ancora i subsonica, una (p)rece

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Io lo so che avete i vostri gusti ma che, nonostante ciò, non sempre avete voglia di esporvi con questo mi piace e questo invece no perché succede che uno non sempre se la sente di prendere una posizione scomoda su qualcuno o qualcosa. Non mi riferisco alle grandi questioni o a fatti di attualità come lo scempio che uno come Matteo Renzi sta facendo del Partito Democratico, mi limito ad argomenti più alla mia portata. Ed ecco che nel mio piccolo mi trovo in difficoltà ogni volta in cui esce un nuovo album dei Subsonica perché entrano in collisione il mio disprezzo generalizzato per la musica italiana e una parte della colonna sonora della mia vita recente, a cui si aggiunge il fatto che di riffa o di raffa stiamo parlando dell’unico gruppo di successo – nel senso di emerso dal sottosuolo – che comunque ha portato un bel po’ di rinnovamento nella musica pop nazionale, a partire da un uso generoso e intelligente dei sintetizzatori grazie alla presenza del più talentuoso tastierista nostrano vivente (ciao Busta) fino all’aver reso familiari a un pubblico quadrato e abitudinario come il nostro certi tempi dispari (ne parlavo giusto ieri e perdonatemi l’autocit.).

Perdonatemi anche per il fatto che ogni volta in cui i Subsonica pubblicano un nuovo disco e ovunque è un rifiorire di recensioni siete costretti ad assistere a un rincaro della mia mancanza di stima nei confronti dei recensori professionisti o no che si lasciano travolgere dal facile criterio di misurazione del nuovo disco dalla distanza più o meno effettiva da “Microchip emozionale”. Anche se non stiamo certo parlando degli Area o dei CCCP, anche i Subsonica hanno la loro dignità e considerarli come una band costretta ogni volta a rifare sé stessa perché con un disco ha stabilito una sorta di record di stile personale è francamente riduttivo. Questo infatti non vuol dire che quell’album lì non sia il loro meglio riuscito, ma che dischi così capitano una volta nella storia della musica (che poi io, a dirla tutta, preferisco di gran lunga il primo omonimo e anche Amorematico) e che dal 99 ad oggi comunque i Subsonica hanno prodotto sicuramente alcuni pezzi imbarazzanti ma anche qualche brano riuscito e in uno stile molto diverso dal loro specifico. Anzi, nei casi in cui cercano di ritrovare sé stessi con quel ritmo alla “Aurora sogna”, per dire, ed è il caso di “Lazzaro” presente nel nuovo album che è, consentitemi, davvero un pezzo che fa cagare fortissimamente, in quei casi lì i Subsonica danno il peggio del loro potenziale, e tutto per soddisfare una fascia di ascoltatori in piena estasi evocativa che cercano echi di andamenti drum’n’bass ogni volta che il quintetto torinese manifesta la volontà di uscire con un nuovo album.

Io prendo invece le distanze dai recensori dei Subsonica, nonché da chi scrive recensioni musicali tout court a meno che non lo faccia su mezzi di comunicazione auto-compiacenti come questo blog, e sostengo che i migliori Subsonica vanno identificati nei brani più sperimentali rispetto al loro stile personale di cui è disseminata la loro carriera. Quindi se mi volete chiedere un giudizio su “Una nave in una foresta”, il disco dei Subsonica da poco uscito, ecco, io vi rispondo che boh ma che di sicuro contiene probabilmente il pezzo più interessante che abbiano mai composto in tutta la loro vita e che è quello che dà il titolo al nuovo album.

la guerra dei culi, ovvero l’eterna lotta tra il buon gusto e certa estetica a stelle e strisce

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Il pop sembra essere nato per restituire all’ascoltatore senza pretese quella regolarità melodica che la musica classica del 900 ha sottratto al pubblico. La questione è annosa e vecchia tanto quanto la sensibilità artistica: lasciare un essere umano alla mercé di una discografia in cui il massimo dell’orecchiabilità – intesa come la intendiamo noi – è Bruno Maderna, potrebbe davvero sviluppare un gusto e, soprattutto, una mentalità scevra dalla regolarità armonica, timbrica e ritmica a cui anni di tun za tun za e festival della canzone italiana ci hanno abituati? Ne abbiamo già discusso a profusione, a partire dai tempi dispari e il free jazz eccetera eccetera.

Questo per dire che la musica classica dal secolo scorso fino ad oggi sembra essersi allontanata sempre più dal gusto reale, o se preferite è il gusto che è sprofondato nel baratro della faciloneria e della semplificazione, mentre compositori e studiosi classici hanno preso il volo verso la sperimentazione che certe complessità della società, della cultura, della storia stessa hanno quasi imposto alla musica colta. Sì, ci sono stati ingenui tentativi con certi generi popolari, ma la musica – passatemi il termine – accademica, ufficialmente classica contemporanea si è librata in alto come se un’élite volesse mantenere un linguaggio aulico fino a rendersi incomprensibile alla massa più a proprio agio in una una sorta di “sermo vulgaris”.

Questo fino alla nascita del pop: se la gente chiede cose elementari, diamogli i quattro accordi, le chitarre elettriche, i movimenti del bacino, i ciuffi colorati e il sudore sotto il palco. Il pop poi è assurto a disciplina autorevole e arte a tutti gli effetti, e ve lo dice uno che più pop di così non ne potrete trovare in giro. Il pop si è evoluto e trasformato e da almeno trenta o quarant’anni fa il bello e il cattivo tempo nell’estetica, nei consumi e di conseguenza nell’economia di tutto il mondo, indipendentemente dal livello di sviluppo.

Il punto è che oggi alcuni paradigmi pop e vi dico i primi che mi vengono in mente che sono sensualità, trasgressione, compiacimento, esibizionismo, seduzione, questi paradigmi si sono fusi a causa delle alte temperature di certi generi particolarmente roventi e hanno dato vita a una sintesi talmente striminzita da diventare un unico elemento nucleare che condensa tutto ciò che del pop stesso è stato superato ed è divenuto obsoleto a causa della vertiginosa accelerazione a cui i paradigmi di cui sopra – sensualità eccetera eccetera – sono stati soggetti da quel bordello di cose di difficile interpretazione che è il tempo in cui viviamo.

Quella sintesi, quel nucleo che raccoglie in sé tutto lo scibile, oggi si chiama culo. Avete letto bene. Non si capisce per quale motivo secoli di evoluzione ci abbiano circoscritto proprio lì dentro, nel culo, e che solo il regresso verso la disparità di genere che il crollo di certi valori ha ravvivato da qualche lustro a questa parte imponga esclusivamente come riferimento il culo femminile. Che bestie, vero? Siamo nel bel mezzo di un’invasione di culi, culi che il pop ci rende famigliari dietro le sembianze di provocante divertissement, ma se date un’occhiata a quello che ci tocca vedere di questi tempi, e prendo a esempio la battaglia di culi tra i due seguenti video musicali, converrete con me che presto, in questa profusione di culi, moriremo soffocati.



le canzoni romantiche

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Da Dante a Fedez – e perdonate il jet lag a cui vi ho esposto, posso immaginare che lo iato culturale multi-circadiano tra due poli così opposti sia incolmabile – dicevo che da Dante a Fedez il subbuglio ormonale da sfogare in rima deriva per lo più dalla tensione erotica che nella gamma delle sensibilità artistiche – ecco perché i due antipodi della poesia, l’acme e la fogna – si espleta attraverso la rima più o meno musicata. In mezzo ci sono mille anni di melodie d’amore però, versi modulati su accompagnamento strumentale, su cui autori si struggono mentre ascoltatori si dannano e beneficiarie si schermiscono. Le canzoni romantiche fanno sognare da sempre gli adolescenti ed è un processo che si reitera nel tempo con una continuità che non ha confronti. Se incontrate nel 2014 ragazzi che cantano i loro inni alla spensieratezza, a me è capitato qualche giorno fa in treno con tre giovanissime che intonavano un facile ritornello dell’ultimo disco de “Lo stato sociale”, mettete mano alla vostra vita e ripescate quel momento in cui è successo anche voi di condividere pene o successi amorosi con qualche amico di appoggio dotato di chitarra o altro strumento portatile, voce di supporto compresa, e riassaporate il conforto dato dallo sfogo dell’urlare quelle parole in cui vi siete riconosciuti protagonisti nel bene o nel male con una spalla compiacente a cui confidare cose così complesse come l’innamoramento corrisposto o respinto in giovane età. Si ride, si piange, ci si dispera o si cerca un appiglio per riprendere a vivere da un’altra parte con la canzone romantica giusta. Noi italiani siamo bravissimi in questo, se non fosse che spesso ci troviamo borderline con la lagna. Ma che importa ai produttori di testi da musicare, il loro obiettivo è fare soldi proprio con i nostri sentimenti incoraggiati o interrotti o anche solo ostacolati. A noi ragazzi alle prime esperienze ci basta un ritornello da ripetere fino all’esasperazione, come un mantra in grado di abilitare decisioni altrui a nostro favore. Un sì, un va bene, un bacio o una di quelle espressioni che poi a casa si possono adattare alle aspettative tanto sono neutrali. Da Dante in poi, ma solo per una corretta collocazione storica della certa esistenza della nostra lingua e Fedez questa volta lo lasciamo fuori dal gioco, miliardi di milioni di ragazze e ragazzi in coro si sono misurati poi subito dopo con l’enigma del silenzio, a osservare se il messaggio ha sufficiente forza per levarsi in alto e volare a destinazione, ignari del sistema di saturazione audio che c’è dalle nostre bocche in poi, un concentrato delle preghiere laiche o ufficiali di richiesta di salvezza a divinità in carne ed ossa, oggetto dei desideri di un genere umano che non cambierà mai e continuerà a vivere – con un coinvolgimento senza tempo – quella cosa che nessuno si spiega ma che, dicono, fa girare sole, stelle e, talvolta, parti anatomiche che la poesia la limitano un pochetto.

quasi 10 minuti del cambio di Svefn-G-Englar dei Sigur Ros

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Quante volte vi è capitato di rimanere insoddisfatti della singola presenza delle uniche quattro battute di cambio in Svefn-G-Englar dei Sigur Ros, dopo che tutto il pezzo sembra essere teso a un culmine emotivo che quando arriva è un vero e proprio climax e vorreste che quella nuova disposizione armonica continuasse per un po’ e non vi lasciasse più? Lo sapete, vero, che ci sono studi che dimostrano che la musica ripetuta appaga maggiormente l’appetito dell’ascoltatore. Io quando ho ascoltato quella traccia lì di “Ágætis byrjun” vi giuro che mi sono sentito così a bocca asciutta quasi quanto per un’altra cosa che non mi va giù, e cioè “The great gig in the sky” dei Pink Floyd in cui uno si aspetta che i vocalizzi di Clare Torry riprendano nuovamente con la stessa enfasi strumentale sotto anche dopo la parte in cui si placa e invece no. Quindi c’è sempre quell’approccio che bisogna assimilare tutto l’unica volta perché poi i momenti belli non danno una seconda chance. Così, grazie ai potenti mezzi del sound design casareccio, vi concedo l’opportunità di godere del cambio di Svefn-G-Englar dei Sigur Ros per nove minuti e rotti, e se youtube consentisse l’upload di video più lunghi di dieci minuti lo avrei reso in un loop eterno. Perché di certe cose non se ne ha mai abbastanza, alla faccia di quelli che poi alla lunga si stufano. Affari loro.

sexy boy

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Quel tuo amico con l’impermeabile lungo fino alle caviglie non riesco nemmeno a capire cosa dice, ma nel Veneto non ve lo insegnano l’italiano? Faccio apposta a far finta, tanto se si parla di musica è difficile spararne di fuori contesto. C’è sempre la scusa dei gusti che sono gusti, c’è tutta una gamma di punti di vista che possono attingere dalla filosofia fino a quelle inutili riviste di carta e su Internet dove cani e porci annotano le loro pugnette esistenzialiste mascherate da recensioni senza essere remunerati, e ci mancherebbe altro, mentre i più onesti e franchi possono sorprendere l’interlocutore dicendo che quel gruppo lì non l’hanno mai sentito. Ma come, dice il veneto, non conosci i Suicide? Un altro al mio posto avrebbe mentito. Ma cosa vuoi che mi interessi, ho detto poi a Enrica visto che già riteneva discutibile il mio punto di vista su Almodovar che ho liquidato con un che due coglioni. Non potrei sopportare di stare con una che ne sa più di me di musica, ho aggiunto, ma non è stata questa che ha superato il limite. Prima c’era tutto il concerto degli Air e il concentramento di centinaia di quelle ragazze che noi di provincia, quando le vediamo a Milano, ne semplifichiamo l’insieme di appartenenza riconducendole alla moda o ambienti affini. Che poi non è vero, a parte qualche sconfortante caso di cui posso portarvi almeno un paio di esempi di vita vissuta, qualunque ambiente di lavoro un po’ meno tradizionale ne comprende qualche esemplare. Comunque il concerto era tutto un susseguirsi di strumenti elettronici di altri tempi a contraddistinguere questo o quel pezzo, suonati da un pugno di fighetti con il ciuffo biondo o la frangetta e vestiti da Rockets senza il trucco dorato sul corpo e sulla faccia ma con costumi e mantelli che sembravano marziani. Non fraintendetemi, a me è piaciuto molto e la prova è che Moon Safari l’ho consumato a furia di sentirlo e non spenderei tutti quei soldi per un gruppo che non mi piace. Poi l’uso filologico di certi synth e batterie elettroniche, giurerei di aver visto persino una Mattel Synsonics Drums sul palco che quando nell’81 o giù di lì avevo proposto al mio batterista di usarla dal vivo mi aveva preso per il culo perché era considerato un giocattolo. A Enrica dico anche questo, a fine concerto, e per mia fortuna sono un po’ ubriaco così mi accorgo di più di quanto sono presuntuoso. Poi mentre l’amico veneto con l’impermeabile lungo ci riaccompagna verso casa e stiamo discutendo di nomi, ritorno sul concetto che i figli bisogna chiamarli con i nomi dei fratelli Cervi, ed è lì che è chiaro che se mi dici povero tuo figlio che si chiamerà Gelindo non funzionerà mai, undici anni di distanza sono troppissimi ma so che un sacco di over trenta hanno fidanzate che fanno l’università e io mi dico che boh, certo ci sono i pro ma non so se ne valga la pena.

a proposito del ventennale di Dummy dei Portishead

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Qualcuno dica ai Portishead che utilizzare sample di rumori da vinile impolverato e graffiato sotto i pezzi di Dummy non è stata una buona idea considerando che c’è gente che lo ascolta, ancora oggi, con il giradischi.

A

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D’altronde perché la gente dovrebbe leggere i blog se non legge più né i quotidiani tantomeno i libri? Secondo le conversazioni intercettate sui mezzi o in ambienti pubblici o comunque dove le persone hanno occasione di incontrarsi e interagire, oggi la lettura che va per la maggiore è quella degli status altrui di Facebook, delle freddure con cui si commentano eventi e notizie del giorno e dei tweet di questo o quel personaggio famoso. Il dramma è che su questi contenuti si fanno appunto anche i dibattiti e le discussioni, se ne parla insomma, come un tempo si faceva sull’ultimo film visto o l’ultimo libro pubblicato. “Hai mai letto qualcosa di @Flaviaventosole?” sentiamo chiedere. “No, ma ti consiglio l’aggiornamento di status di #GianniMorandi dell’altro ieri, mi ha piacevolmente sorpreso”, sentiamo rispondere. Oppure “Cosa posso regalare a mia moglie per Natale?”, sentiamo domandare. “Prova a vedere se sulla pagina Facebook del Milanese Imbruttito c’è qualcosa di carino”, sentiamo suggerire. Con questo non voglio dire che i flussi di coscienza di emeriti sconosciuti come il sottoscritto possano compararsi in termini di tempo speso bene con l’ultimo romanzo di un DeLillo, per dire, ma avrete capito anche voi che l’analfabetismo di ritorno del genere umano e la crescente diffusione dell’incapacità di comprendere testi di senso compiuto si sposa perfettamente con la tendenza a preferire contenuti sempre più brevi, in cui l’attenzione si può mantenere facilmente dall’inizio alla fine. Verrà il giorno, quindi, in cui semplificheremo sempre di più il nostro codice comunicativo perché avremo sempre meno esigenze di dettagliare il nostro pensiero e, all’altro capo del messaggio, ci sarà sempre meno capacità di comprensione, per non dire intelligenza ma è un termine che non ho usato apposta perché, come sapete, di intelligenza ce ne sono vari tipi e non è detto che in futuro l’accezione che intendiamo sia ancora utile a qualcosa. Accorceremo sempre di più il numero di caratteri nelle conversazioni e nelle letture fino quando per lettere, davvero, anziché intendere la letteratura e gli studi umanistici, si intenderanno solo le lettere dell’alfabeto e ci esprimerà così. B. Z. F. Q. Pensate quindi a come è stato profetico Francesco Salvi, un vero intellettuale di altri tempi, che ha saputo non solo trovare la sintesi ma ridurre tutto ai minimi termini, concentrando un’intera canzone in una sola lettera dell’alfabeto, la prima, fin troppo capiente per contenere un significato così complesso.

give synth a chance

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Il Moog e il suo suono che ha reso celebre l’impiego dei synth monofonici nel rock, che è quello del tema di “Impressioni di settembre” o di “È festa” della PFM, per intenderci, è un fenomeno che ha avuto alti e bassi di fedeltà sonora ed è stato soggetto alle mode del momento come altre usanze legate all’esecuzione musicale. Il basso in slap, la batteria Simmons, il falsetto maschile, la dodici corde. Ma la storia di quel timbro alla Moog, che chiamerò così per semplificazione considerando che, con le dovute distinzioni, può essere riprodotto indipendentemente dalla marca della tastiera, è forse una delle più tristi dell’oscurantismo estetico in campo artistico, pari quanto alla larghezza dei pantaloni sulla caviglia che ai tempi in cui comunque acquistarne un paio secondo la moda era troppo più dispendioso che far intervenire una zia o un mamma o una nonna sarta, e si correva di volta in volta a richiedere l’apporto manuale a seconda di quanto il codice dell’abbigliamento, per non essere a rischio emarginazione sociale, imponeva, implorando di non tagliare stoffa ché non si sa mai.

Così per il timbro alla Moog. Prima tutti lo volevano perché c’era il rock progressivo, poi basta suoni giurassici che riportano ai dinosauri della musica perché nel post punk guai a usarlo, poi no aspetta c’è il revival 70 corri subito a prendere il Moog in cantina, poi dai che Jamiroquai lo usa a manetta, cavolo l’ho appena venduto, che importa ricompralo senza badare a quanto costa ma tra il pubblico c’è sempre qualcuno che non capisce che il trend è quello lì e ti accusa di suonare i Genesis fuori contesto, poi basta acid jazz che ha rotto il cazzo ma non mettere via il synth perché i Prodigy addirittura si chiamano come un modello di synth e ma come fai a girare con uno strumento così delicato che tanto ci sono i virtual synth e allora aspetta che mi compro un Mac portatile così posso fare tutti i suoni che voglio e ora di nuovo basta così, grazie, il puoi riportare il Moog o quello con cui lo suoni in cantina che in questo momento per fare le cose che si sentono in generi zarri come il dubstep ci vuole ben altra potenza. Ecco, se io fossi un Moog con tutti questi tira e molla mi offenderei e farei uno sciopero dei circuiti. Basta, ora fatevi i suoni giurassici da dinosauri del rock con la bocca, per non dire di peggio.

pianisti su marte

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Chi è o è stato studente di quel meraviglioso strumento che è il pianoforte va automaticamente a collocarsi in uno dei due macro-insiemi che raccolgono, da una parte, quelli ce l’hanno fatta a diplomarsi al conservatorio e, dall’altra, tutti gli altri. Ora non dovete pensare che questa classificazione metta i salvati e i sommersi in antitesi, non c’è nessun giudizio verso nessuna delle due categorie e verso i loro rappresentanti. E come potrei? Di qua ci sono persone che hanno sacrificato chissà quanti pomeriggi della loro gioventù chini su ottantotto tasti mentre i loro amici si rovinavano di canne al parchetto. Di là c’è di tutto un po’ ma non solo musicisti che, come me, stremati dall’adolescenza, a un certo punto hanno gettato la spugna. Si trova anche gente che ha semplicemente realizzato che lo studio classico non è la sua tazza di tè e si è dato al jazz, al rock, all’insegnamento dello strumento a chi è alle prime armi, alla musicoterapia, o tutte queste cose insieme, e perfino chi gli è venuta la nausea.

A entrambi i gruppi va comunque il mio attestato di solidarietà e vicinanza per quei primi anni di studio in cui i risultati hanno da venire e il presente è fatto solo di esercizi e scale. Scale ed esercizi. Studi e scale. Hanon. Czerny. Pozzoli. Pura ginnastica per le dita, su è giù per la tastiera, da sinistra verso destra e ritorno. Da destra verso sinistra e via con il successivo. Dalle note basse a quelle alte, dalle ottave acute giù verso quelle gravi. Do mi fa sol la sol fa mi re fa sol la si la sol fa e così via. Mani perfettamente allineate a distanza di dodici tasti, maratone eterne per scogliere le giunture, roba che ti manda le articolazioni a fuoco a furia di usarle. Lunghi mantra sonori preparatori all’esecuzione dei pezzi veri, quelli che si devono preparare per gli esami. E sopra il metronomo imperturbabile che sancisce il tempo, il ritmo, a ogni giro una tacca più veloce. L’oblio della meccanica musicale, una corsa verso la scioltezza, la leggerezza, l’alternarsi della pressione sui tasti, ma anche l’indipendenza, le mani che vanno da sole. Pura aerobica per gli arti superiori e niente più.

E come fondisti olimpionici, i pianisti in erba lasciano lungo il percorso che porta alla battuta conclusiva dell’esercizio, dello studio, della scala, i compagni più deboli, quelli meno determinati, quelli che si fanno domande, che cercano un senso. Il senso che nella pratica dello strumento, purtroppo, non c’è, non si vede, non si percepisce fino alla conclusione della tecnica. Mani e dita sciolte consentono di avere il pianoforte in pugno. Come mi ripeteva il mio maestro, solo dopo l’ultima pagina dell’Hanon, dello Czerny, degli studi di Pozzoli, si riesce a domare lo strumento. Fino ad allora, ogni pianista è in sua balia. Ed è sempre stato così.

tutte le volte degli Interpol dal vivo al Letterman

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Gli Interpol sono stati ospiti al David Letterman Show ben 4 volte, quasi una per ogni disco uscito. Le performance dal vivo della band di Paul Banks non sono mai impeccabili ed è possibile accorgersene da queste esibizioni. Le sbavature spesso sono l’essenza della musica dal vivo, nel caso degli Interpol però certe inesattezze – per non dire certe cappelle – sono eclatanti considerando la purezza che esige il loro stile, che rende al massimo in studio proprio perché privo di quella minima percentuale di rozzezza che può essere sfruttata come valore aggiunto negli imprevisti che capitano durante i concerti. Se conoscete gli Interpol sapete a cosa mi riferisco. Comunque ho voluto raccogliere qui tutte le loro apparizioni al celebre spettacolo della CBS che ogni italiano amante della musica americana invidia, insieme a quell’altra sagoma di Jimmy Fallon.

1. PDA da Turn on the bright lights

2. The Heinrich Maneuver da Our love to admire

3. Barricades da Interpol

4. All the rage back hone da El Pintor

Ma visto che non vogliamo fare torto all’unico LP mancante, ecco Slow hands da Antics eseguita in un altro live show della NBC: