i 10 migliori dischi che potete regalarmi per Natale

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Pensate a quanto poco sfruttiamo le cose. Se del mio furbofono utilizzo se va bene il 10% delle sue potenzialità, potete immaginare quanto sia superfluo un elaboratore elettronico collegato a una rete di miliardi di milioni di miliardi di milioni di dati. Noi qui nella nostra piccolezza a scrivere battutine per il plauso di qualche decina di persone affette da disturbi dell’attenzione mentre basterebbero due algoritmi ben piantati per convocare tutte le forme di vita universali a convegno sulla terra. Magari non questo fine settimana, eh, che c’ho da fare.

In verità vi dico che il mio impegno è di apprendere almeno una cosa nuova al giorno grazie a questi strumenti. Vi sembro ottimista in eccesso? Bene, ecco le prove. Cliccate qui e potrete scoprire all’istante quanti giorni mancano a Natale. Io l’ho imparato poco fa interpellando l’oracolo di Google, e quello è il mio risultato odierno. Il tutto per stizza perché ho chiesto anche al motore delle meraviglie come aumentare il numero di lettori di questo coso qui su cui scrivo, ma non è che abbia trovato molto se non puntare sull’attendibilità dei contenuti (e qui non ci siamo), sul commentare blog altrui (aiuto), sul rispondere ai commenti dei propri lettori (ehm, poi mi becco pure le frecciatine dai lettori più affezionati come la cara Miss o forse sono io che ho la coda di paglia), e sull’usare titoli espliciti sul contenuto dei post. Ecco, questo giammai. A me piace, lo sapete, scrivere titoli a cazzo, è uno dei plus di plus1gtm, non ci rinuncio certo per qualche bieca operazione di SEO o SEM.

Ma la cosa dei giorni che mancano a Natale è capitata proprio a fagiolo perché volevo appuntarmi da qualche parte una serie di ellepi in vinile, sì intendo proprio i 33 giri, il cui possesso mi farebbe davvero sentire una persona più completa. Quindi se proprio proprio volete farmi un pensierino considerando tutte le volte in cui vi ho fatto sorridere, piangere, preoccuparvi, sognare, andare in brodo di giuggiole o sbadigliare con le mie farneticazioni zeppe di refusi, criptiche e banali, ecco che potete attingere da qui. Tutta roba che non si trova facilmente a meno di non avere poco a cuore i propri risparmi ma che starebbe bene sulla mia libreria a terminare una collezione che, di queste perle, sente la mancanza per diventare finalmente conclusa come un album di figurine dei calciatori. Una lista che è molto più ampia di dieci dischi come dice il titolo di questo post, come al solito poco utile ad attirare traffico. Che poi, in fondo, a che serve fare tanti clic? Comunque potete salvare il link a questa pagina, non mancheranno infatti imperdibili aggiornamenti. Il resto che non vedete scritto qui ce l’ho tutto. Buon Natale e buon ascolto dal vostro affezionato plus1gmt.

1. PFM – Per un amico
2. PFM – Storia di un minuto
3. PFM – Chocolate Kings
4. Interpol – Our love to admire
5. David Bowie – Reality
6. David Bowie – Heathen
7. David Bowie – Young Americans
8. David Bowie – Hours
9. David Bowie – Earthling
10. Blondie – s/t
11. Blondie – Plastic Letters
12. Blondie – Parallel Lines
13. Blondie – Eat to the Beat
14. Blondie – Autoamerican
15. Blondie – The Hunter
16. Durutti Column – The Return of the Durutti Column
17. Polyrock – s/t
18. Polyrock – Changing Hearts
19. Linton Kwesi Johnson – Forces of Victory
20. Linton Kwesi Johnson – Dread beat an blood
21. Linton Kwesi Johnson – Bass Culture
22. Offlaga Disco Pax – Socialismo tascabile
23. CCCP Fedeli alla linea – Socialismo e barbarie
24. Lucio Dalla – Come è profondo il mare
25. Lucio Dalla – Lucio Dalla
26. Lucio Dalla – Dalla
27. The Sound – All Fall Down
28. PFM – Passpartù
29. Genesis – Seconds Out
30. Depeche Mode – Music for the Masses
31. Portishead – Dummy
32. Portishead – s/t
33. Portishead – Third
34. Air – Moon Safari

novantasetta

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Stavo ballando non so che pezzo dei RATM – probabilmente il classicone che ti incita a fuck you, I won’t do what you tell me – quando arrivò Benedetta tutta trafelata – poi la finisco con gli incisi, ma era la stessa Benedetta che noi chiamavamo Bettina per i trascorsi craxiani del padre, trascorso negativi ovviamente in una città che aveva visto i primi vagiti di quel tracollo che poi il PSI imbarcò a furia di martelli e marzotto e che portò alla fine della prima repubblica per metterci poi nelle mani di sua maestà – Benedetta dicevo a dirci che aveva sentito la notizia che Cobain si era piantato un pallettone di fucile da qualche parte in testa e no, non ricorre oggi il ventennale della morte quindi state fermi e non correte su Wikipedia a controllare, è già stato ed era maggio e forse ne abbiamo parlato anche su queste pagine. Solo che quando si suicida uno di cui ti sei fidato anche se in questo caso era come fidarsi del medico che ti somministra la giusta quantità di sonniferi per addormentarsi per sempre, in questi casi vi dicevo si resta come sgomenti, è una specie di 8 settembre della vita con tutti disorientati, un tutti a casa dove non c’è più nessuno a darti gli ordini e non si sa davvero come comportarsi. È il caso di continuare sulla stessa linea? Bisogna eleggere un nuovo comandante o aspettare che dall’alto comunque vengano impartiti degli ordini? E non parlo solo di Dave e Krist, cristo. Cazzo se professi l’autodistruzione e spacco tutto dentro di te, per non parlare di tutti gli ampli che hai fatto fuori in concerto, poi devi mettere in conto il fatto che almeno uno che porta avanti la leadership dell’annullamento del sé deve rimanere vivo, no? Altrimenti la setta di chi non si vuole bene si esaurisce in tre due uno secondi e allora dove sta tutto il merito commerciale? Non venite a dirmi che l’esposizione a MTV non ti rende comunque pop anche se sei grungio inside e outside. Voglio dire, i Clash non sono mai andati a Total Request Live e nemmeno sono passati per Video Sing-a-song, annunciati da quell’efebo di Sandy Marton. E non fatemi ricordare la fine che ha fatto Joe Strummer.

canzoni stonate

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A quel bellimbusto del cantante gli direi che non accetto paternali, arringhe – al massimo aringhe che da quando le ho mangiate a colazione in Olanda è cambiato il mio approccio al risveglio – accuse e sollecitazioni alla rivolta, da nessuno e tanto meno da uno che non ha mai lavorato in vita sua. Ma chi si credono di essere questi lazzaroni che al massimo devono portarsi appresso un microfono e il libello con le loro poesiole scritte a penna mentre il resto della band si spezza la schiena con strumenti pesantissimi e amplificatori? Poi si mettono lì in posa a pontificare su questo e su quello e sotto i più fanatici che sbavano a raccogliere le emanazioni corporee. Che schifo. E che ingiustizia, soprattutto. Anche solo a sentirli predicare in italiano nelle loro composizioni ascoltate alla radio, sullo stereo o in cuffia, con quelle consonanti pronunciate fintamente come se fossero inglesi madrelingua che in confronto la dizione di Don Lurio o di Shel Shapiro è al livello di Vittorio Gassman. Per non parlare delle storie che cercano di comporre nei testi. Io proprio non le riesco a seguire. C’è davvero un capo e una coda? Un flusso narrativo? O sono parole messe solo per bellezza? In Italia le parole delle canzoni si chiamano anche liriche, una sorta di “falso amico” tradotto a cazzo dall’inglese, che nella nostra lingua capita a fagiolo perché gli autori delle canzoni possono far intendere che hanno scritto una cosa che sta a metà tra una poesia e un componimento di prosa, ognuno può intenderlo come vuole e loro possono al contempo esimersi da qualunque responsabilità. Ah ma mica sono un poeta, io. Ah ma mica sono un narratore. Sono solo canzonette, si diceva una volta. Quindi non chiedetemi un’esegesi delle corbellerie che mettete nelle vostre canzoni italiane perché proprio non ci arrivo, se poi non siete espliciti come Guccini o gente di quel calibro lì potete anche trovare qualcun altro. Io poi mi perdo a separare linee di basso, suoni di synth, zappate sulla chitarra e scomposizioni ritmiche per cui le parole proprio ciao. Non è il mio mestiere. Ecco perché ascolto musica cantata in inglese: la voce è solo un suono in più, non capisco una mazza, mi godo la beata ignoranza delle vibrazioni che percepisco, e al massimo ai concerti accompagno i miei brani preferiti con dei versi sperando di non avere intorno qualcuno che prende le cose sul serio.

la teoria degli ascolti

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Questo per dire che non è vero che siamo sempre stati così. Uno dei principali esponenti della scena avant-electro-goth italiana da vent’anni a questa parte, che conosco anche perché abbiamo fatto la scuola di pianoforte insieme, lui da ragazzino ci raccontava che quando tornava a casa usava una formula per darsi la carica che era quella di mettere a tutto volume sullo stereo il 45 giri di “Whatever you want” degli Status Quo, che non è propriamente musica alternativa. A Federico – si chiama così anche se usa uno pseudonimo ricavato dal cognome come nome d’arte – piaceva quell’arpeggio di chitarra introduttivo che non lasciava presagire poi quel riff rock-blues e poi la canzone, che ne ha avuto di successo. Nell’insieme un pezzo che spacca, o meglio spaccava, oggi un po’ superato da costrutti sonori più efficaci per l’obiettivo sottinteso a un brano di quel tipo. Ma tornando a noi, io stesso, prima di cadere vittima dei generi musicali che poi non mi sono scrollato più di dosso, ho avuto una insospettabile passione per il rock’n’roll anni 50 ancora prima della dipendenza da Happy Days di cui siamo stati vittime più o meno tutti noi di questa generazione e dalla visione di Grease, e del Boogie Woogie sull’onda della sigla di Odeon, ve lo ricordate, vero? Keith Emerson che suona al piano una versione indimenticabile di Honky Tonky Train Blues di cui conservo ancora lo spartito ma, manco a dirlo, non sono ma riuscito ad impararla, e considerata la complessità non credo di aver bisogno del vostro biasimo. Comunque andavo matto per i Kim and the Cadillacs, quella paccottiglia in salsa rock’n’roll che andava di moda a metà degli anni 70 grazie alla formula del medley di brani famosi. Chiedevo anche i loro dischi come regalo per il compleanno, pensate un po’. Una volta i primi gusti musicali nascevano così, un po’ per l’ingerenza famigliare e un po’ per caso. Poi subentrano i pari, e lì occorre essere bravi a mediare il tutto con la propria personalità. Come di dice da queste parti, it’s probably better we just keep on rockin’ in the free world.

maniera compita e amabile di trattare e di comportarsi

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Aveva trovato il riferimento sul suo paese di provenienza in una rivista che in confronto Ragazza In era il bollettino della comunità accademica di ricerca del CERN, l’occasione era troppo ghiotta per non lasciarsela scappare. Munitosi di carta e Tratto Pen, giacché la posta elettronica era ancora solo un escamotage per ridurre le barriere spazio-temporali degli scrittori e registi di fantascienza, aveva composto una facciata di protocollo a righe comprensiva di presentazione, elogi, domande e richieste di curiosità al limite dello stalking, anche se le persecuzioni personali in via epistolare non costituivano ancora un reato vero e proprio, considerando la lentezza delle Poste che, in quegli anni, si confermava ben più che proverbiale.

Pur non conoscendo la via dove potesse abitare, aveva considerato che l’Artista doveva essere una celebrità in un borgo di provincia, un po’ come oggi si scrivono le cartoline delle vacanze a Vasco Rossi, 41059 Zocca (MO), e che comunque di riffa o di raffa arrivano a destinazione. Ma non aveva considerato che magari l’Artista potesse non abitare più a 22070 Fenegrò (CO), tutte le star poi lasciano il luogo natio e si spostano nelle metropoli a fianco di studi di registrazione, locali, pub, pusher e propri simili. Ad oggi, mi assicura, non ha ancora ricevuto risposta dall’Artista, ma il fatto che la lettera, su cui aveva posto correttamente il nominativo e l’indirizzo del mittente, non gli sia mai stata rispedita a casa, lo rende fiducioso che le sue righe siano giunte a destinazione e, semplicemente, l’Artista non abbia mai trovato il tempo di rispondergli in modo esaustivo a domande del calibro di “Cosa ne pensi della scena post-punk nazionale?”.

Tra l’altro, anni dopo l’invio, aveva persino avuto la fortuna di vedere un suo concerto anche se, ormai, la fama dell’Artista era sfiorita e lui stesso aveva definito meglio i suoi gusti, delineandoli più intorno all’ambito new-wave anglofono. L’ispirazione dell’Artista era nel frattempo ridotta quasi a zero, a giudicare dall’ultimo disco.

Memore però del contributo che l’Artista aveva dato allo svecchiamento di una certa estetica che lui comunque aveva ritenuto fondamentale anche per la sua personale formazione, musicale e non, si era presentato al concerto con un anticipo vergognoso, mentre ancora gli operai del comune stavano montando il palco. Qualcuno gli aveva detto però che l’Artista era appena sopraggiunto e si era offerto addirittura di accompagnarlo nel camerino, come se un fan esaltato di un cantante ormai démodé potesse comunque contribuire al miglioramento del suo umore, almeno in vista del previsto flop della sua esibizione.

L’Artista sembrava però in gran forma, accompagnato da una donna bellissima che poi, la sera, aveva condiviso con lui il palco in qualità di corista davanti a una manciata irrispettosa di spettatori. In quella visita benaugurante, orgoglioso del fatto che ci fosse ancora qualcuno che ascoltava le sue canzoni, aveva accennato una sua strofa al fan, a commento delle incerte condizioni meteorologiche, prima di firmargli una dedica su una cartolina pubblicitaria con la sua foto risalente ai tempi d’oro, marchiata addirittura Sorrisi e Canzoni TV. In quel frangente si era presentato con il suo nome e cognome ma l’Artista non aveva mostrato alcun cenno di sorpresa.

Così, ancora oggi, lui sogna di nascosto come sarebbero potute andare le cose. Lui che pronuncia il suo nome e cognome e l’Artista che, mostrandosi meravigliato, estrae una vecchia missiva dal quaderno con i testi, quello che alcuni cantanti sistemano sul leggio come pro-memoria per le esibizioni live. Tira fuori una busta ingiallita, gli dice “sei tu”, aggiunge che finalmente può rispondergli di persona, lo invita a sedere – magari davanti a un bicchiere di qualcosa – e gli confida il suo parere sulla scena post-punk nazionale.

i migliori 10 pezzi reggae della (mia) storia

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Non toccatemi il reggae, è il genere musicale che più si sentiva in giro quando ero ragazzino-ino-ino, ai tempi delle medie per dire, e posso dire che ci sono cresciuto dentro. Mi facevo le cassettine con il dorso colorato in verde, giallo e rosso e i titoli degli album registrati scritti con il pennarello nero. Ecco quindi i dieci pezzi in levare – Bob Marley a parte, che è fuori gara – che mi piacciono di più.

LKJFite dem back

Forces of victory credo sia il miglior album di reggae nero inglese, d’altronde Linton Kwesi Johnson, il poeta del reggae, ha pubblicato un serie di dischi che sarebbero da citare tutti, a partire dal successivo Bass Culture che, tra l’altro, ha una delle copertine più belle della storia della musica. Era il 1979 e c’era gente che si faceva di brutto, nelle Renault 4 i sedili si impregnavano di odore di erba senza possibilità di ritorno e insomma, ascoltare sta roba ti metteva in cattiva luce un po’ con tutti, grandi e piccini.


Toots and the Maytals54 46 Thats my number

Questo è invece un inno, lo suonano e lo cantano cani e porci, e anche la produzione di Toots Hibbert sarebbe da citare in toto. Mi limito a questo e a ricordare Pressure Drop, che chissà quante volte l’avete sentita prima, durante e dopo i concerti di gruppi punk.


Burning SpearSlavery Days

Anche con Burning Spear si va nel profondo delle radici giamaicane. Io gli sono affezionato perché in quegli anni venne in concerto nella mia piccola città di provincia ma, come dice Max Collini per un’altra storia, “noi al concerto non potremo mai andare. A 13 anni da queste parti ancora non si usa e poi costa molti più soldi di quanti potremmo mai averne”. Il riff di fiati è indimenticabile e ti resta appiccicato per tutto il giorno, o anche per tutta la vita.


Max RomeoChase the devil

Si, lo so che lo sapete che i Prodigy l’hanno campionata da qui, e chissà quante volte l’avete dovuto spiegare a chi invece era convinto del contrario. Si tratta di uno dei ritornelli più celebri del reggae, ne hanno fatto persino una cover i Subsonica e l’ho sentita suonare in concerto anche dagli Almamegretta. Di Romeo è molto bella anche One step forward, presente nello stesso album War ina Babylon pubblicato nel 76.


Eek-a-Mouse Wa-Do-Dem

Questa mi piace perché è un pezzo semplice, c’è quel temino con l’organetto e amo l’andamento cantilenante della voce, che poi è proprio uno stile a sé che si chiama singjay. Se mi sbaglio corigetemi.


Dr AlimantadoPoison Flour

Un altro classico del reggae che ha una storia di rifacimenti e di campionamenti a elevata complessità. All’origine c’era Man Next Door dei Paragons che poi è stata usata come base da Dr Alimantado per questa Poison Flour per poi essere campionata successivamente in quel capolavoro che è Man Next Door dei Massive Attack, i quali converrete con me che, scevri di tutte le mandate di elettronica che mettono sui pezzi, potrebbero essere tranquillamente un gruppo roots reggae. Nello stesso pezzo dei Massive Attack c’è pure il campionamento di 10.15 Saturday Night dei Cure, con quel drip drip drip drip drip drip drip drip drip drip drip drip drip drip drip drip che mai avremmo pensato di sentire mixato a un brano in levare. Ho sudato per mettere insieme queste informazioni, spero che la ricostruzione vi sia utile. Magari qui è anche spiegato meglio.


Dawn PennNo, No, No

Immancabile in qualunque tracklist, vorrei che comunque prima di alzare la mano per precipitarvi a dire quale versione o cover avete a casa ascoltaste il super-blues da cui il successone di Dawn Penn deriva. Poi ne parliamo.


Junior MurvinPolice & Thieves

Troppi di voi sottovalutano i legami tra punk (ma anche post-punk) e reggae, come se in UK alla fine degli anni 70 non fosse successo niente. Le dicotomie tra musica bianca e musica nera sono state tutte inventate nel resto d’Europa e negli anni successivi, dimenticando che prima delle esibizioni dei gruppi punk il reggae era la migliore sostanza di riscaldamento. Dico questo perché Police & Thieves è diventata poi una traccia dell’album di esordio dei Clash.


The GladiatorsStick A Bush

Ho quasi finito, eh. Un gruppo che si ascoltava molto era anche questo, giamaicani fino all’osso e molto roots. Mi piaceva questo brano per l’originalità del ritmo e quel synth sotto piuttosto anomalo per un contesto reggae.


UB40Tyler

Se Forces of victory di LKJ è il miglior album di reggae nero inglese, Signing off è il miglior album di reggae bianco inglese. Prima di diventare un gruppo da Top of the pops, gli UB40 erano band molto sperimentale e originale nel saper interpretare le diverse anime dei giamaicani a Londra e quelle della musica inglese di fine decennio (i 70). Tutto quell’album uscito nel 1980 è spettacolare, come il successivo Present Arms e il disco In Dub che raccoglie le versioni strumentali dei loro primi brani. Ho scelto questo perché apre il lato A del disco d’esordio ed è da intendersi a puro scopo esemplificativo.

l’orticaria e le bollicine

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Più di restare chiuso in uno spazio angusto completamente privo di ombra e i tetti in lamiera, più di sfoggiare un outfit completamente inadatto alle temperature elevate della bella stagione, più che bere una tazza di latte bollente appena sveglio quando fuori ci sono quaranta gradi, più che mangiare pietanze tipicamente invernali – una bella cassoeula – sotto il sole, non c’è niente che mi faccia sudare di più di una canzone tratta da Bollicine di Vasco Rossi ascoltata in estate. I motivi di questa idiosincrasia vanno ricondotti a diversi fattori, a partire da sottigliezze quali le abbondanti mandate di riverberi sul rullante e la preponderante plasticosità dei suoni di batteria. Gli effetti sulle chitarre poi, una pratica tutta italiana che ti fa riconoscere un brano registrato al di qua delle Alpi sin dai primi solchi del disco. Il sax che emerge qua e là con quel timbro languido, un sacrilegio rispetto alla ruvidezza per quale è stato inventato e che pone le sonorità del sesto album di Vasco Rossi agli antipodi geografici e sonori della musica americana. Le tastiere pacchiane, proprie di un modo di intendere i synth nella massima subalternità del rock canzonettaro di Vasco. Ecco, già solo parlare di questi pochi elementi a introdurre Bollicine mi fa patire l’afa come un anziano con il completo di lana a ferragosto. La tracklist, poi, è tutta un susseguirsi di vampate di angoscia, dal retrogusto di adolescenza gettata alle ortiche, di tempo sprecato ad adattarsi alla moda altrui per pura codardia da emarginazionale sociale. Ve la ricordate o devo passarla in rassegna brano per brano? Cocacosa cocacola ha una freschezza illusioria quanto un bicchiere di una bevanda sgasata e lasciata fuori dal frigo, con gli adolescenti che la cantano ostentando arbitrariamente il doppio senso con la polverina bianca più usata dagli italiani. Poi la canzone d’amore, la serenata con dedica che induce a soffocamento emotivo con la sua esplicita dichiarazione d’intenti a forma di ballata, con la chitarra di Dodi Battaglia dei Pooh, degno esecutore della peggio melodicità nazional-popolare. La sfida alla divinità di Portatemi Dio, le Deviazioni che accontentano le frange oltre le regole della sua fanbase, il carpe diem di Giocala con la sua filosofia da bar tavola fredda sulla strada provinciale e l’inno al nichilismo sentimentale di Mi piaci perché, la summa della concezione rossiana dell’essere donna oggi. Fino a quell’idea di James Dean de noantri a cui a noi che Bollicine fa venire le bolle sulla pelle non abbiamo mai creduto, presentata lungo esibizioni playback di programmi musicali pomeridiani e fortemente penalizzate da chissà quali agenti chimici, colonna sonora di anni di disimpegno esistenziale, politico, sociale, volto a scardinare definitivamente tutto il potenziale delle generazioni a venire. E lui in quella foto da copertina, con quegli occhiali assurdi che non sai se ti guarda o no e con le mani fuori campo, probabilmente intente a contare i soldi dei numerosissimi acquirenti di provincia che nell’estate dell’83 erano comunque lontani dal compimento della maggiore età e dal diventare boriosi adulti pieni di rimpianti.

solchi profondi

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Il nostro universo sonoro, a fianco delle hit personali, quelle che ci portiamo appresso per tutta la vita, è anche pregno delle code delle canzoni che le precedono. Questo se siete cresciuti a 33 giri come me. Chi non ha mai acquistato 45 giri perché non ha mai creduto nel possesso della canzone in sé, ha sviluppato un approccio che poi si è rimodellato con la diffusione del download o nel procedimento di acquisizione musicale nell’epoca della dematerializzazione. In poche parole, se mi piace un pezzo devo avere tutto l’album, non accetto mezze misure. Poi c’è il momento in cui voglio ascoltare il singolo riempipista (che termine desueto, mi faceva notare una collega di dieci anni tondi tondi più giovane di me che probabilmente non ha mai visto Piccolo Slam o Disco Ring) e oggi basta digitare il nome nel campo con la lente d’ingrandimento, un doppio clic e si è già nel pezzo. Con gli ellepi le cose vanno un po’ diversamente, e uso il tempo presente perché, come potete immaginare, oggi il loro rifiorire mi ha donato una seconda giovinezza musicale. Posizionare la puntina esattamente perpendicolare la solco largo che indica l’inizio della canzone che vogliamo ascoltare non è così facile, e piuttosto che rischiare di mancare l’incipit è meglio posizionarsi con un po’ di margine. Per questo anni di ascolti mirati ci hanno portato a unioni indissolubili tra brani, il finale di uno che è legato indissolubilmente all’inizio del successivo e magari il pezzo di cui conosciamo più le note conclusive è anche un bel pezzo che però per noi ricopre il ruolo di anticamera del piacere.

Così è la coda di cori marziali di “Darkness before dawn”, traccia 2 di Night time dei Killing Joke, che precede l’epica “Love like blood”. Così il cluster di tastiere che chiude “Closedown”, il pezzo dei The Cure che precede la struggente “Love song” in Disintegration. O l’accordo sghimbescio di chitarra con cui da “Trafitto” i CCCP ci lasciano in attesa della punkosissima “Valium Tavor Serenase” in “Affinità e divergenze”. O il cambio di marcia tra “Resistance” e “Unwritten Law” in “Jeopardy” dei The Sound. Questo ci insegna che i pezzi che ci piacciono di più vanno in coppia anzi in trio, che li precede qualcosa e che anticipano qualcos’altro e non fate i sofisti che lo so che possono essere anche la prima traccia o l’ultima di una facciata. Ma è bello pensare che ci siano armonie, cadenze, echi che ci avvisano della loro imminenza e che li annunciano come si annuncia sul palco la stella dello spettacolo.

camerieri d’europa

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Il piombo come causa della caduta dell’Impero Romano, che è un po’ la madre di tutti i complotti, non è nulla in confronto a ciò che ha fiaccato il popolo italiano in alcuni anni cruciali della sua storia, ovvero il periodo a cavallo tra la fine degli anni 70 e i primi anni 80. Altro che terrorismo, gruppi neofascisti, legami tra stato e mafia, P2 o gladio e stragi di stato, Io che sono uno dei più importanti studiosi dell’argomento, mica cazzi, posso dimostrarvi che una delle cause principali che ci ha ridotto così va tutta identificata nelle hit parade e nelle classifiche dei dischi più venduti di allora. Non ci credete? Volete qualche esempio?

Nel 1978, nel pieno del caos, tra autonomia ed estrema sinistra da una parte e infiltrati neofascisti sparatutto, tra manifestazioni contro la repressione e Brigate Rosse al top in un tripudio di sampietrini e proiettili volanti, ecco che in Italia canti di protesta come Heidi di Elisabetta Viviani, UFO Robot interpretata dagli Actarus e altre pietre miliari come Tarzan lo fa di Nino Manfredi o Furia soldato di Mal fanno scendere Miss you dei Rolling Stones al 54esimo posto. Non ho dubbi che le canzoncine per bambini siano state importanti per la nostra crescita, ma che abbiamo venduto così tanto lo trovo inconcepibile.

Nel 1979 ci fu una sorta di apoteosi, una vera e propria escalation e io me lo ricordo bene. Senza tirare in ballo tutto il post punk che si stava producendo in Inghilterra, nell’anno di successi comunque dignitosissimi del calibro di Pop Muzik degli M, Don’t stop till you get enough di Michael Jackson, il celeberrimo Breakfast in America dei Supertramp o, per rimanere in Italia, un bel pezzo come Milano e Vincenzo di Alberto Fortis, tra i primi sei posti troviamo Tu sei l’unica donna per me di Alan Sorrenti, Soli di Adriano Celentano, Pensami di Julio IglesiasSuper superman di Miguel Bosè.

Il 1980, pur registrando alcune anomalie come Don’t stand so close to me dei Police al 20esimo posto e addirittura una sorprendente Many kisses dei Krisma al 23esimo, un’eccellenza della nostra canzone come La puntura di Pippo Franco viene prima di Could you be loved di Bob Marley, la futuristica Moscov discow dei Telex, Call me di Blondie e persino l’onnipresente Whatever you want degli Status Quo. In vetta c’è si Video killed the radio star dei The Buggles, ma ecco che al quinto posto la presenza di Remi (le sue avventure) dei I Ragazzi di Remi che stacca di sei posizioni Another brick in the wall dei Pink Floyd e di otto My Sharona dei The Knack ha dello straordinario e non ho dubbi che abbia dato il colpo di grazia alla chiusura del decennio.

E il 1981 non è stato da meno. La triplete Sarà perché ti amo dei Ricchi e Poveri, Gioca jouer di Claudio Cecchetto e Maledetta primavera di Loretta Goggi si piazza sopra Tunnel of love dei Dire Straits, mentre altri capolavori come Sharazan di Al Bano & Romina Power, Semplice di Gianni Togni, Malinconia di Riccardo Fogli, Cicale di Heather Parisi, Chi fermerà la musica dei Pooh e l’immancabile sigla Anna dai capelli rossi dei Ragazzi dai capelli rossi risultano più meritori di Every little thing she does is magic dei Police, la bellissima Per Elisa di Alice, un successone commerciale come In the air tonight di Phil Collins o (Just like) Starting over di John Lennon. E ancora Start me up dei Rolling Stones, in posizione numero 55, risulta più bassa in classifica di Ti rockerò ancora di Heather Parisi, Daniela di Christian e Cervo a primavera di Riccardo Cocciante.

Termino il mio futile excursus con il 1982, che con la vittoria dell’Italia ai mondiali ha chiuso un’epoca ma non ha, purtroppo, interrotto la produzione di musica di merda che, vi ricordo, è una componente fondamentale della nostra cultura e sono certo non ce ne libereremo mai. L’anno di Tardelli e di Zoff lo ricordiamo principalmente per Avrai di Claudio Baglioni e Il Ballo del qua qua di Romina Power rispettivamente al quinto e sesto posto, quando Da da da dei Trio è al 22esimo, Wordy rappinghood delle Tom Tom Club è al 34, More than this dei Roxy Music in posizione 77 e uno dei tormentoni dell’estate, Carbonara degli Spliff, 87esima.

Ecco, quest’ultimo pezzo sintetizza con il suo testo quello che abbiamo rappresentato per il resto del mondo in quegli anni, il paese dei limoni, le Brigade Rosse e la Mafia che cacciano sulla strada del sol (che poi chissà che cosa volevano dirci ‘sti tedeschi), la distruzione della lira e i gelati Motta con brio, persino tecco mecco con ragazza ecco la mamma de amore mio, un sentimento grandioso per Italia baciato da sole calda, ma borsellino e vuoto totale percio mangio sempre solo spaghetti carbonara e una Coca Cola. Vedete, prendevamo in giro i tedeschi per i sandali con i calzini e gli accostamenti alimentari, ma noi, con i gusti che abbiamo in fatto di musica, dove pensavamo di andare?

il tempo delle mele era lo stesso dei Joy Division

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