heart to heart, synth to synth

Standard

Visti i tempi potevano tranquillamente mettere sotto una bella drum machine e sbrigarsela così. Invece dovremmo tutti riflettere e prendere esempio da questa generosità musicale che non ha eguali. Infatti quello che rende particolare questo pezzo cosi synth pop è la batteria umana, acustica, suonata. Una rarità in quella brodaglia di suoni paccottiglia di certi anni 80 che invece, quando qualcuno li mescolava mettendo le giuste dosi di macchine e di strumenti tradizionali, costituivano mix che ancora oggi fanno scuola. Per questo non dovreste sottovalutare la portata di questo pezzo che a torto viene spesso annoverato tra le compilation più becere e banali insieme a robaccia come Gazebo o Ryan Paris. Face to face è, a proposito di strumenti elettronici, la sintesi perfetta della hit di successo, magari secondo canoni ora superati, ma non ne sono così sicuro. Tema portante che prepara l’ascoltatore a regolarità e simmetria, ritornello da top ten, e successo ne ha avuto un bel po’, cantato un po’ da piacione languido con il ciuffo come usava ai tempi. Non a caso i Twins sono tedeschi e quindi, come tali, esasperano nella loro imitazione anglofona i temi che contraddistinguono l’archetipo. Ma su tutto colpisce l’uso della batteria vera, e se mettete in fila questo pezzo con le altre hit di quel periodo potete accorgervi della differenza, che consiste in una quasi impercettibile mancanza di sincronia tra le parti in sequenza e quelle invece suonate, un effetto che nel pop lo danno pochi pezzi, per esempio Electricity degli OMD, mentre per trovare esempi più autorevoli occorre inoltrarsi in generi meno commerciali, a partire dalla new wave. Per farvi capire, provate dopo ad ascoltare anche uno dei loro singoli successivi registrato con una drum machine e pronto per la discoteca e sentite la differenza. Ma per molti di voi, lo so, questa rimarrà solo per sempre una canzone che avete chissà quante volte selezionato nel juke box di un locale pubblico, una stazione sciistica o in un bar di città, ogni giorno di quell’inverno lì.

non vale la pena ricominciare con questo caldo

Standard

A me e a Claudio, che eravamo tra i pochi che avevano continuato a seguire i Diaframma malgrado l’allontanamento di Miro Sassolini e l’autarchia lirico-strumentale imposta da Federico Fiumani, piaceva immaginare il contesto in cui il chitarrista e compositore del gruppo poteva aver pensato il brano. Restio a considerare autorevoli quei pochi accorgimenti che il buon senso e l’opinione comune suggeriscono di seguire nei casi di temperature elevate, rifugiarsi nei supermercati, rimanere a casa nei momenti più a rischio, bere in continuazione, Federico aveva deciso comunque di raggiungere l’amante in bilico nella località di villeggiatura al mare. Il fascino non conosce compromessi stagionali, per questo non aveva rinunciato a indossare l’outfit all-black secondo le linee guida standard del post-punk. Il viaggio terrificante lungo un’autostrada deserta, l’effetto del vapore da lontano che sale dall’asfalto creando l’effetto di sfocatura, i programmi radiofonici del tutto inappropriati, comprese le notizie del giornale radio a confermare che, come le fabbriche, l’umanità intera in agosto stacca il cervello e va in vacanza. Ma non è solo l’abbigliamento, tutt’altro che da spiaggia, a far pentire Federico del bel gesto di riavvicinamento alla donna: sotto l’ombrellone, l’amante svela una personalità diversa da quella abituale di città, in linea con il resto della popolazione villeggiante, che esposta ai raggi solari, aumenta suo malgrado i valori fisiologici dell’idiozia. Molto meglio rientrare a casa e sdraiarsi sul divano senza nemmeno cambiarsi, e sudati stabilire i pre-requisiti per il prototipo di anti-tormentone estivo.

vette inespugnabili di disprezzo

Standard

La musica techno commerciale, quella che quando frequentavo le discoteche era meglio conosciuta appunto come musica da discoteca, si merita tutta la mia irritazione ed è seconda in quanto a odio solo dopo la musica latino-americana, quella della famiglia di salsa merengue bachata e via dicendo. E con musica techno commerciale intendo quelle cose che un tempo erano “This is the rhythm of the night” o “Rhythm is a dancer”, ma anche adesso c’è una vasta offerta di robe di questo tipo identificabili ancora dal tipico un-tz un-tz in quattro che attira l’attenzione per strada quando passano gli zarri con il volume a palla. Ieri ho presenziato a una lunga competizione sportiva in qualità di accompagnatore di minore in cui ho maturato l’opinione che la diffusione di musica in tali occasioni, con selezioni vergognose proposte tramite impianti inadatti a spazi al chiuso dedicati allo sport e, quindi, tutt’altro che pensati per l’ascolto, dovrebbe essere annoverata tra i crimini verso l’umanità. Ma nessuno sembrava arrivarci.

Fino a quando è stato il momento di una versione techno della colonna sonora dello sceneggiato di Pinocchio di Comencini, un brano in auge nei locali della movida tamarra di ogni dove qualche tempo fa e che per il mio bene avevo rimosso. In quel frangente, sugli spalti di un palasport, un luogo che più di ogni altro esaspera l’appartenenza a una massa accecata dall’istinto ultras latente in ogni italiano, da un gruppo di giovani genitori tatuati in eccesso e evidentemente avvezzi ai passatempi danzerecci, quelli con outfit da Piazza Italia e bicchiere in plastica di birra di qualità scadente in mano come consumazione non compresa nel biglietto d’ingresso e cinicamente venduta – con margini ai limiti della truffa – dagli operatori del divertimento delle ore piccole per l’illusorio oblio a botte di decibel inesistenti in natura, quel gruppo di giovani genitori con l’intento di manifestare il feeling cantando il brano riconosciuto sul ritmo di una canzone priva di una linea vocale come quella, ha comunque trovato uno sbocco emozionale ripetendo a sillabe quella nota aria tragicomica, un po’ come i tifosi della nazionale di calcio, qualche mondiale fa, avevano preso l’usanza tribale di cantare con po-po-popopo-po-po il riff di “Seven Nation Army” dei White Stripes dando vita a quello stranissimo connubio di musica indie e sottocultura calcistica. L’effetto sulla versione disco-trash di Pinocchio è stato analogo, e vi assicuro che nulla è più minaccioso del rimbombo di una folla dai gusti discutibili che vocalizza all’unisono temi strumentali di musica techno.

amici, un aiutino

Standard

Ed è successo che è stato quando ho visto “Yellow Submarine” la prima volta, e se non ricordo male era un pomeriggio di Natale alla fine dei 70 perché era in bianco e nero sulla tv di famiglia, che ho scoperto che “With a little help from my friends” non era un brano originale di Joe Cocker ma una cover dei Beatles. E pensare che sulla band di Lennon e McCartney ero piuttosto ferrato, il libro di inglese delle medie metteva i loro testi in abbondanza, ero persino stato severamente ammonito dalla prof perché mi ero lasciato trasportare in un’interpretazione discutibile di “Only a Northern Song” durante l’intervallo. Comunque avevo seguito a fatica il psichedelicissimo lungometraggio animato della band di Liverpool, forse anche a causa dei miei primi esperimenti con il moscato ad accompagnare il pandoro. La cosa buffa è che invece l’ho proposto a mia figlia quand’era molto piccola, 5 o 6 anni, come una’alternativa alla routine delle classiche visioni Disney e Pixar, ed è entrato prepotentemente nel suo circuito, sapete come fanno i bambini che si sparano lo stesso film o lo stesso libro o la stessa canzone tutti i fottuti giorni per settimane intere. Invece, appunto, ai tempi in cui non solo non c’erano i sistemi per vedere i film alla tv ma c’erano solo due canali e un terzo che non era certo per piccoli, a malapena ero riuscito a seguire le vicende alternate alle canzoni fino a quando sono rimasto sorpreso del fatto che ci fosse una versione un po’ canzonettara del celebre exploit di Joe Cocker a Woodstock. Non dimentichiamo che la fama di Joe Cocker nei ragazzini italiani derivava anche e soprattutto da “She Came In Through The Bathroom Window”, la sigla del programma “Avventura”

anche se poi sul resto della sua carriera è meglio mettere una pietra sopra, soprattutto nel periodo delle colonne sonore e delle nove settimane e rotti. Quindi, anche se la lotta con un gruppo di giganti come i Beatles era impari, Joe Cocker non era proprio l’ultimo degli sconosciuti. Comunque niente, uno va a cercarsi le cover più strane e misteriose del mondo e per caso, dopo un bel po’ di anni, riascolta la versione di “With a little help from my friends” di Joe Cocker e ha la conferma è molto, ma molto più bella di quella dei Beatles. Voi che ne dite?

questa di vitti ‘na crozza è la storia vera che scivolò nel fiume sopra nu cannuni

Standard

La nerditudine è un modo di essere e vale per ogni disciplina. Nasce nell’IT ma ci sono nerd nella corsa, nella cucina, nella fotografia. Ciascuno di noi ha il suo modo di esercitare il grado di maniacalità per qualcosa, la sappiamo lunga noi del team dei nerd musicali (attenzione: non musicisti, che è un altro paio di maniche) che siamo un po’ l’equivalente di quelli che trasformano i film di culto in video a otto bit da mettere su youtube, per esempio. Nel senso che rasentiamo a volte la pura follia. Prendete l’annoso dibattito del modo maggiore vs il modo minore dei brani, annoso sempre per gli addetti ai lavori, so che voi che avete la fortuna di praticare attività mentali e fisiche più sane ben ve ne guardate da questo genere di speculazioni. Ma se il nostro tempo non fosse per la maggior parte occupato proprio da speculazioni, che altrove si definiscono come seghe intellettuali, che nerd saremmo? Pensate quindi a esperimenti puramente di maniera, come quel tipo che ha trasformato “Losing my religion” dei REM in maggiore

che è solo una goccia in un oceano di stronzate pubblicate sull’internet, basta fare una ricerca e ne potete trovare quante ne volete. E altrove avevamo ricordato un’operazione molto più complessa con “Imagine” di John Lennon rivista in minore dagli “A perfect Circle”, ma qui siamo in un altro ambito perché suonarla in minore significa de-costruire l’intento di Lennon mandando all’opposto tutta la portata ottimistica del suo messaggio.

Un buon esempio concreto di questa sorta di schizofrenia sonora è invece “Azzurro” di Paolo Conte, nella più nota versione di Celentano, laddove tema strumentale e strofe in minore su timbri e andamento tipico da marcia bandistica, un genere spesso preso a esempio di spensieratezza come molta della musica da strada, genera un po’ di instabilità nell’ascoltatore, o magari non ci avevate mai pensato e mi auguro che, d’ora in poi, possiate prestare attenzione ad “Azzurro” con un nuovo approccio resistendo almeno fino al ritornello, quando invece la canzone si modula in maggiore e tutti ci sentiamo più sereni perché le cose tornano al loro posto.

Ma tutto questo mi serve per proporvi un esperimento. C’è una canzone popolare siciliana che è “Vitti ‘na crozza” che è in maggiore ma, se leggete il testo, non è certo il massimo della positività, perché parla di teschi sopra cannoni, di morte senza funerale, di anni che se ne vanno, di vermi che mangiano cadaveri e altre amenità. Stamattina volevo provare l’effetto che fa a suonarla e cantarla in minore, e praticamente dall’esperimento è venuta fuori “La canzone di Marinella” di Fabrizio De André. Provate a cantare il testo in siciliano sul famoso brano del cantautore genovese e poi ditemi se non ho ragione. La metrica calza a pennello.



the great raviolo in the sky

Standard

Usare i Pink Floyd a fini descrittivi è una pratica tanto elementare quanto una delle applicazioni dei calcoli che si imparano nella scuola primaria, di quelli da cui poi è difficile ritornare analfabeti da grandi. Ma a me non mi interessa, e “The great gig in the sky” me la tengo sempre a portata di mano, tanto sta bene su tutto. Addirittura proprio ieri mi sono messo al pianoforte per impararne l’intro, avete presente il giro di accordi, e vi assicuro che non è poi così elementare riprodurla soprattutto se siete adulti e non vi esercitate più tanto, come me. Anche se, rispetto a quando suonavo io, ci sono modi e strumenti per imparare le cose più facilmente. Infatti mi sono messo con lo smartphone in cuffia e così ho potuto procedere agevolmente battuta per battuta anche se ero sul mio vecchio pianoforte che si trova ancora a casa dei miei genitori in Liguria e che, con il tempo, ha perso un bel po’ di accordatura. Mi resta per ora il dubbio se il pezzo sia in sol minore, come penso anche considerando un altro loro successo e mio cavallo di battaglia dell’esecuzione casalinga che è “Shine on you crazy diamonds”, o mezzo tono sopra. Il guaio è che l’originale che ho tra le canzoni che porto sempre con me per ogni evenienza emotiva si trova proprio a metà tra le due tonalità, rispetto all’accordatura del mio piano, in un comma difficile da riprodurre con strumenti acustici e impossibile da calcolare nemmeno se si è freschi di operazioni elementari, come mia figlia. Anzi, loro certe operazioni non le hanno nemmeno fatte malgrado stiano concludendo la quinta. Ma in matematica sono rimasti molto indietro. Niente potenze, niente circonferenza, né aree e tanto meno il volume. Poco prima di mettermi al piano per imparare i Pink Floyd in cuffia le ho chiesto di calcolare lo sconto che non ci aveva fatto poco prima la rivendita di pasta fresca in cui avevamo acquistato una scorta da ventisette euro e tre centesimi di ravioli con la borragine, che poi noi mettiamo nel congelatore e che ci consente di gustare poco per volta a Milano un po’ dei sapori che ci siamo lasciati distanti, come il pianoforte scordato a casa di mia madre e mio padre. Che poi uno si aspetta che, su una spesa di ventisette euro e tre centesimi, al momento di battere il prezzo sulla tastiera del POS il commerciante quei tre centesimi te li tolga, anche se in teoria non sarebbe tenuto. E infatti in Liguria state sereni che nessuno vi fa degli sconti, nemmeno di tre centesimi che su ventisette euro è una percentuale da partito di estrema destra alle elezioni. Quindi si parla di ben altre occasioni perse, il pianoforte poi lo si accorda, la mentalità di un popolo invece no, tanto continuerà a vendere ravioli fatti a mano con la borragine anche se cambio abitudini e non metterò più prodotti tipici della mia terra nel congelatore. Già stavo per convincermi a non ascoltare più “The dark side of the moon” a partire dal crescendo di urla che precede “Breathe” perché mi mette a disagio, proprio ora che ho qualche paura in più a causa della malattia di mio papà. Non bisognerebbe infatti avere paura di “The dark side of the moon”, un disco in cui da sempre identifico la metafora della vita e della morte nella parte chiara e nella parte scura, sarà anche per via della voce maschile che si percepisce proprio sotto gli accordi di piano iniziali di “The great gig” in cui si sente qualcuno che dice non avere paura di morire, in fondo perché si dovrebbe. Così decido di impararla proprio mentre ritorno dalla clinica in cui mio papà giace ormai completamente assente per l’Alzheimer, privo di ogni contatto con la realtà, con me, con mia madre, con quella percentuale che lo separa dal concludere un qualsiasi contributo alla conversazione di più di tre parole di senso compiuto che è pari allo sconto dei ravioli e al comma di accordatura del pianoforte che aveva comprato a suo figlio, cioè io, affinché magari un giorno imparasse un brano dei Pink Floyd a fini descrittivi di qualcosa che davvero, non saprei proprio da dove iniziare a descrivere.

le mie reazioni non le controllo più quanto mi manchi

Standard

Nessuno aveva compreso ancora in pieno il valore di Franco Battiato, anzi posso affermare con certezza che nessuno lo ascoltasse proprio, quindi la passione con cui seguivamo le apparizioni televisive di Alice nei passionali playback de “Il vento caldo dell’estate” era pura, genuina e tutt’altro che veicolata dalle ingerenze di un certo superfluo intellettualismo di quel tipo che spinge ad apprezzare certe cose ma solo come vezzo, in quanto facilmente collegabili per una manciata di gradi di separazione a qualcosa di universalmente accettato dalle lobby degli opinion leader della cultura che conta. Nel senso che se quando esce qualcosa che ha a che fare in qualche modo con un esponente artistico di grido, il successo del pupillo è assicurato tanto quanto come quello del suo mentore e apprezzarlo è un must. A noi Alice piaceva invece soprattutto perché era una gran bel pezzo di cantante, si vestiva un po’ da sezione della FGCI con il foulard al collo e a nostra insaputa che fossero liriche di Franco Battiato subivamo il fascino autoritario delle sue parole che sembravano più ordini, in una sorta di attitudine a lasciarsi soggiogare dalle donne di polso. Sentivamo Alice e correvamo subito a controllare se avevamo davvero chiuso le finestre per non lasciare l’aria entrare, ci si guardava dentro la coscienza per contare le promesse fatte ed essere pronti a dichiararle, si trovava il motivo per non dimenticare tutto a un tratto. E tutto ciò ancora prima di vederla più incantevole che mai l’anno dopo sul palco di Sanremo e nei racconti di qualcuno che l’aveva vista in una foto che girava di nascosto, rubata chissà a quale rivista non certo per ragazzini, vestita solo di una specie di rete da pescatore ma seduta in un modo in cui, purtroppo, anche chi raccontava doveva immaginare tutto. Fino a quando, esplosa la supremazia di Franco Battiato di lì a poco con quel disco che abbiamo tutti in casa, si definì quella categoria delle cose afferenti a Franco Battiato, con musiche e testi di Franco Battiato e una vera e propria estetica alla Franco Battiato. Che è stato un bene, per carità. Ma mi sento comunque autorizzato lo stesso a identificare in quel “sentimento nuevo” per Alice un moto sincero e per nulla strumentale. Anzi, considerando le sue qualità vocali, decisamente canoro.

everybody talk about pop muzik

Standard

Nel 1979 non era anomalo che a ragazzini di dodici anni piacessero canzoni come queste. Una summa del suono dell’epoca, un po’ synth pop, un po’ new wave e molto intuito danzereccio anche se a dodici anni non potevo andare certo in discoteca per verificare se usasse mettere dischi così, con questo bpm e questo livello di modernità. Tra parentesi, Pop Muzik degli M era la sigla del programma pomeridiano di Giorgio, un mio compagno di classe più grande di un anno che a suo modo era un figo in quanto, in seconda media, già conduceva una trasmissione in una radio libera, microscopica ma comunque una radio libera, insieme a una speaker un po’ più grande dal nome che non si capiva se fosse reale o inventato che era Magalì. Seguivo il programma di Giorgio e Magalì nel primo pomeriggio perché fare quello che faceva lui era il mio sogno – poter scegliere le canzoni da far ascoltare a terzi – così quello che avrebbe detto o fatto in radio era il mio principale argomento di conversazione con lui. Tutta l’importanza e l’attenzione che gli dedicavo spinse poi Giorgio a rendermi complice di una piccola truffa. Ogni tanto i due conduttori organizzavano qualche quiz, così Giorgio mi mise al corrente della risposta esatta relativa alla domanda che avrebbero posto nella puntata del giorno, qualcosa relativo alla bizzarra copertina del 45 giri degli M. con quel neonato un po’ punk. Una cosa che sapevo anche senza che mi venisse anticipata la risposta giusta, non avevo quel 45 giri – acquistare prodotti musicali effimeri nella mia famiglia era vietato – ma lo vedevo sempre in vetrina nel mio negozio di dischi di fiducia. Comunque quel pomeriggio chiamai in radio e diedi la risposta esatta. Il premio era un costume da bagno, Giorgio e Magalì mi passarono la regia per fornire i miei dati. Quando il pacchetto arrivò a casa, scoprì però che si trattava di un costume da ragazza. Mai una gioia già a quei tempi, potrebbe essere la morale della storia. Ma ero troppo imbranato per chiamare la radio o chiedere a Giorgio di interessarsi per il cambio. Per di più era già autunno e chissà che taglia avrei portato l’estate successiva.

linea 27

Standard

Questa volta invece sono su un tram a causa di uno sciopero dei treni che mi ha fatto deviare di molto il cammino verso l’ufficio. Nulla di paragonabile a quando, sulla linea ferroviaria Genova-Milano, a causa della neve deviavano i convogli su Piacenza, un modo particolarmente naif di fare il pendolare per un tragitto ai confini della realtà. Oggi invece a dispetto delle previsioni è perfino piacevole, il tram tutto sommato costituisce un’alternativa valida al viaggiare sotto terra, e se non allungasse il mio percorso di mezz’ora lo prenderei tutte le mattine, anche solo per il panorama urbano del centro di Milano. Mi viene in mente che proprio ieri un’amica mi raccontava che l’unico modo per sopravvivere alla routine del lavoro è proprio quello di cambiare tragitto ogni mattina, provando mix diversi tra mezzi di superficie, bus e tram, con la metro, una spruzzata di BikeMi e il nuovissimo servizio di auto elettriche. Ogni giorno un’esperienza diversa di viaggio, e se sono qui a raccontarla è perché mi ha convinto, prima o poi la proverò anche io. Poi da dietro mi arriva il suono delle cuffie di qualcuno, sapete che gli auricolari comunque disperdono un po’ nell’ambiente, e al terzo inconfondibile fill di batteria asciutta riconosco “Boys don’t cry” dei The Cure. Vorrei voltarmi e sorridere a chi ha i miei stessi gusti musicali ma poi mi ricordo che ho quasi cinquant’anni e non ci farei certo una bella figura. Mi limito a muovere la testa a tempo, giusto per cameratismo new wave, e torno sul mio libro. All’ultima strofa però la musica si interrompe, la consueta procedura delle priorità degli smartcosi secondo cui una telefonata in arrivo è più importante di tutto il resto e tutto il resto si blocca. Sento così una voce di donna aggiornare qualcuno dall’altra parte della linea sulle condizioni di salute di un marmocchio. Quindi c’è una neo mamma che ascolta i The Cure e che ha una figlia che ha trentotto di febbre, stamattina, che quindi non è andata all’asilo ma è rimasta in compagnia dei nonni. Una mamma che magari la sera le canta “Lullaby” per addormentarla, o “Just like heaven” quando vuole raccontarle una fiaba, o “Plainsong” come sveglia la mattina, con quel crescendo iniziale che ti mette in pace con il mondo. La telefonata si chiude e la musica nell’auricolare riprende, le ultime battute di “Boys don’t cry” e la scommessa è se il brano sarà seguito da “Plastic passion”, come dovrebbe se la donna sta ascoltando la versione americana di “Three Imaginary Boys”, oppure “Jumping Someone Else’s Train”, se invece ha l’album raccolta “Standing on a Beach”. Ma il tram si ferma e la donna si precipita fuori, lei è arrivata e non sono riuscito nemmeno a vedere che faccia che ha.

ciao, maledetto ciao, semplicemente ciao

Standard

Ieri, allo spettacolino di fine anno scolastico che quest’anno coincide anche con la fine della scuola primaria, e su questo tema ho già in serbo una marea di contenuti strappalacrime, dicevo che ieri le quinte tra cui c’è anche mia figlia al termine della loro recita che poi, come ogni anno, è una vera e propria pièce perché le classi seguono un laboratorio di teatro, insomma voglio dirvi che ieri, per salutare i genitori in lacrime, le classi dirette dalla maestra di musica hanno intonato in coro una canzone che con mio sommo sbigottimento ho scoperto essere dei Modà e che si intitola “Come un pittore” – roba da matti – ma dovrebbe intitolarsi con il ritornello con cui è ricordata che dice “Ciao semplicemente ciao”.

E sapete perché non si intitola così? Perché altrimenti il plagio di “Maledetto Ciao” di Gianna Nannini, altra pietra miliare del pop spazzatura nostrano, sarebbe eclatante.

E infatti mentre seguivo le bocche di una sessantina di esseri, a metà tra la dimensione dell’infanzia e quella dell’adolescenza, muoversi a tempo su parole scritte e pensate da un intellettuale del calibro di Checco, così è conosciuto ai più il cantante dei Modà, sollecitavo mia moglie nel cogliere una lunga serie di similitudini tra i due brani oggetto della contesa che però lei non ravvisava. Non è la prima volta, la mia forma mentis da musicista mi condiziona oltremodo perché poi le note sono quelle e con i giri di accordi, nella canzone italiana, non è che si possa sperimentare più di tanto. Per sfidarla, allora le ho chiesto se non sentiva anche una eco di “Ciao” di Vasco Rossi, ma si è accorta subito che il mio era un bluff.

In compenso sono passato per una brutta persona senza sentimenti, che bada a speculazioni e aspetti stilistici quando la sostanza, quella della fine di un’epoca e il passaggio a tutta una nuova serie di preoccupazioni, dovrebbe annullare tutto il resto. E infatti è così, sdrammatizzare serve anche a temporeggiare e non versare lacrime, per il momento, ma questo sarà un altro post.