una vita da gruppo spalla

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Avevo dedotto che avevano suonato prima dei Negrita perché i due fratelli giravano per il centro storico con una maglietta evocativa del gruppo ed era strano, perché ampiamente eretico rispetto ai canoni dell’abbigliamento hip hop che entrambi seguivano piuttosto fedelmente. Ma il dogma poteva essere parzialmente messo in discussione in un caso come quello, in cui lo sfoggio delle vestigia riconducibili a un evento ad ampia visibilità avrebbe riservato anche a loro qualche stralcio di fama di risulta. Li ho sentiti commentare il concerto della serata precedente che probabilmente era stata un’esperienza di quelle da annoverare nel curriculum da allegare al cd demo. I due fratelli, che condividevano il ruolo di front man e cantanti in quel complesso tutto sommato di buona qualità e dal sound innovativo, stavano ripercorrendo i momenti più significativi con alcune ragazze che avevano trovato un canale per compiacerli, quello dell’alimentazione del loro ego, la chiave giusta per anelare a qualcosa di più. Il più giovane dei due non ne aveva certo bisogno, stava già con una che sembrava una modella. L’altro, quello più grande, che andava un po’ a rimorchio, in una di quelle dinamiche anomale che si sviluppano quando un fratello maggiore si accorge che il più piccolo se la cava meglio e cerca di recuperare, parlava prodigo di particolari sulle modalità in cui l’essere risultati simpatici ai Negrita avrebbe potuto essere l’inizio di una fruttuosa collaborazione. L’illusione che hanno tutti i gruppi emergenti quando annusano quel poco di popolarità che spetta alle rockstar alternative di casa nostra, che già le conoscono in quattro gatti. A me per esempio Pau, il cantante, è simpatico ma solo perché ho letto che ha dato un paio di ceffoni a quella sagoma di Andrea Scanzi, per dire. I Negrita probabilmente non hanno mai avuto il successo meritato. Il gruppo dei fratelli nemmeno, dopo un po’ si sono sciolti come tutti, la maglietta dei Negrita era sparita dal loro abbigliamento già qualche giorno dopo, per un gruppo di hip hop mostrarsi condiscendenti con dei rockettari allora, come adesso, è considerato disdicevole.

quindi dei Ramones non ce n’è più nemmeno uno

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Con la morte di Tommy, che se non sbaglio era l’ultimo rimasto in vita, si è estinta la famiglia dei Ramones, il gruppo che con una fratellanza inventata ha rappresentato uno dei migliori approcci alla musica di tutti i tempi riconducibile al capobanda che dice one – two – three – four e poi il pezzo che parte a una velocità completamente diversa. I Ramones sono chiodo, jeans stretti e scarpe di tela, frangette sugli occhi, il disimpegno delle chitarre e del basso portati al ginocchio, magliette indossate anche dai bambini come marchio dello scazzo stilistico. Ma i Ramones sono un vero e proprio approccio alla vita stessa, ci sono le reazioni alla Ramones, gli stati d’animo e il modo di essere periferico a tutto, una cosa che oggi sembra scontata ma alla fine degli anni 70, la fine del secolo come dicevano loro, mica tanto.

il nuovo video degli Interpol

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hit parade di alcune cose che non ci sono più

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Meno male che certe cose non hanno preso piede, pensavo proprio ieri mentre uno di quei non-programmi televisivi che si vedono solo d’estate e quando le emittenti che non trasmettono i mondiali di calcio devono ingannare il tempo aspettando che il pubblico si distribuisca in modo più equo tra tutti i canali tv mi ricordava, lungo una hit parade del 2001, che sono già passati tredici anni da Crying at the discoteque dei sedicenti Alcazar, che era quel tormentone disco-vintage che riproponeva un riconoscibilissimo sample di Spacer di Sheila and the Black Devotion. Chissà perché l’ho collegato a un’usanza che poi tutti abbiamo lasciato passare inosservata, fortunatamente, per manifesta incompatibilità con il genere umano e che era quella di partecipare a rave party o feste danzanti indossando cuffie e ballando così su una musica non amplificata, tanto che chi capitava per caso rimaneva a bocca aperta alla vista di una moltitudine di giovani che si muovevano a ritmo ma senza sentire nulla tranne i fruscii dei vestiti, il tintinnare di bicchieri, qualche verso di compiacimento, le zeppe sul dancefloor e poco più. E anche sono certo nessuno sentirà la mancanza di Second Life, quella sì che era una roba da dementi, altro che Facebook. Quelli che spendevano per arredarsi gli appartamenti della loro vita virtuale parallela andavano presi a schiaffi e qualcuno deve pur averlo fatto sul serio perché Second Life è sparito dalla circolazione. Oppure ascoltando Think Tank dei Blur oggi è incredibile pensare che qualcuno abbia potuto mettere la band di Damon Albarn sullo stesso piano degli Oasis o anche solo inventarsi una competizione e divulgare un fenomeno dicotomico. Alla lunga non c’è proprio paragone. Siete d’accordo? Ho notato infine che di sigarette elettroniche non se ne vedono più tante in giro, da notare il fatto che in posti più civili del nostro non se ne è mai vista nemmeno una. Ho smesso di fumare nel 1994, dicevo proprio la settimana scorsa all’urologo che mi dato la gioia di un altro anno di prostata sana. Stavo percorrendo le vie del centro insieme a migliaia di persone che come me partecipavano a un corteo contro il primissimo governo Berlusconi. Ho spento una Winston appena accesa – fumavo dalla terza media o poco più – e ho gettato il pacchetto morbido ancora a metà nella spazzatura. Essere categorici a volte è una delle sensazioni più arricchenti.

the dub side of the door

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Anche se sui Radiohead, a essere pignoli, non tutti sono d’accordo e il giudizio unanime che li mette tra gli intoccabili non è così scontato. Ci sono quelli che i Radiohead arrivano sino a OK Computer, quelli che li ascoltano solo da Kid A in poi, quelli che invece va bene tutto perché sono i Radiohead, checcazzo. Oggi, prima di pranzo, ho messo su un disco degli Orb che non c’entra niente con i Radiohead, però siccome io sono uno del partito degli anni 90 – oggettivamente è stato il punto più alto della musica rock – ho pensato che comunque c’è stata anche musica piuttosto inutile, come gli Orb che ai tempi mi piacevano pure tanto da indurmi ad acquistare persino i cd originali. Oggi gli Orb li trovo un po’ meh, ma il pensiero è andato subito ai Radiohead con quei primi tre album, e soprattutto OK Computer, che insomma, avete capito, ce ne vuole a farne così. Per questa sacralità di cui i Radiohead sono stati insigniti da ascoltatori di ogni tipo – rockettari, elettronici, psichedelici, depressi, faciloni, intellettuali, modaioli, nerd, nostalgici, romantici, vegetariani, sensibili, insensibili, zotici, anglofoni e molto altro – si tratta anche di una delle band più divisive della storia della cultura giovanile. Perdere amicizie a causa di interpretazioni soggettive dei Radiohead è quasi più facile che lasciarsi al proprio destino a causa dei grillisti. Ho esagerato, eh? Forse sì. Io un amico però l’ho quasi perso così. Perché io sono un facilone e a me piace un po’ di tutto, anche quel disco che si chiama Radiodread e che è praticamente una roba pacchianissima di un ensemble newyorkese che si chiama Easy Star All-Stars e che ha rifatto Ok Computer in versione reggae e dub,

Che già quando avevano pubblicato The dub side of the moon  avevano fatto gridare allo scandalo. A me invece piacciono questi esperimenti perché sono uno un po’ provincialotto, lo sapete, e anzi avevo avuto pure un’idea del genere ovvero rifare The dread on the door, e se sforzate un po’ la fantasia potete immaginare quei pezzi dei The Cure riarrangiati in levare. Ho persino già pronto un remake di Sinking in chiave drum’n’bass, con quel giro di basso che se lo rovesci un po’ calza a pennello con il tempo di batteria raddoppiato. Ah, e non dovete confondere né quelli di prima e né il mio progetto segreto con i Jah Division, vi giuro che esistono pure quelli ma sono durati poco.

tutto ciò è stupefacente

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Alcuni segnali della senilità si avvertono in evoluzioni o involuzioni, a seconda dei punti di vista, di certi criteri con cui si filtrano le cose che succedono o anche solo nelle opinioni che con il tempo mutano. Di conoscenti che con l’età sono diventati grillisti, addirittura filo-israeliani o metodici praticanti di quei passatempi che confinano l’intelligenza umana in un estremo isolamento, che è poi l’anticamera delle peggiori derive mentali della vecchiaia, ne abbiamo tutti. Mai avremmo detto, per esempio, che un giorno ci saremmo trovati nella mezza età a praticare sport come strategia compulsiva di redenzione dei peccati giovanili, come se rovinarsi di chilometri, di bracciate o di pedalate rendesse nulli automaticamente tutti gli eccessi naturali e artificiali con cui abbiamo tentato di distruggerci da giovani e consentisse di recuperare neuroni, cellule cerebrali, anticorpi, fegato e sciogliere tutta la carne in eccesso di cui anni di appetiti chimici hanno favorito la stratificazione. Addirittura ci troviamo a correre felici a perdifiato ascoltando compilation della stessa musica che un tempo utilizzavamo per abbandonarci agli oblii delle sostanze stupefacenti più in voga. Non stupitevi, quindi, se incontrate runner che combattono ipertensione e colesterolo al ritmo dei The Cure, per esempio. O se la voce di Peter Murphy contribuisce a scalare di corsa gradini a due a due con maggior enfasi. E ancora se gli album preferiti, come Jeopardy dei The Sound ascoltati dall’inizio alla fine, corrispondono con precisione alla metà esatta del tragitto da portare a termine quotidianamente, dopodiché si fa dietro-front e si rientra a casa percorrendo la stessa distanza con un disco nuovo, questa volta di Siouxsie and the Banshees. Che trip.

tutti in quella direzione

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Con lei ho sempre parlato chiaro: va bene qualsiasi cosa basta che non mi diventi metallara o grillista. Così ho scelto il male minore e l’ho accompagnata a sentire gli One Direction ma da fuori, davanti all’ingresso di San Siro. I biglietti da settordicimillanta euro per fortuna sono andati esauriti nel giro di pochi minuti il primo giorno in cui sono stati resi disponibili grazie ad altrettanti zelanti genitori di ragazzine di terza media fresche di esame a godersi il premio del meritato diploma. Ci troviamo così tra centinaia di poveracci come noi rimasti fuori. Gente che non avrebbe comunque avuto i soldi per un investimento pop di quel calibro in mezzo a altre centinaia di “dad directions” e “mum directions” in attesa delle figlie entrate per la prima volta da sole in quel tempio della pubertà agli sgoccioli e con svariati gruppetti di “fan directions” escluse non si sa come, a fare la spola tra un varco e quello dopo nella speranza di trovare qualche addetto alla sicurezza caritatevole e propenso a regalare un sogno a qualcuno più meritevole di tutti gli altri. Che ingenuità.

Come da copione molte ragazze scoppiano in lacrime ad ogni inizio di canzone, d’altronde ogni canzone degli 1D è giustamente una hit che ha anche simili poteri. Scene che con tutte le loro sfumature generazionali si sono già viste nella storia con Elvis, poi con i Beatles, poi mi vengono in mente i Duran Duran e qualche altra boy band più recente. E anche la frustrazione di essere privato di un evento di quel tipo, una celebrazione di massa del tuo oggetto di culto, possiamo dire che non ha età, non conosce mode né generazioni. E infatti quando mi rendo conto dell’errore che ho commesso penso di auto-esonerarmi dal ruolo di padre. A me non sarebbe mai venuto in mente di andare a un concerto di Bowie fuori da uno stadio solo per sentire male i pezzi, coperti da decine di migliaia di omologhe dei directioner urlanti. Non mi sarebbe mai balenato nell’anticamera del cervello e so che avrei dovuto fare lo sforzo di dissuadere mia figlia da un’idea così malsana e frustrante come mi è già capitato migliaia di volte di fare per le Barbie nelle versione extra lusso con il cavallo, per il noleggio del pedalò sui canali di Amsterdam con temperature prossime allo zero, per rimandare l’acquisto dello smartphone, per non regalare a una sconosciuta la bambola di pezza dell’equo e solidale a cui sono – io, non mia figlia – così legato.

Ma i ragazzini non si fanno tutte queste sovrastrutture mentali, a loro è sufficiente l’eccezionalità della cosa in sé: essere ai piedi di una costruzione gigantesca come uno stadio di calcio dentro al quale si sta esibendo il loro gruppo pop del momento e di cui percepiscono una riproduzione piuttosto fedele a quella che sono abituati a veder passare su MTV. Il resto sono solo nostre proiezioni. Di lì a poco passa un padre visibilmente nel panico, schiaccia ripetutamente un pallone da calcio mentre chiama a voce alta il nome del figlio, deve averlo perso tra la folla di persone che, mentre la fine del concerto si avvicina, comincia ad accalcarsi nei pressi dello stadio. Un addetto alla sicurezza gli corre incontro e lo avvisa che il bambino è al sicuro nelle mani della polizia. Padre e figlio si ricongiungono con un abbraccio proprio mentre quattro ragazze conciate da supereroe, come citazione di non so quale video, spostano l’attenzione mia e degli altri.

Quindi si consuma il vero dramma: noto un sacco di spettatrici che escono prima che l’ultimo pezzo sia terminato, che per me costituisce un affronto inconcepibile. Come è possibile allontanarsi prima del termine, quando il gruppo suona ancora, senza contare che l’ultimo pezzo, anche se il gruppo si chiama One Direction, è quasi sempre il clou del live, l’acme della serata, la sublimazione, l’atto che consegna quell’esperienza nell’iperuranio dei ricordi di tutta una vita? Che delusione. Che razza di gente è questa che se ne va prima della fine? Che cosa hanno capito della musica e dello spirito di un concerto dal vivo?

una volta qui era tutta musica alternativa

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La maggior parte dei ragazzini oggi si avvicina alla musica perché ha un padre come me che, se non fosse per il pudore di salire su un palco con capelli e barba grigia che nemmeno i New Trolls, si immolerebbe tranquillamente in stage diving o altri riti da pop star. Ci sono poi le famiglie che pensano ancora che la musica sia un hobby da coltivare per i propri figli e così li spingono verso quelle scuole che ci sono oggi in cui, chi si fa due maroni così con il setticlavio e la tecnica tradizionale, può sfogarsi con quegli stili né carne né pesce grazie ai quali ciarlatani del calibro di Allevi poi si fanno i milioni sfruttando la vostra disinformazione. Ma indipendentemente da come uno inizia, non capisco perché tutti poi quando si mettono insieme per fondare un gruppo, suonano rock metal. Chi più verso il post-grunge, chi più verso l’heavy-pop alla Muse, chi più verso il prog metal tipo Dream Theatre, moltissimi un po’ di tutto questo con batteristi infervorati e inutilmente rumorosi, chitarristi che scappano in velocità che è un piacere, cantanti urlatori e tastieristi con costosissime pianole multifunzione tutti testa bassa e magliette da necrofilo a snocciolare cover con pessimi risultati. Proprio ieri sono stato costretto a subire un’esibizione di tre gruppetti a una festa dell’oratorio e vi assicuro che erano tutti così. Ma provate a dare un’occhiata agli annunci di ricerca musicisti e mi darete ragione. Ragazzini che si tingono i capelli di verde e blu per poi suonare i Queen o i Metallica. Sicuramente il rock è il genere più facile da suonare e in grado di dare gratificazione immediata. Poca riflessione, gusto scolastico, scarso senso critico ma tanta tecnica e dinamiche armoniche rassicuranti. La musica dilettantistica è quanto di peggio uno possa trovarsi di fronte, davvero, ed è molto meglio vedere ragazzini, anche scarsi, che praticano del sano sport. Qualunque, eh, anche il calcio.

alla fine c’è stata solo una gran confusione, averlo saputo prima avrei preparato una scaletta decorosa

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Come fare coesistere l’indie rock con le tragedie famigliari e l’ipertensione? Come conciliare una pagella piena di dieci di tua figlia con un lutto imminente e l’attesa di un vinile degli Offlaga ordinato su Amazon e in consegna da Bartolini? Come mescolare i rapporti sui social network con l’editing di un profilo aziendale che devi consegnare entro sera e lo stato d’animo di un’era della propria vita che volge al termine? Vagare all’ipercoop con la propria famiglia mentre il destino di tuo padre si consuma a km di distanza e gli Interpol annunciano il loro album? Come rimuginare sul miglior modo di porre delle domande alla traduttrice di Franzen alla cui conferenza non vedi l’ora di presenziare domani sera mentre tua madre ti avvisa che il respiro rallenta e c’è anche sciopero dei benzinai. Viviamo, e moriamo anche, in un sistema imprevedibile che davvero se non esistesse bisognerebbe inventarlo. Così stasera ho ascoltato tutto Moon Safari degli Air prima che mi avvertissero che era questione di ore, pensate un po’. Un disco così che legherò per sempre con gli ultimi istanti della mia vita da figlio. E la notizia, la più triste, mi ha colto in macchina nei pressi di Novi Ligure, con la radio accesa per non cadere in colpi di sonno che trasmetteva You oughta know di Alanis Morrisette. Fare conciliare certe cose non è che impossibile, è così e non ci si può fare nulla. La morte è una componente della vita, come il dolore e i dolci e le canzonette e le agitazioni sindacali inappropriate. Per questo tutto esiste in un mucchio dove tiriamo fuori cose a caso e non credo uno debba vergognarsene. L’ultima domanda che ho fatto a mio papà è stata chiedergli perché a persone come noi cresce dentro questa passione per la musica. Da dove viene? E perché supera persino la smania di finire un libro, il passare notti insonni per non perdere l’ultima puntata della nostra fiction preferita, scrivere di cose come questa su un blog, trascorrere le serate con amanti ben disposte, fare code per un panzerotto famoso in tutto il mondo? Non gli ho fatto tutte queste metafore perché era già bello confuso, ma il senso l’ha capito perché nel suo filo logico intermittente mi ha parlato proprio di toccate e fughe e sarabande, mentre certe partiture moderne proprio non fanno breccia nel nostro sentire. Non lo so, sono sempre stato troppo cazzone per imparare la musica classica ed è per questo che avrei voluto dirgli che mi dispiace non aver imparato a suonare il piano e l’organo da chiesa come voleva lui. Ma so anche che quando vorrò rivederlo mi basterà guardarmi allo specchio.

la musica che ti tira fuori da dentro

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Mamma si rammarica per non aver dato seguito a una sua idea, ovvero quella di far ascoltare a papà in cuffia la sua musica classica preferita come tentativo di suscitare qualche reazione vitale o anche solo per attivare un contatto con un elemento conosciuto, sia dentro di lui che fuori, rivolto a noi. Un appiglio per aggrapparsi al suo universo sonoro. Ero rimasto perplesso, l’impressione che ho è che l’imposizione di informazioni e stimoli esterni generino maggiore risonanza confusionale in una testa fiaccata dall’Alzheimer all’ultimo stadio. Come riempire un contenitore che già trabocca di contenuto perché dentro è riposto tutt’altro che ottimizzando gli spazi. Non possiamo sapere nulla, certo, ma sono convinto che a quel punto occorra muoversi il più possibile in punta di piedi. Lasciarlo in pace. Anche se, da questa parte, ogni segnale di cedimento è vissuto come una resa, un abbandonarsi all’ignoto, uno step di non ritorno. Ricordo che quando subii un’operazione, tanti anni fa, lasciai detto a chi mi avrebbe assistito al rientro dalla sala operatoria, ancora in anestesia totale, di provare a farmi indossare gli auricolari per testare in prima persona l’effetto dell’ascolto in condizioni di sonno forzato. Avevo preparato una compilation su cassetta con un vero e proprio supporto musicoterapico, cose che ascoltavo assiduamente ai tempi e che intendevo come sfondo sonoro per il relax. La new age e il chill out non erano stati ancora inventati, o meglio, esisteva già un genere identificabile come musica di atmosfera ma non era stato ancora categorizzato perché proveniente da ambiti diversi. Io mi ero orientato su David Sylvian e cose prodotte dalla 4AD, avete presente i vari Cocteau Twins, Wolfgang Press, Xmal Deutschland e This Mortal Coil. Rimasi deluso dall’esperienza, ricordo il lento esaurirsi del sonno artificiale e la mente in difficoltà alle prese con le complessità armoniche che avevo ampiamente sottovalutato, tanto che riuscii a spegnere il walkman con grande sollievo. Forse si è trattato solo di una questione di scelta, magari la musica classica preferita da mio papà – Widor, Bach, Buxtehude, ma anche la musica barocca e persino il jazz di Loussier – poteva generare beneficio. Io credo di no. La musica impegna la mente e costringe a tenere qualcosa di sempre acceso in background per un costante sforzo di comprensione, anche se è latente e non ce ne rendiamo conto.