britannica pubblicato nel 1983. Il disco si apre con “She’s in parties”, la cui attitudine reggae è talmente eclatante che potete giudicarla da voi. Anzi, se andate a a 3:40 di questa versione extended play, c’è pure una parte dub che non stonerebbe come base per del sano toasting.

vivere insieme (12-inch 45rpm ep rmx)

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Non so quand’è che si capisce che quella è la persona giusta per te, non c’è una prova in cui ribalti i fattori, inverti gli addendi o aggiungi quello che hai sottratto. C’è una definizione molto simile a quella che è la verità, che invece definizione non ce l’ha, ed è che molto spesso ti accorgi se le cose funzionano se hai davanti uno o una che ce l’ha scritto in fronte. Almeno così dicono. Sapete, no, quei giudizi di frasi fatte sulle persone, come quando si dice che tizio è un libro aperto, gli occhi sono lo specchio dell’anima e così via. Ma mettetevi nei panni di chi con la fisiognomica non se la cava benissimo, senza arrivare ai paradossi lombrosiani, semplicemente riflettete sul fatto che di facce d’angelo – che poi non ho mai capito cosa voglia dire veramente – il mondo è pieno, e se le cose vanno male la colpa è anche la loro, così i conti non tornano.

Nel mio piccolo, mi fido di più di cosette che a raccontarle fanno persin sorridere. Per esempio se vedi qualcuno che come te non è in grado di scegliere, mentre cucina, il coperchio giusto per la pentola e ci vogliono almeno due o tre tentativi, non lasciartelo scappare. Non valgono gli altri sistemi per valutare le attitudini ad abbinare forme, come quei giochi che si sottopongono ai propri figli in età pre-scolare per inserire contenuti in contenitori. I cerchi passano nei cerchi, le mezzalune nelle mezzalune, i quadrati però anche nei rettangoli se hanno lo stesso spessore e, ovviamente la lunghezza del lato inferiore.

E se avere lo stesso orientamento politico è fondamentale, invece non vorrei deludervi ma leggere gli stessi libri, apprezzare gli stessi pittori o avere analoghe preferenze cinematografiche è ampiamente sopravvalutato. Intanto perché in fase di corteggiamento si forza sempre un po’ questo aspetto a proprio vantaggio, magari creando l’illusione altrui che tutte queste cose in comune vogliono dire qualcosa. Io ve lo sconsiglio, perché dopo qualche anno poi certi adattamenti al vostro sentire stanno stretti, scatta quella voglia di emancipazione in cui i primi a saltare sono quel cantante che avete voluto condividere come alla base del vostre precedente vissuto da single ma quei due o tre pezzi che a malapena conoscevate non fanno certo il tutto e, anzi, vi si ritorcerà contro. Conosco gente che ha chiesto il divorzio perché il partner ha messo un 33 giri partendo dal lato B, non rispettando quindi la volontà e il concept dell’autore.

Discorso diverso invece è se avete uno smisurato senso del tempo, intendo in musica, e non nel senso del susseguirsi degli eventi tanto meno inteso dal punto di vista meteorologico. Se avete una vicina di casa carina, per esempio, e parlo al femminile ma ovviamente si tratta di uno stratagemma unisex, a cui volete manifestare la certezza che vi si prospetta una vita insieme ma che al momento non se ne è accorta perché magari ne ha già una insieme a qualcun altro, fate come quel mio amico che si è procurato lo stesso disco che la vicina metteva sempre a tutto volume, lo si sentiva nel cortile. Anzi, se sono disponibili procuratevi i remix di quei pezzi, e appostatevi sui piatti come si fa quando si scoprono i percorsi e le abitudini altrui e ci si incontra casualmente – anche tu qui? Che combinazione! Al suo ascolto successivo fate partire anche voi il giradischi, a tempo, ovviamente, quindi iniziate a fare degli insert sul pezzo smanettando con il volume, avete presente no come fanno i dj? Metti, leva, metti, leva. E fatevi sentire. Le ragazze, ma penso anche i maschi, se apprezzano poi si prestano ad alternarsi a questa specie di performance live, almeno quel mio amico si è divertito un mondo, la vicina di casa pure, e da lì a mettersi insieme il passo è stato breve. E anzi, sapete che vi dico? Alla lunga può calare il desiderio, può evolversi il sentimento, ma nulla è mai come mettere insieme i dischi. Quando finisce uno può continuare l’altro, senza interruzione. L’amore, in fondo, è una specie di extended play.

ecco perché nella prossima vita imparerò a suonare il basso

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Invidio i bassisti perché riempiono il secondo strato sonoro a partire dal fondo, quello che se lo togli mentre stai ascoltando un pezzo ti accorgi subito che c’è qualcosa che non va. Non so se ne avete le possibilità, ma fare un prova in questo senso è oltremodo costruttivo. Prendete un qualsiasi pezzo con le varie tracce separate, ciò che poc’anzi ho definito strati. Partiamo dal basso, cioè dallo strato inferiore, quello più giù (devo stare attento in questo post a non usare il termine basso inappropriatamente altrimenti non ci capiamo più un cazzo): il ground zero è la batteria, sopra c’è il basso, poi una serie di strati armonici che sono gli strumenti più comuni, poi la voce, sopra la quale spuntano ogni tanto gli strumenti solisti quando il cantante si fa da parte. State visualizzando graficamente la cosa? Bene.

Provate a togliere la batteria. Ci sta, giusto? Il mondo è pieno di canzoni senza batteria, i pub e le spiagge sono pieni di chitarre acustiche sulla spalla e gente che se ne fotte di andare fuori tempo. Provate a togliere uno dei vari strumenti, allora. Cambia qualcosa? Tastieristi e chitarristi sono intercambiabili, tutto sommato. Provate a togliere la voce. C’è tutta una letteratura musicale di brani strumentali, corretto? Poi gli strumenti solisti. Le sezioni fiati, i violini e che altro si contano sulle dita di una mano. Certo, dipende dal genere, andatelo a dire a James Brown che tromboni e sax si sono ammalati e non possono presenziare all’esibizione live, e lo so che non potete farlo perché James Brown non è più tra voi. O vi sfido a presentarvi a una serata organizzata in un pub irlandese senza uno strumento ad arco. Ma si tratta di casi limite in cui sono disponibili ennemila ripieghi.

Provate ora a mettere in mute la traccia del basso. Tutti si guardano allarmati: che è successo? Si è rotto un cono della cassa? Qualcuno mi ha tirato un ceffone? Si è svuotata la sala dalle buone vibrazioni? Qualcuno ci ha ipnotizzato e poi spogliati nudi come vermi? Ci siamo impantanati nelle sabbie mobili e non si trova nessun appiglio per emergere?

Invidio i bassisti perché da soli fanno il 50% della resa di una canzone. Possono scegliere se mantenere la stessa nota mentre tutti gli altri musicisti devono sbattersi ad alternare accordi su accordi. Possono combinare note più alte a bordoni cupissimi, con quelle corde spesse come funi da tiro. Possono sbilanciare l’attenzione dell’ascoltatore in diversi punti di quegli strati che vi ho elencato sopra, a seconda dello strumento a cui vogliano dare man forte. Creano blocchi sonori che poi spostano altrove lasciando voragini. Possono interrompersi di colpo e, sfruttando la dipendenza generata all’ascoltatore dalla loro parte nell’economia della canzone, fargli sudare il loro rientro proprio come fanno gli aguzzini quando mostrano l’acqua fresca a chi stanno torturando senza dargli da bere. Come quando nel massimo dell’eccitazione il partner si sottrae all’amplesso lasciandoti soffrire nel brodo del parossismo, a un passo dall’orgasmo.

Per poi rientrare con la loro pienezza, riportare tutto in equilibrio, riempire le orecchie di quella sostanza che esce dalle loro corde che va a colmare ogni interstizio per poi solidificarsi in un basamento a prova di terremoto e farti arrivare sano e salvo all’ultima battuta. Amo i bassisti, sono fatali e conoscono l’arma della seduzione. Se hanno cinque corde, poi, non ne parliamo.

c’era quel disco dei Cure con i pezzi remixati, ve lo ricordate?

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Ogni tanto i The Cure saltano fuori citati nei blog, postati su Facebook, nei tweet, nelle nostre compilation del tempo libero o come distratta reminiscenza e solo perché Antonella Ruggiero a Sanremo sembrava Sean Penn che sembrava Robert Smith da vecchio e cose così. Ma fondamentalmente perché i The Cure sono una di quelle cose che sai sempre dove trovarle tanto hanno un loro posto: il timbro della voce, i suoni di chitarra e del basso, le tastiere poco definite, persino la traccia di batteria presa da sola e isolata dal resto potresti riuscire a collocarla a occhi chiusi nell’album dei The Cure o nel corretto periodo di appartenenza.

Io e la Miss ne sappiamo qualcosa. Ci sono i brani degli albori un po’ punkeggianti, poi c’è la trilogia scurissima che non ti dà scampo, poi c’è la sperimentazione e il rimescolamento delle carte compositive con “The Top” – che comunque resta uno dei miei preferiti, chissà perché – fino all’esplosione della celebrità tra l’85 e l’88 – “The head on the door” mi ha fatto crescere di una spanna e non solo per la cresta che avevo sulla testa – fino a quel capolavoro che è “Disintegration” e anche “Wish” che è un gran bel disco. Poi non so, ho smesso di seguirli nelle nuove uscite ma contemporaneamente ho preso a riscoprirli ogni tanto con una sensibilità nuova, fino ad oggi.

Voglio dire, ascoltare i The Cure a 16 anni è una cosa, a 47 è un’esperienza che non pensavo così intensa, ma che riguarda un po’ tutta la musica. A chi mi chiede perché sono così soddisfatto dell’aver smesso di suonare, rispondo che l’ascolto è diventato così totalizzante che non ha eguali, che va un po’ in contrasto con il senso di perdita che spesso Robert Smith associa all’invecchiare ma che invece – ma magari è un’idea che mi sono fatto io – è il senso di un film come “This must be the place”, ho come l’impressione cioè che Sorrentino l’abbia fatto apposta a disegnare una specie di Robert Smith a lieto fine, perché uno così dovrebbe solo bearsi di quello che ha creato in passato. Anzi, smettere in tempo prima di rovinare tutto. Se avete più o meno la mia età vi invito a riflettere su questo.

Ma non è di ciò che volevo parlare, bensì di un album dei The Cure che probabilmente è passato un po’ inosservato, trattandosi di una raccolta uscita nel 90 e che si intitola “Mixed up”. Sicuramente è un disco secondario fatto di versioni molto diverse di alcuni dei brani più noti della band, tra cui spicca una divertentissima “Close to me” con il tempo dimezzato e un po’ hip hop, “Lullaby” in extended version come anche “Pictures of you” che davvero non vorresti finisse mai. L’aneddoto personale legato a “Mixed up” è che lo acquistai su cassetta, cosa di cui ancora oggi mi struggo per il senso di colpa, considerando che a furia di ascolti poi il nastro – cosa che succedeva – si era deteriorato. Ma stavo svolgendo il servizio militare e mi serviva subito, non potevo procurarmene una copia su vinile e aspettare la prima licenza per riversarlo su C90. Quell’album doppio mi ha tenuto compagnia in tantissime occasioni, serrato nel mio walkman Aiwa con i bassi potenziati.

Ma il senso vero di quel disco tutto sommato marginale nella storia dei The Cure è la versione di “A forest” che contiene, completamente ribaltata con intuizioni secondo me già molto moderne, quasi anticipatrici di certe sonorità drum’n’bass che si sono diffuse poi qualche anno dopo. L’anello di congiunzione della teoria che sostengo è che Madaski, il tastierista producer degli Africa Unite, anni dopo ne ha fatto proprio una versione d’n’b che magari, chissà, attinge proprio da lì. Comunque ecco, anche se siamo fuori tempo massimo e certe atmosfere innovative di allora oggi risultano molto più datate di quelle di Seventeen Seconds, Mixed Up è comunque un bel modo per ascoltare i The Cure in una maniera un po’ diversa e considerarli da un punto di vista inusuale.

sanremo 2014, i vincitori amorali

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Un festival sottotono, un po’ in secondo piano rispetto a cose più serie come i rigurgiti antidemocratici dei nazisti del grillinois, i tumulti ucraini e in Venezuela e le olimpiadi invernali che non so nemmeno su che tv le abbiano passate, di certo non sui canali che prendo io. Ma ci sono alcuni fattori che hanno contribuito ad abbassare la qualità di questa edizione, tenendo conto che stiamo comunque parlando di una manifestazione fuori dalla realtà e che non rappresenta nulla se non sé stessa. Ammetto poi di non avere seguito tutte le serate, e pure durante la finale ci ha pensato Ligabue a darmi il colpo di grazia – Ligabue che mi fa cagare sin dal 1990 se non prima – così ho pensato bene di non resistere fino alla proclamazione del vincitore, consapevole che i Perturbazione, comunque, non ce l’avrebbero fatta.

Intanto la coppia Fazio – Littizzetto siamo tutti d’accordo che basta. Poi dovremmo smetterla con le vecchie glorie della tv, la nostalgia con davanti il baratro fa tristezza doppia e non insegna nulla. E a Crozza cosa gli è preso? A stare con Fazio gli è venuta la benignite? Ma siamo noi che sbagliamo ad aspettarci cose diverse da un evento così, che è un po’ quello che dicevo qualche post fa paragonando Sanremo al governo Renzi. Ma veniamo alle canzoni:

Arisa: sopravvalutata, mi aspettavo il primo posto a Renga e non capisco davvero il perché della sua vittoria. Voto: 0
Raphael Gualazzi feat. The Bloody Beetroots: anch’io l’ho messa al secondo posto, divertente e originale anche se la presenza dell’uomo mascherato mi avrebbe indotto a una squalifica preventiva per inutile tasso di tamarraggine. Voto: 7
Renzo Rubino: chi? Voto: 0
Francesco Renga: le spettatrici che hanno sbavato tutta la sera sull’ex Timoria me l’hanno reso inviso. Canzone piaciona ma che non vale nemmeno la pellicola che avvolge il cd di Marco Mengoni. Voto: 0
Noemi: al solito il timbro no-future, questa volta però alle prese con un testo che non sono solo parole ma anche un po’ di spensieratezza. Solito giro di accordi tutto sommato gradevole. Nella mia classifica si piazza terza. Voto: 6.50
Perturbazione: una delle più belle canzoni mai sentite a Sanremo, perfetto mix tra pop, originalità e atmosfere indie. Resta il dubbio sul ruolo del violoncello e chi, dal vivo, suonerà le parti di Moog e di Theremin, considerando che non hanno un tastierista. A proposito, se vi occorre potete contattare me (ho comprato “In circolo” a un vostro concerto, appena uscito. Potete fidarvi.) Voto: 10
Cristiano De Andrè: dupalle, eh. Spiace per il cognome che porta, ma il patronimico nel pop non sempre è un valore aggiunto. Voto: 2
Frankie Hi-Nrg: niente di che, mi aspettavo grandi cose ma l’unica conferma che mi ha dato è che a Sanremo porta pezzi scadenti. Voto: 3
Giusy Ferreri: senza la produzione di Trentacoste, quello che suonava la chitarra ne “Il mare immenso” che è un pezzone, torna nell’anonimato non prima di aver sfoggiato un taglio di capelli da bulla di Bollate. Voto: 0
Francesco Sarcina: un po’ meglio del peggio ma senza nessuna vibrazione. Voto: 4
Giuliano Palma: il zillismo e i finti anni 60 hanno rotto il cazzo, lui pure, per di più con scelte armoniche – ascoltatevi la progressione finale di “Così lontano”- oltremodo discutibili. Voto: 0
Antonella Ruggiero: mi sono addormentato, ho apprezzato però il tormentone sui socialcosi circa la sua somiglianza con Robert Smith da vecchio. Voto: 2
Ron: imbarazzante. Voto: 0

Siete o non siete d’accordo?