Perché io non c’ho mai messo piede, non saprei dire che cosa c’è dentro, quali sono le attrazioni e che cosa si fa una volta entrati. Se si mangia e si beve o si ascolta solo musica, come suggerisce il loro nome. E quando noto per strada qualcuno con una di quelle magliette mi chiedo che senso abbia andare all’Hard Rock Cafè di Cancun quando ce n’è uno a Firenze. L’ho notato proprio la prima volta in cui ho visitato la capitale toscana, ci sono passato davanti lo stesso giorno in cui avevo visto una donna completamente nuda se non per un paio di stivali rossi passeggiare in totale scioltezza per una via adiacente il Duomo. Era ottobre e non faceva ancora freddo quindi non dovete preoccuparvi per la sua salute, almeno quella fisica, ecco. Io pure ero ancora in bermuda e alloggiavo in una pensione nel quartiere di San Lorenzo gestita da una famiglia dal cognome palesemente genovese, fatto che mi aveva divertito. Poi appunto ricordo che stavo guardando una vetrina di un negozio di scarpe proprio ad altezza pube umano quando ho notato che c’era qualcosa che non andava, in quella tizia a passeggio. Era tarda mattina, quasi l’ora di pranzo, e l’Hard Rock Cafè di Firenze era già aperto, ma di cose mai viste avevo già fatto il pieno, per quel giorno. E poi c’era così tanta luce fuori che l’idea di infilarmi in un posto così buio l’avevo trovata uno spreco di risorse stagionali agli sgoccioli. Sapevo che però c’erano le collezioni di chitarre, di abiti di scena famosi, di reliquie ed ex-voti dei metallari, che erano posti meta di rockstar in cerca di alcolici senza limiti, addirittura mi immaginavo una sorta di museo delle cere o con Elvis e Jimi Hendrix imbalsamati e prodotti in serie. Una vera e propria americanata insomma e già sapevo che quindi, in vita mia, persa quell’occasione, non mi sarebbe più ripresentata. E magari chissà, la ragazza nuda con gli stivali rossi si stava recando proprio lì. Questo piccolo ricordo di un autunno a Firenze serve così per raccogliere tra di voi, che di certo sarete dei frequentatori abituali di questa catena di emozioni forti e trasgressive in franchising, qualche testimonianza dei migliori Hard Rock Cafè della vostra vita.
alti e bassi di fedeltà sonora
prisencolinensinainciusol
StandardFino a quando, un giorno, sarete chiamati a tradurre in italiano i testi delle vostre canzoni dall’inglese approssimativo in cui le avete composte. Sarà un trauma perché sarete costretti a dare un senso ai vostri pensieri e non solo un verso che ci sta bene con la metrica, considerando che a scrivere liriche in inglese, come fanno molti gruppi italiani che cantano in inglese, ci riesce anche mia figlia. Ma tanto noi italiani siamo agevolati dal fatto che all’estero non ci incula nessuno e quindi, rivolgendoci a un pubblico locale che a malapena sa come si dicono i colori, i numeri e i giorni della settimana, ci facciamo pure la figura degli esterofili. Ma se avete la fortuna che un produttore mette gli occhi su di voi siete fregati, perché a nessuno interessa un progetto che, fuori dall’Italia, anche nell’era di Internet, non avrebbe la minima possibilità di emergere. Tanto vale spartirsi quelle poche centinaia di incalliti scopritori di novità underground che però vogliono poter utilizzare i vostri aforismi come arma di seduzione nei commenti su Facebook. Insomma, dovreste tutto sommato essere contenti, perché di tradurre i testi in italiano ve lo chiede la casa discografica, ve lo chiedono i vostri fans. La società intera. Dio stesso. Il sacro fuoco delle parole con un significato riconoscibile e compiuto alimenterà la vostra arte mandando a monte i vostri esercizi di anglofonia, tutti pieni di quelle parole tronche che, del rock, sono la morte sua. Perché di monosillabi come qui, tu, più, su, te, già, giù, sì, là, lì, no non è che ne abbiamo tanti, e già dalla seconda strofa ogni paroliere fa fatica. E poi vi voglio vedere a rendere in italiano i phrasal verbs anche se, usandoli a cazzo, nemmeno vi eravate accorti che non hanno un significato corrispondente all’azione del verbo puro da cui derivano e quindi, già di per sé, volevano dire un’altra cosa da quello che intendevate. Per questo si fa prima a parlare d’amore, nelle nostre canzoni. “Ti amo” e “I love you” occupano, più o meno, lo stesso spazio nella bocca di chi le pronuncia. Purtroppo dire “cuor” invece di “heart” non vuole più nessuno, sono finiti i tempi di Claudio Villa.
l’inedito dei Beatles, un pezzo da sogno
StandardStanotte ho sognato che suonavo con i Beatles, probabilmente ero al posto di John Lennon ma in realtà suonavo il basso e avevo di fronte a me Paul McCartney che cantava ma la cosa funzionava lo stesso. Era un sogno, non è che si può pretendere di essere filologici al 100%. Il pezzo non era niente di che ma ero in affanno a fare la seconda voce su quella di Paul, sapete come sono strutturate le loro melodie. La parte strumentale in realtà non era molto complessa, era il classico giro blues in dodici battute e io già alla terza o quarta ripetizione mi ero stufato e avevo cominciato a svisare con il basso inventandomi linee soliste incurante del fatto che avrei potuto disturbare la riuscita del pezzo. Voglio dire, la responsabilità di suonare nei Beatles non è da prendere sotto gamba. Comunque me la stavo cavando bene e la cosa mi prendeva. Paul era molto giovane e muoveva la testa cantando secondo quel suo vezzo un po’ beat, con la frangetta che salta in quel modo yèyè che siamo abituati a vedere nei loro filmati degli esordi.
Ho collegato così quella jam session onirica con una raccolta che faceva mio papà quando ero ragazzo, sapete quelle uscite a fascicoli settimanali che poi alla fine dovevi portare in legatoria per farle assemblare come veri e propri volumi. Mio padre aveva questa mania delle raccolte e non se ne perdeva una. Dalle enciclopedie vere e proprie alla storia universale e le religioni del mondo, una modalità compulsiva e acritica di accumulo privato del sapere, incurante o ignaro dell’esistenza di biblioteche e dell’accesso a consultazioni gratuite e pubbliche. C’era in edicola questa grande storia del rock, e la cosa interessante, consultando la programmazione delle uscite, era la pubblicazione di dischi in aggiunta alle dispense. Il piano prevedeva alcune teste di serie, come Beatles e Rolling Stones, e poi una pletora di cantanti e gruppi mai sentiti e ai tempi non capivo che cosa c’entrassero con la storia del rock. Ma ero ingenuo e non sapevo nulla di diritti musicali e copyright. Ma anche per le band più blasonate, come i Beatles, mica c’erano le canzoni più famose, bensì solo pessime registrazioni live di concerti vecchi come il cucco, con scalette sconosciute e brani poverelli. Per la maggior parte pezzi e cover di rock’n’roll fine anni 50. Che delusione. Malgrado sin dalle prime uscite la fregatura fosse evidente, mio papà andò fino in fondo completando l’intera serie. Inutile dire che non credo di aver mai ascoltato nemmeno uno di quei dischi. Chissà, forse tra i solchi dell’uscita dedicata al quartetto di Liverpool c’è proprio quel brano inedito che ho sognato stanotte, e alla cui composizione ho contribuito anch’io.
Il sogno però poi si è evoluto nel modo surreale e consueto con cui la testa si libera delle tossine della nostra vita e cerca di compensare, in quella fase di incoscienza notturna, tutto ciò che ragione e autocontrollo filtrano con la loro rigidità. Il manico del basso Fender che suonavo – ecco, nel sogno non c’era nemmeno il prestigioso basso a mandolino – a un certo punto non era più un basso ma era la gamba di mia figlia, e io ho cominciato a farle una specie di massaggio come se fossi un panettiere che lavora la pasta e lei era molto divertita, così l’unica occasione di far parte dei Beatles si è trasformata in una sessione di gioco. Io le facevo il solletico tenendola per i piedi e lei mi diceva di continuare e di smetterla allo stesso tempo, come fa sempre, ridendo fino a quando deve correre in bagno.
ma cosa mi ricorda il nuovo singolo dei Coldplay?
StandardMumble mumble fatemi riflettere.
Ah ecco, trovato!
Uguale, nevvero? Voi che avete gli strumenti per fare un mash-up potete mettervi al lavoro, grazie.
cambiamo il mondo prima che il mondo cambi noi
StandardIl progetto musicale più ambizioso alla cui nascita ho avuto la fortuna di assistere si chiamava Negative Core e consisteva di un trio di punkettoni che, come esigeva il nichilismo anarcoide e decostruttivista proprio delle cellule che potevano essere ricondotte a quell’insieme – guai a parlare di movimento in un contesto così fortemente anti-sociale – suonavano da cani ma avevano ben chiaro il genere a cui con la loro non-tecnica avrebbero dato vita. Il leader, magro come un chiodo e con il chiodo sulla corporatura che sembrava solo un unico fascio di nervi, mi aveva spiegato il concetto di “cuore negativo” con uno movimento del capo e un gesto della mano a indicare il rimescolamento di diastole e sistole che io avevo frainteso come una semplice richiesta se mi andava un’altra canna, il che mi trovò prontissimo ad annuire.
Ricordo solo un pezzo che era un alternarsi del testo, composto da un’unica frase “one two three four negative cooooooore!” urlato senza musica sotto e poi giù tutti insieme velocissimi, chitarra basso e batteria, in un ammasso di grovigli sonori che ora posso definire a cazzo ma che un tempo erano identificabili nei non-canoni di puro hardcore che più estremo non si può.
Quindi niente a che fare con quell’altro progetto per il quale invece ero stato coinvolto in qualità di musicista, ambizioso solo nella forma ma oltremodo deludente nella sostanza. Io e una manciata di strumentisti eravamo stati contattati per dare vita a una band a tavolino, un vero e proprio concept artistico a partire dal nome, “infra-zona”, dal genere mai sentito che avrebbe avuto origine proprio dalle nostre composizioni, la “infra-music”, e dall’ambiente immaginario da cui vi avremmo fintamente tratto l’ispirazione artistica, la “zona del disastro”. Con tutta una serie di vincoli di esclusività e segretezza per non divulgare particolari a terzi che avrebbero potuto compromettere l’obiettivo del progetto, ovvero la scalata delle classifiche di tutto il mondo.
L’ideatore si era presentato alla riunione iniziale, tenutasi a casa mia, con un libello chiuso con tanto di sigillo in ceralacca e nastri di raso a sottolineare l’estrazione gotica e il background culturale da cui, comunque, ci si doveva emancipare. Prima di procedere con l’esposizione che ci avrebbe messo al corrente del progetto e ci avrebbe indissolubilmente legati in quella setta votata alla musica e alla celebrità, il sacerdote ci avvertì che da quel momento nulla sarebbe mai più stato come prima. Quella era la cerimonia iniziatica per un nuovo corso della storia, nostra e dell’umanità. Alcuni brani erano già pronti ed erano caratterizzati da una ritmica facile e da liriche redatte da catene di parole regolate da esigenze metriche ma senza grandi pretese, una specie di Righeira in salsa stucchevolmente pretenziosa da 4AD anni 80. Mi ricordo a malapena una strofa che diceva “sexy porno game”, il resto doveva essere su tali standard.
Ma i musicisti in genere non sono fedeli, sono più cazzoni e più opportunisti di qualunque altra categoria umana. Gli infra-zona non arrivarono nemmeno alla prima prova, qualcuno se l’era cantata, qualcun altro aveva nel frattempo trattato per spin-off o formazioni parallele a scopo giustamente di lucro, forse io. Qualcuno era stato ridicolizzato dalla partner e non se l’era sentita di investire in quella carnevalata che in confronto i Sigue Sigue Sputnik erano gli Inti Illimani. So però per certo che l’ideatore aveva ripristinato i sigilli del suo dossier e che già pochi giorni dopo si era messo alla ricerca di nuovi adepti.
nuovi contributi a sostegno della teoria secondo cui è meglio smettere
StandardSul palco c’è una cover band intenta nel sound check, una di quelle prove del suono sfortunatissime perché sotto il palco ci sono già molti se non tutti quelli che poi si fermeranno per il concerto, almeno fino a quando non saranno stufi. E ho scritto “sul palco” anche se il palco in realtà non c’è, cioè c’è un rettangolo alto quanto un pallet con un telo di risulta sopra, giusto per dargli un tocco di stranezza voluta in modo da far passare in secondo piano la stranezza oggettiva insita nel fatto di far suonare un gruppo in una via del centro chiusa al traffico praticamente al livello della gente. Tanto di gente ce ne sarà poca.
Ci sono io che passo di lato con mia figlia per mano e faccio finta di non conoscere il chitarrista che è anche il fondatore della cover band. Abbiamo suonato insieme a metà anni novanta in un gruppetto acid jazz, uno di quei progetti che si fanno giusto per cavalcare la moda musicale di un momento e aver più possibilità di suonare nei locali facendosi pagare almeno lo sforzo di essere contestualizzati al periodo storico. Per questo, passando di lì, faccio finta di niente, perché oggi il mio ex chitarrista, che comunque non mi riconoscerebbe perché per fortuna sono pesantemente invecchiato, ho la barba bianca e ho una bambina per mano, suona a quarant’anni suonati – almeno mi pare di capire dalla prova suoni – versioni hard rock di pezzi che erano già hard rock quando sono stati composti. Vi faccio un esempio? Highway star dei Deep Purple però avulsa da quella matrice ruvida dell’hard rock primitivo originale e resa inutilmente più fluida e più tecnica, come se a suonarla fosse uno di quei gruppi perfezionisti nerd di metal che ci sono adesso.
Il guaio è proprio che la cover band da cui mi allontano per rispetto di mia figlia, della musica, del tempo e anche dei Deep Purple sebbene a me i Deep Purple fanno cagare quasi più dei Queen, no scherzavo, nulla mi fa più cagare dei Queen, diciamo che i Deep Purple stanno comunque tra i primi cinque, dicevo che questa cover band che spicca sul non-palco della via del centro chiusa al traffico per non so quale manifestazione dei commercianti (siamo in una perfida cittadina di provincia) intanto è composta da tre ingegneri su quattro e ingegneri amici miei non me ne vogliate, ho il massimo rispetto per voi, ma nella mia esperienza (devo aver scritto qualcosa in proposito proprio qui, devo solo andarlo a cercare) non mi sono mai trovato a mio agio con ingegneri musicisti per di più abbienti e in grado di appagare senza pudore ogni minimo desiderio di estensione del proprio set di strumenti.
Si tratta inoltre di musicisti del secondo turno, cioè di quelli già di una certa età, più o meno la mia, che avevano già smesso proprio affinché l’attività musicale non intralciasse il successo nella loro professione (ah, ecco, mi è venuto in mente: di gran lunga peggio degli ingegneri sono i musicisti avvocati) e poi, rendendosi conto della giovinezza che va via, hanno pensato lustri dopo di darsi una seconda possibilità.
In più il gruppo in questione manca di un tastierista, un sacrilegio voluto per dare una maggiore flessibilità alla line-up, trasportare meno strumenti, velocizzare il corrispettivo del time-to-market in ambito musicale, ovvero essere pronti a fare concerti in minor tempo, e per potersi permettere sound check come quello a cui sto assistendo involontariamente passando di lì e dando loro le spalle per diminuire ulteriormente le possibilità di essere riconosciuto. Senza contare che Highway star dei Deep Purple senza l’assolo di John Lord è fallimentare in partenza, se non dovessi nascondermi in quel frangente mi fermerei ad ascoltare l’esibizione solo per alzarmi e andarmene al momento dell’assolo mancante di Hammond o, peggio, della sua sostituzione con un surrogato eseguito dal chitarrista ritmico.
Da qui in poi è tutta immaginazione, ma vale lo stesso la pena di fermarsi e osservare quello che succede. C’è una ragazza seduta in prima fila, molto carina ma tutt’altro che appariscente a cui sono certo che il cantante sta dedicando qualche attenzione mentre interpreta Ian Gillan con una spruzzata intenzionale di Ligabue. Io la conosco perché è la protagonista di un libro che vorrei scrivere, prima o poi, di cui non svelo la trama per ovvi motivi di segretezza, mi limito solo a questo particolare.
La ragazza, che sarà la protagonista della storia che ho in mente, ha una curiosa inclinazione personale e che è quella di convincere le persone che suonano a smettere di farlo, gli scrittori che tanto non pubblicheranno mai una riga a dedicarsi di più alle loro famiglie, i pittori a smetterla con le esposizioni nelle piazze di paese e così via. La conosco perché davvero ha capito tutto di come vanno le cose e vuole indurre le persone a non perdere tempo, buttare via soldi, ammorbare relazioni solo per perseguire una illusoria realizzazione di una personalità inutilmente esuberante.
Possiamo considerare questa ragazza, che poi è una donna che va verso i trenta, in missione? Sì, diciamo di sì. La ragazza, che non vi sto a descrivere ma poi, se il mio libro uscirà sempre che lei non mi convinca a smettere di scrivere prima – io l’ho conosciuta proprio così, vuole farmi desistere dalle mie velleità di affabulatore – avrà tutti i suoi spazi dedicati in cui saprete come ha i capelli, la corporatura eccetera eccetera, la ragazza approfitta di una pausa della prova suono e però si deve sbrigare perché tra il pubblico ho visto anche lo scemo del paese, che lo so che non è politically correct definire un ragazzo con problemi psichici lo scemo del paese e che è una consuetudine dei tempi dei miei nonni, ma per brevità concedetemelo.
Insomma, lo scemo è già pronto ad attirare su di sé l’attenzione dei musicisti che finalmente hanno appurato che ci si sente bene sul palco e da lì a poco il concerto può cominciare, e la ragazza approfitta di una pausa della prova suono e chiama a sé proprio il mio ex chitarrista ingegnere e vedo che inizia a parlargli. Ora, non so ancora in che modo e quali argomentazioni usi per raggiungere il suo obiettivo e dissuadere chi ha appena ricominciato a suonare dopo anni di meritato inutilizzo della strumentazione e a rivedere la sua posizione di ex-ex musicista, questo devo ancora deciderlo, ma la osservo e la vedo seriosissima nel suo seguire il filo di un discorso che non fa una piega. Mi rende così felice e speriamo che ci riesca davvero a convincerli, mentre mi allontano dalla scena il mio ex chitarrista sembra proprio cambiare espressione e sembra ascoltarla anche se sorpreso della cosa, vi saprò dire poi come è finita.
fermatemi se pensate di avere sentito eccetera eccetera
StandardInsomma, il pezzo in assoluto più bello degli Smiths e non c’è verso di trovarne una versione live eseguita dagli Smiths in persona su youtube, anche perché mi sa che un tour di “Strangeways here we come” non c’è mai stato, considerando che tra i problemi di Marr e i dissidi interni all’uscita del mio loro album preferito, il gruppo di Morrissey a quel punto era già alla frutta. Su questo chiedo l’aiuto del pubblico a casa, sono troppo pigro per trovare una biografia esaustiva in rete che vada oltre Wikipedia. Chiedo anche l’aiuto di qualche chitarrista perché sono certo che sia un brano particolarmente complicato da suonare, quelle strane alchimie di strumenti che poi a riproporle non ci riesce mai nessuno perché da qualche parte nella versione originale si nasconde un elemento segreto con tutti quei maggiori e minori e rivolti che non si capisce. Un po’ come “Because the night” che sembra facile ma vi sfido a farla tale e quale.
Intanto ascoltatela una volta che non fa mai male, anzi, è una di quelle canzoni che potrei andare avanti all’infinito, e l’andare avanti all’infinito mi ha spinto a scrivere le riflessioni che trovate dopo il video.
Questo dev’essere anche il motivo per cui in rete non si trova nemmeno una cover decente, a parte una versione di Morrissey con la sua band – ma converrete con me che senza Marr e i suoi capotasti non è a stessa cosa:
e poi il geniale arrangiamento di Mark Ronson con l’altrettanto geniale coda di “Keep me hanging on” delle Supremes
divertente quanto volete ma che non appaga la nostra sete di “Stop me” dal vivo. Così, in questa frenesia degna di un rain man, mi sono messo a cercare tentativi stravaganti di dire la propria con questo pezzo, con l’obiettivo di condividere con voi i risultati.
Tralasciamo le numerose testimonianze live di Johnny Marr, che lo esegue regolarmente nella scaletta delle sue esibizioni, tralasciamo le tribute band diffuse in tutto il mondo, tralasciamo le versioni per adolescente depresso che canta chitarra e voce nella sua cameretta con letto disfatto alle spalle e addentriamoci in territori inesplorati, a partire da una versione per ukulele e abbronzatura
per continuare con una versione solo piano come la potrei fare io e anzi, vi dirò, il tipo che la suona qui mi somiglia molto, per postura, età, temperamento e modo di muoversi sulla sedia, con la differenza che è tecnicamente più preciso di me
Davvero superlativa e originale invece questa esecuzione per liuto, camicia da dipinto barocco e voce da eunuco
vi propongo anche questa specie di Arisa in playback
una cantata da una vocalist femminile che scommetto che piacerebbe un sacco a Morrissey, malgrado gli accordi approssimativi di chitarra
la migliore, se non altro per approccio, di questa americanissima “school of rock”, alla cui sfida The Cure contro The Smiths, come si legge sul telone dietro la band, avrei voluto partecipare con piacere. Gustatevi anche il finale armonicamente anarchico
ma sono tutte cose stranote e quindi perché diamine non mi avete fermato. Anzi, scommetto che adesso arriva Fabio De Luca che sicuramente conosce qualche versione alternativa che davvero, nessuno l’ha mai sentita prima. Stop.
il turismo musicale, a partire dall’Isola di Wight
StandardL’unico vantaggio è che un viaggio a Seattle è impegnativo, soprattutto economicamente, e se consideri che ci vai per un avvenimento di cui si celebra il ventennale in questi giorni devi proprio avere dei soldi da buttare via. Voglio dire, una vacanza negli Stati Uniti resta comunque un’esperienza fuori dal comune, ma come fai ad andare da mamma e papà a chiedergli i soldi – e quanti soldi – per vedere l’urna cineraria di Kurt Cobain, ammesso che sia a Seattle, ammesso che sia visibile in qualche luogo pubblico, ammesso che sia stato cremato, ammesso che sia di culto come la tomba di Jim Morrison al Pére-Lachaise.
Vi chiederete perché consideri un vantaggio tutto ciò. Questo tipo di turismo che non saprei come altro definirlo se non rock o giovanilistico è una cosa un po’ così, un retaggio che ci portiamo dietro da decenni. A partire da Londra che è stata meta di diverse generazioni, ma lì il problema è Londra in sé che se non è il centro del mondo ci si avvicina abbastanza. Ci sono andati e ci si sono trasferiti beat, mod, hippy, capelloni, punk, new wave e gotici, neo-psichedelici e technofili fino all’arrivo dei russi che con la musica non hanno nulla da spartire ma hanno fatto piazza pulita con i loro milioni di miliardi.
Poi Amsterdam, città di cui la musica è appunto un di cui ma ditemi voi chi non c’è mai andato per divertirsi un po’, come quel mio amico che ha scelto proprio la città olandese come destinazione del suo primo volo in aereo e per affrontare al meglio il battesimo dell’aria si è calato non so quale acido prima dell’imbarco. In Svizzera ci andavano invece quelli che con le pasticche tiravano fino all’alba del giorno successivo al giorno dopo dell’inizio del rave party, chissà se è ancora così. Berlino aveva il fascino del sentirsi divisi da un muro, crollato il quale è subentrato il fascino del sentirsi divisi dal resto del mondo, tanto è avanti. E così via.
Ma in questo calderone delle peregrinazioni musicali tuttavia non mancavano i rischi, c’erano culture che comunque non amavano l’essere considerate fenomeni da baraccone, e come dargli torto. I meno fortunati da questo punto di vista erano i Rasta di casa nostra, che rispetto ai giamaicani avevano alcune caratteristiche ampiamente dicotomiche. Poi sapete com’è, in certi contesti di indigenza ci mancano solo quelli che spendono per sentirsi vicini alla miseria, che è un controsenso. Aggiungici poi il colore della pelle palesemente diverso, magari come sfondo di capigliature artificiosamente somiglianti a quelle originali, e l’equivoco tra blasfemia e partecipazione sentita ai valori comuni è facile da manifestarsi. Un gruppo di amici che conosco ha rischiato di brutto in qualche periferia di Kingston, è bastato un gesto poco consono a un rito locale compiuto in totale ingenuità a scatenare una sommossa popolare nei loro confronti, e se la sono cavata solo per le condizioni fisiche che gli hanno permesso di scappare più veloci degli inseguitori, che meno male che non erano della stessa tempra di Bolt.
Ma il culto dei disagi altrui che molti fraintendono per liberazione da qualcosa di occidentale che invece i non occidentali pagherebbero per avere, se avessero abbastanza soldi per farlo, non sempre è inteso come solidarietà. Questo anche nella civile Europa, e se volete le prove vi metto in contatto con uno che, nell’underground londinese, si è preso una testata e un fuck off fucking italian o qualcosa del genere da un tizio con la maglietta dei Crass perché all’anarchia, in fondo, noi di queste parti non siamo tanto avvezzi.
rock’n’roll suicide
StandardIl problema è che quando c’era il grunge io dal punto di vista delle passioni musicali avevo ampiamente già dato tutto. Nel 1991, anno di pubblicazione di Nevermind, avevo ventiquattro anni e quelli della mia generazione potevano vantare con i fratelli minori ascolti adolescenziali del calibro dei Clash, tutto il post-punk e la new wave e quella musica che tra il 79 e l’84 ci aveva accompagnato negli anni cruciali della nostra crescita. Con questo non voglio dire che abbiamo snobbato i Nirvana, i Pearl Jam e i Soundgarden, anzi. Solo che era giusto che a livello viscerale appartenessero a quelli nati dieci anni dopo noi e che noi, invece, osservassimo il tutto con occhi, anzi, orecchie più mature e valutassimo questo nuovo suono anarcoide un po’ anche con la testa. Se non siete ultimi nella catena anagrafica – e se lo siete il problema non si pone perché come minimo sarete seguaci del rap italiano e probabilmente di quello che scrivo capirete ben poco – sapete come funziona.
Ma a distanza di un paio di dozzine di mesi da quando pogavo con quella spensierata allegria di chi non tiene un cazzo da fare fuori corso “Smells like a teen spirit” anche lo slavato Kurt aveva avuto accesso alla hall of fame delle rockstar morte suicide al secondo tentativo e a ventisette anni, cosa che mi riesce difficile da pensare in questi giorni in cui siamo ancora colpiti dalla morte del tastierista degli Offlaga Disco Pax, fiaccato a trentasei da una leucemia fulminante. Che non occorra guardare sotto di sé, consolarsi con chi sta peggio o mettere in competizione chi lotta per la vita con chi fa di tutto per togliersela di dosso ce lo insegnano sin dalla scuola materna ed è un registro narrativo retorico quanto discutibile. Poi non era un giudizio su uno che si spara l’argomento di questo post. Solo che la notizia del compimento del suo progetto autodistruttivo mi aveva lasciato poco più che indifferente ma solo perché io e quelli come me eravamo oramai scafatissimi in quanto a maledettismi e autolesionisti cronici.
Malgrado ciò, e anche per non essere tagliati fuori da certi ambienti, molti di noi si sono impegnati con profitto in quella nuova avventura. Ho Nevermind, Bleach e Incesticide addirittura in vinile mentre In Utero già non si trovava più. Ho pure indossato una delle note camicie a scacchi e portato i capelli lunghi sin sulle spalle, quella del grunge era una moda piuttosto confortevole. Ma non ti puoi sforzare con certe cose quando non ti appartengono, prova ne è che quando la lancetta della musica alternativa è tornata a indicare settori più vicini al nostro vissuto, per esempio i Radiohead, un certo Brit-pop psichedelico o anche gruppi post-grunge un po’ meno metal e più sul versante elettronico e industrial, ci siamo dissociati in parte e siamo rientrati nei nostri binari. Qualche giorno fa ho intravisto infine alcune foto degli ambienti in cui il cantante dei Nirvana ha compiuto l’ultimo gesto per darsi la morte. Ne ho viste stanze di eroinomani, e molto più sconvolgenti di quella lì.