Quando le musicassette di Pino Daniele imperversavano negli abitacoli delle auto di chiunque ed era il suo periodo d’oro, diciamo da “Terra mia” a “Bella ‘mbriana”, io davvero ascoltavo tutt’altro – soprattutto roba inglese e americana – e le sue canzoni mi facevano due maroni così a partire dal genere nero a metà, appunto, fino all’uso del dialetto. Il timbro della voce, l’abitudine di doppiare i soli di chitarra con il canto, il suo entourage di musicisti bravissimi, eh, ma di quello stampo lì proprio erano fattori agli antipodi del mio gusto. Poi secondo me lo hanno mollato un po’ tutti, ai tempi ascoltarlo aveva anche un valore di appartenenza socio-culturale, non dimentichiamoci che Pino Daniele ha pure aperto il concerto di Bob Marley a Milano, e così quando ha imboccato la deriva del pop i tempi erano già cambiati e chi si identificava nella matrice roots del suo suono aveva già gli scaffali pieni di CD di ben altra roba. Solo il mix tra la tendenza a mettere nel calderone tutto ciò che appartiene a un’epoca a cui si è particolarmente affezionati e la caduta dei freni inibitori dovuti all’anzianità incipiente me lo ha reso un po’ meno inviso. Addirittura quando sento i reduci dei tempi dell’eroina ricordare i numerosi concerti di Pino Daniele a cui hanno partecipato provo un filo d’invidia per non aver mai aderito a quegli happening di giovanissimi infervorati, giusto per provare a immaginare che aria (e che fumo) si respirava in ambienti di quel tipo rispetto ai concerti dei primi gruppi di post-punk. Un altro baluardo della musica partenopea, mi riferisco a Bennato, aveva persino tradito la causa coinvolgendo i Gaznevada nella registrazione di uno dei suoi album più controversi come “Uffa Uffa” a dimostrazione che qualcosa sembrava davvero cambiare ma in molti, seguendo le indicazioni delle major, facevano finta di non accorgersi di nulla. Pino Daniele invece era saldamente ancorato sull’altra sponda. E se la RAI non avesse rimosso tutti i suoi video da youtube vi farei rivedere quella volta in cui i 99posse se lo sono portato sul palco del Concerto del Primo Maggio, a pasticciare con la sua chitarra il riff di Anguilla, avete presente quella parte campionata che a farla con strumenti veri perde tutto il suo impatto digitale, testimonierei il mio ricordo personale al grande artista scomparso. C’è solo questa versione che trovate qui sotto, con un audio che lascia molto a desiderare.
alti e bassi di fedeltà sonora
tutti soffrono, a volte
StandardCon la scusa che certa musica è “bella” secondo la maggior parte della gente talvolta se ne fa un uso inadeguato. La scelta di un ascolto da irradiare lungo le coordinate ben precise dello spazio e del momento non dovrebbe tenere conto solo della qualità o della popolarità di un brano, e su questo non devo essere certo io a dirvelo considerando che ci arrivate benissimo da soli. Subentrano fattori quali il mood del brano in rapporto all’ambiente – mettereste mai un “bel” pezzo dei Nirvana in un centro benessere? – o il genere stesso, addirittura particolari tecnici, velocità e così via, d’altronde saper selezionare musica è una vera arte e può diventare anche un mestiere redditizio. Ma per la gente normale come me e voi la scelta del background è quasi sempre un aspetto secondario sul quale non è quasi mai il caso di perderci troppo tempo, ci fidiamo del nostro gusto, della nostra esperienza e talvolta di quello che si dice in giro, il che denota la superficialità involontaria con cui lo facciamo. Uscireste mai di casa con un abbinamento di colori agghiacciante? No, vero? Solo perché avete un capo firmato “bello” non è detto che debba essere indossato a cazzo, non sempre è il caso di metterlo. Così è la musica. E se volete un mio umile consiglio, tra i criteri da utilizzare per la selezione in pubblico e la musica da diffondere dove si radunano tante persone e la musica non deve essere il fattore comune che lega la gente che si trova nel posto in cui voi fate sentire la vostra playlist – quindi non siete dj perché questo è tutto un altro paio di maniche – dicevo il criterio da considerare in primis è il timbro della voce. Quante volte vi sarà capitato di perdere le staffe al supermercato a causa dei vocalizzi di sottofondo delle cantanti r&b che vanno tanto di moda al giorno d’oggi mentre vi barcamenate tra un due per tre e vostro figlio piccolo che vuole questo o quest’altro e sale e scende dal carrello e fa un caldo porco perché c’è il riscaldamento a manetta e voi avete su il piumino? Quando i sensi sono già chiamati alla prova da numerosi stimoli in eccesso, gravare sulla resistenza delle persone anche con sollecitazioni estreme dell’udito non è certo una buona cosa. Io per esempio bandirei l’esecuzione dei brani cantati da Michael Stipe dai luoghi costipati da calca in eccesso. I pezzi dei REM sono oggettivamente “belli” e ciò ne giustifica la messa in onda a sproposito, ma al contrario il fatto che piacciano a cani e porci non ne dovrebbe essere il motivo di selezione. Se un brano come “Stand” infatti induce l’ascoltatore all’imitazione del celebre balletto che si vede nel video, e quindi in questo caso è il ritmo che mette in secondo piano il registro vocale, di una canzone struggente come “Everybody hurts” che è solo voce e basta ed è esclusivamente un dialogo intimo tra i REM e il singolo ascoltatore non ne dovrebbe essere mai fatto un uso di massa. Il timbro di Stipe mentre centinaia di persone di tutti i tipi si affollano tra scaffali ricolmi di prodotti sopravvissuti al Natale, consapevoli che le feste volgono al termine, stride come poche cose al mondo. La gente si guarda e non capisce la ragione di quell’improvviso disagio e, vi assicuro, è molto difficile riuscire a spiegarlo ad uno ad uno.
l’eredità
StandardTra genitori e figli il passaggio dei beni in caso di decesso è un fattore delicato, non tanto per il processo in sé che è regolamentato dal diritto e infatti non mi riferivo ai cosiddetti patrimoni, quanto ai piccoli o grandi oggetti del quotidiano che viene da tenere con sé come ricordo di un padre o una madre. Le cose che stavano tanto a cuore a loro e che ci portiamo nelle nostre case con la speranza che da sole, pur nella loro immobilità, possano costituire un efficace surrogato di una persona che non c’è più. Ho parlato di speranza, ma temo si tratti più di un’illusione. Mio papà, per esempio, era un cultore di musica organistica, per lo più sacra. Ha una collezione di dischi e cd raccolti nel corso di una vita che non vi sto a descrivere. Una decina di scaffali che traboccano di musica. Ma, come molti e come me, aveva le sue preferenze e verso la fine della sua vita ascoltava pochissime cose selezionate, soprattutto la Toccata dalla Quinta Sinfonia per organo op. 42 #1 di Charles-Marie Widor. Non c’era volta in cui, nel corso delle mie visite, non mi chiedesse di ascoltare una delle numerose esecuzioni di quel brano in suo possesso e anche quando l’Alzheimer si era già portato via una parte considerevole della sua testa e del suo corpo, comunque reagiva con interesse all’incisivo attacco di quel celebre pezzo. Ho chiesto così a mia mamma il permesso di portare a casa con me il suo disco preferito, per lo più un gesto simbolico, considerando che con i sistemi che esistono ora di procurarsi contenuti musicali o anche solo l’ascolto in rete tra Spotify e Youtube ogni problema di disponibilità è ampiamente superato. Non ho ancora capito però il motivo per cui la Toccata di Widor a casa mia suona differentemente anche dal vecchio disco che era di mio papà. Ho provato a pulire accuratamente il vinile, a controllare la testina, a bilanciare diversamente l’equalizzazione, eppure il risultato non cambia. C’è una specie di patina che attutisce il timbro e grava sulle note facendole depositare da qualche parte del cuore prima di arrivare al sistema di decodifica che, in condizioni normali, collega direttamente le orecchie al cervello. Ho scoperto così che si tratta di un problema di rimpianti hi-fi, prima che di impianto stereo.
dopo ore di discussione con chi non capisce un cazzo mi manca l’ossigeno
StandardE considerate che a distanza di poche ore me la sono presa con mia figlia per l’uso inappropriato di Whatsapp in quanto generatore di equivoci emotivi legati alle conversazioni e poi ho ribadito con me stesso l’inutilità di certe discussioni condotte di persona che, per lo meno, se portate avanti tramite chat possono essere interrotte a piacimento tanto nessuno ci vede. Così ho pensato se sia meglio esprimersi a cuoricini e ad abbreviazioni lungo dialoghi tenuti in essere solo in quanto basati sul mezzo che, alla fine, diventa il fine in sé piuttosto che sostenere punti di vista con gente talmente ottusa e ignorante che non riconosce non dico l’autorevolezza ma almeno la buona educazione di considerare punti di vista diversi come più appropriati all’argomento in questione. Il problema è vecchio quanto il genere umano: è possibile convincere qualcuno di qualcosa? Siete mai riusciti a far cambiare idea a qualcuno e non solo per il tempo necessario a finire il whisky nel bicchiere ma per sempre. Io non l’ho mai provata, ma sono certo che si tratti di una soddisfazione molto più piacevole di record battuti, prime posizioni conquistate, opere d’arte riuscite e persino orgasmi raggiunti. A me va in pappa il cervello se alla quarta volta che ti dico quello che penso io tu mi rispondi con quello che pensi tu senza dimostrare minimamente di aver compiuto un passo in avanti verso la mia posizione. Così, mentre mi spieghi la tua opinione, a quel punto io penso ad altro e cerco di ripassare a mente le note del tema di questo pezzo qui che erano anni, se non decenni, che non mi saliva nella sfera delle reminiscenze sonore dell’infanzia, quando bastava un suono di sintetizzatore per mandarmi al settimo cielo. Di questo pezzo conservo ancora il 45 giri con la copertina con il teschio, e ora me lo riascolto quindi voi che non la pensate come me e non siete per nulla disponibili a cedere sulle vostre posizioni potete chiudere la pagina del browser e andare a fare un giro da animi più condiscendenti del mio.
quasi 10 minuti di ti odio poi ti amo poi ti odio poi ti amo poi ti odio poi ti amo
StandardSe qualcuno ha voglia di mettergli un clic e un loop big beat sotto è il benvenuto, io ho cancellato tutti i software di audio editing. Attenzione: potrebbe diventare un tormentone di successo.
bootleg
StandardL’unico ad accorgersi che quello è il tema di “Summer on a solitary beach” è il parroco, viene sotto il palco improvvisato con un paio di pedane da cattedra per farmi sapere, appena distolgo lo sguardo dal mio synth monofonico, che Battiato piace anche a lui. Non posso certo deluderlo dicendogli che ho accennato quella melodia solo per attirare l’attenzione di qualcuno durante quella specie di sound check e che a tutti pensavo fuorché a lui, ma pazienza. Ci sono già molti dei partecipanti alla festa di fine anno dell’oratorio, nostri coetanei ma che sembrano appartenere a un altro pianeta sociale. Ci sono già anche quei due o tre amici che ci hanno invitato lì a suonare, si vedono anche un bel po’ di ragazze che poi quella è la cosa principale. Di certo tutti pensano che li faremo ballare, c’è l’equivoco di fondo che quelli che suonano devono per forza fare disco music e, dalla parte dei musicisti, che il pubblico è lì per ascoltare a prescindere. È presente anche qualche adulto, ci sono i catechisti e c’è mio padre che mi ha portato in macchina per via della strumentazione ed è rimasto lì, d’altronde abbiamo quindici anni ed è meglio controllare anche se in un ambiente così difficilmente ci si imbatte in abitudini trasgressive. Basta solo che a uno gli scappi “che sballo” come apprezzamento entusiasta su qualcosa che tutti corrono ai ripari. La serata comunque fila via liscia, in effetti c’è qualche pezzo ritmato su cui ci si può dimenare, liquidiamo il nostro acerbo repertorio in meno di un’ora e poi, tutti insieme, lasciamo la parola ai dischi. D’altronde abbiamo scelto di esibirci per puro diletto, mica volevamo guadagnare qualcosa. Finisce che noi cinque ce ne stiamo da parte e tutti gli altri attendono la mezzanotte insieme, la festa finisce poco dopo e noi smontiamo e torniamo a casa. La serata sarà memorabile, almeno per per me, solo perché rimarrà l’unico live della mia vita in cui ho cantato un pezzo, con un testo inventato sul momento e in un finto inglese.
grazie xfactor per aver fatto conoscere gli asian dub foundation a mia figlia
StandardNell’anno domini 2014 anche il grande pubblico finalmente si accorge degli Asian Dub Foundation, potremmo dire quasi fuori tempo massimo considerando che la band anglo-asiatica ha già ampiamente dato il meglio di sé prima che Deeder Zaman, il primo storico vocalist e frontman, abbandonasse il gruppo. Ed era il duemila e uno. Potete immaginare gli ultimi tredici anni che si, per carità, gli ADF hanno fatto comunque cose di qualità ma niente di paragonabile a quel “Community Music” che, pubblicato nel 2000, è stato un vero e proprio manifesto della promiscuità (in senso positivo) culturale, considerando che Londra, in quanto a mescolanza, non deve prendere lezioni da nessuno. Tutto questo fino a qualche sera fa, quando uno dei candidati al titolo di quello che ormai è assurto a principale evento socio-televisivo dell’anno, più di Canzonissima, più di Elisir, e addirittura più di Protestantesimo, pare aver sbaragliato tutti i concorrenti con una reinterpretazione di “Flyover” degli ADF, tratta dell’album “Tank” del 2006. Vi riporto informazioni di risulta, non ho un abbonamento Sky ma ogni tanto scrocco passaggi televisivi a vicini consenzienti. La morale è che ora gli ADF sono finalmente sulla bocca di tutti, pure mia figlia mi ha chiesto di caricargli la canzone cantata da Madh, e circola addiritutra una leggenda metropolitana secondo cui gli Asian Dub Foundation in persona hanno chiesto di poter visionare il filmato della puntata del talent show italiano per valutare la resa del loro pezzo arrangiato secondo i canoni della neo-melodia italiana. Io, lo sapete, sono del partito che vuole comunque il ritorno di Deeder Zaman, l’unico deus ex machina in grado di scoraggiare i morgan e i fedez del caso dalla scelta di cover inappropriate e indirizzarli verso repertori più alla portata dell’ormai consolidato gusto nazional-popolare.
la storia del Quartetto per la fine del Tempo scritta da Richard Powers
StandardOlivier Messiaen scrisse il “Quatuor pour la fin du Temps” nel campo di concentramento di Görlitz, di certo non il miglior posto per liberare la creatività. Ma, come sapete, a volte l’arte nasce dallo stress, dalla tensione, dalla paura di morire, dall’istinto dell’uomo che lo fa reagire all’annullamento, una sorta di impeto di sopravvivenza perché in certi frangenti molti, per non dire tutti, cercano comunque di salvarsi. Non sono un granché in musica classica moderna, ma ritengo il “Quatuor pour la fin du Temps” una delle vette compositive del novecento che non mi stancherò mai di ascoltare. Il caso ha voluto che il libro che ho appena terminato di leggere, Orfeo di Richard Powers, riporti il racconto dettagliato (e romanzato) della genesi dell’opera all’interno della trama, con passaggi descrittivi unici per la resa che hanno. Era una un po’ che volevo scrivere qualcosa a riguardo, così ho pensato di passare in OCR il testo e condividerlo con voi, sperando che quelli della Mondadori non si arrabbino. Nel caso, basta una parola e cancello tutto. Comunque leggete il libro, se amate la musica, perché ne vale davvero la pena.
Ultimo giorno della primavera 1940. I nazisti si riversano in Francia. Appena oltre la pericolante Linea Maginot, la Wehrmacht cattura tre musicisti in fuga nel bosco. Henri Akoka, ebreo trotzkista nato in Algeria, viene preso con il clarinetto stretto fra le mani. Étienne Pasquier, acclamato violoncellista ed ex bambino prodigio, si arrende senza opporre resistenza. Il terzo, il compositore e organista Olivier Messiaen, birdwatcher dalla vista debole e mistico religioso che sente a colori, nella borsa a tracolla ha salvato poche cose essenziali: gli spartiti di Ravel, Stravinskij, Berg e Bach. Qualche settimana prima, tutti e tre i francesi avevano suonato in un’orchestre militare nella roccaforte di Verdun. Adesso i tedeschi li fanno marciare con le armi puntate alla testa, insieme a centinaia d’altri, verso un luogo di detenzione provvisorio vicino Nancy. Camminano per giorno senza cibo né acqua, Varie volte Pasquier sviene per la fame. Akok, che ha il cuore grande e la testa dura, tira su il violoncellista e lo fa proseguire. Alla fine i prigionieri arrivano in un cortile dove i tedeschi distribuiscono acqua. Scoppiano dei tafferugli. Quei branchi di disperati si danno battaglia per pochi sorsi. Il clarinettista trova Messiaen seduto lontano dalla bolgia, a leggere uno spartito preso dalla borsa. Guardi, dice il compositore. Si scannano per un goccio d’acqua. Akoka è un pragmatista. Basta procurarsi delle taniche, così possono distribuirla. I tedeschi radunano i prigionieri e li costringono a proseguire.
Alla fine la colonna arriva in un recinto di filo spinato in campagna. I tre musicisti si aggirano insieme a centinaia d’altri sotto la pioggia estiva. Il loro Paese non c’è più. L’intero esercito francese è sgominato, catturato o morto. Smette di piovere. Passa un giorno, poi un altro. Non possono far altro che aspettare sotto un cielo indifferente. Il compositore tira fuori un assolo per clarinetto, salvato dalla roccaforte catturata. Akoka lo suona all’impronta, in mezzo a un campo pieno di prigionieri. Pasquier, il violoncellista, fa da leggio umano. Il brano, Abîme des Oiseaux, è nato dai turni di sentinella che Messiaen ha fatto all’alba, quando i primi cinguettii del giorno si trasformano in un’orchestra mattutina. Gli serve a passare il tempo. Hemi Akoka è un burlone bonario che ama dire: Adesso vado a esercitarmi, quando si allontana per schiacciare un pisolino. Ma quella musica lo sconcerta. Crescendo di una lunghezza inverosimile, tumulti di ritmi liberi: non ha mai sentito una musica così. Sei anni prima Akoka ha vinto il premier prix al conservatorio di Parigi. Ha suonato per anni nell’Orchestre Natìonal de la Radio. Ma un assolo così difficile non l’ha mai visto. “Non sarò mai capace di suonarlo” mugugna Akoka. “Sì, che ne sarai capace” gli dice Messiaen. “Vedrai.”
La Francia cade mentre loro si esercitano. Le svastiche giganti drappeggiano l’Arc de Triomphe. Hitler salta giù dalla Mercedes e sale spedito la grande scalinata del Palais Gamier, prima fermata del suo giro privato a Parigi. I musicisti vivono per tre settimane sotto le stelle nel campo recintato. Dopo l’ignominia dell’armistizio vengono mandati a Stalag VIII-A, un campo di cinque ettari alle porte di Gorlitz-Moys, in Slesia. Lì il trio è denudato e processato, insieme ad altri trentamila prigionieri. Un soldato col mitra cerca di confiscare la tracolla del compositore. Messiaen, nudo, lo allontana in malo modo. La velocità della sconfitta francese sorprende i tedeschi. Stalag VIII-A può ospitare una minima parte delle decine di migliaia che vi si riversano. I più vivono nelle tende; il fortunato terzetto trova posto nelle baracche, che almeno hanno i bagni e le stoviglie di coccio. Il cibo scarseggia: surrogato di caffè a colazione, una scodella di minestra annacquata a pranzo e, a cena, una fetta di pane nero con un pezzo di grasso. Il violoncellista Pasquier ottiene un lavoro in cucina, dove ruba scarti da dividere con i compagni. Quello che lavora accanto a lui viene ucciso per aver rubato tre patate. Messiaen va a letto debole e affamato. L’inedia gli procura visioni arcobaleno piene di colori pulsanti: grandiose esplosioni di lava blu arancio, vampe da un altro pianeta. Si sveglia nel grigio del lavoro inutile, della fame, della monotonia.
Un altro prigioniero arriva nel pancaccio di Akoka: un arcigno pacifista che si chiama Jean Le Boulaire. Era al fronte a maggio, quando l’esercito francese si è fatto prendere dal panico disgregandosi. È riuscito a raggiungere Dunkerque, dove un peschereccio l’ha evacuato in Inghilterra. Da lì Le Boulaire è tornato a Parigi giusto in tempo per subire un’altra, finale disfatta. Akoka spiega al compagno di pancaccio la vita del campo e presenta il violinista agli amici. Le Boulaire ricorda di aver conosciuto Messiaen al conservatorio di Parigi. E così il terzetto diventa un quartetto. Le decine di migliaia di prigionieri di Stalag VIII-A uniscono i loro libri costruendo una piccola biblioteca. Formano una jazz band e una minuscola orchestra. Fondano un quotidiano che sì chiama “Le Lumignon”, la candela. Ogni storia è ridotta all’osso dalla censura ma scrivere tiene a bada la noia mortale delle giornate. I musicisti perdono peso, capelli e denti. I geloni gonfiano le dita di Messiaen. Akoka non ne può più e decide di scappare. Escogita un sistema per eludere le guardie. Mette da parte un po’ di provviste e si procura una bussola. Dice al compositore che tutto è pronto per la fuga il giorno dopo. No, dice Messiaen. Io rimango. Dio mi vuole qui. Akoka, demoralizzato, abbandona il progetto.
I tedeschi mandano Pasquier a lavorare alle cave di Strzegom. Ma un responsabile del campo riconosce il violoncellista del famoso Trio Pasquier e gli commuta l’incarico. Anche gli altri musicisti ottengono un po’ di cibo in più, un piccolo alleggerimento del lavoro. La guerra è la guerra ma, per i tedeschi, la musica è la musica. Uno dei capitani del campo, Karl-Albert Brüll, ogni tando dà a Messiaen un po’ di pane sottobanco. L’Hauptmann Brüll scova della carta da musica nuova: pagine con le linee di un pentagramma immacolato, recuperate dal putiferio della guerra. Dà quei fogli a Messiaen insieme a matite e gomme. Chissà perché? Senso di colpa, compassione, curiosità. Vuole sentire la musica in gestazione del nemico. Vuole sapere che razza di suoni uno come Messiaen è capace di portare in un posto così dannato. Brüll esonera Messiaen da ogni incombenza e lo mette in isolamento. Piazza una guardia all’ingresso della baracca per evitare che lo disturbino. E Messiaen, convinto che non avrebbe mai più composto in vita sua, torna a scivolare nell’incantesimo dei suoni organizzati. Non gli serve altro, soltanto le note, aggiunte linee su linee a formare un oscuro insieme.
Mentre l’estate finisce e l’autunno la segue verso l’estinzione, qualcosa comincia a riempire le pagine vuote: un quartetto al di là delle stagioni. I suoni frullano fuori dai sogni denutriti di Messiaen. Lavora durante la caduta della Francia, il trionfo nazista, l’orrore dell’esistenza dei campi. Una visione in otto parti prende forma: uno scorcio dell’Apocalisse per violino, clarinetto, violoncello e pianoforte, libero dalla prigionia del metro e pieno di arcobaleni. Messiaen rielabora a memoria due brani che ha scritto in un’altra vita, prima della guerra. A quelli aggiunge suoni da un futuro ricordato. Lì in quel campo, al centro di un’Europa devastata, le note fuoriescono da lui come la creatura di luce rivelata a Giovanni: Poi vidi un altro angelo possente scendere dal cielo, avvolto da una nube; sopra il capo aveva l’arcobaleno, il suo volto era come il sole. [ … ] E l’angelo che avevo scorto in piedi sul mare e sulla Terra levò la mano al cielo e giurò per colui che vive nei secoli dei secoli, che ha creato il cielo e ciò che in esso esiste, la Terra e ciò che in essa esiste, il mare e ciò che in esso esiste, che non sarebbe più esistito il tempo…
Il clarinetto di Akoka è l’unico strumento decente al campo. I capitani scovano un violino da quattro soldi e un pianoforte verticale scassato con i tasti che scendono ma non sempre risalgono. Centinaia di prigionieri fanno una colletta e raccolgono sessantacinque marchi per permettere a Pasquier di comprare un violoncello. Due guardie armate lo accompagnano in un negozio al centro di Gorlitz, dove trova un violoncello malconcio e un archetto. Quando quella sera Pasquier li porta al campo, i prigionieri gli danno l’assalto. Suona un assolo di Bach, Il cigno dal Carnevale degli animali, la serenata da Les millions d’Arlequin – tutto quello che riesce a ricordare. Prigionieri a cui non importa niente della musica lo fanno suonare tutta la notte. Il quartetto si esercita nei bagni del campo. Ogni sera alle sei lascia il lavoro e si riunisce per quattro ore. L’inverno s’impone, animale ed effettivo; le temperature precipitano a venticinque sotto zero. I prigionieri muoiono di sfinimento, denutrizione e freddo. Ma i tedeschi danno al quartetto la legna per accendere il fuoco e scaldarsi le dita. Messian istriusce gli altri sul mondo che ha creato. Il pezzo è troppo difficile per loro; perfino a quel virtuoso di Pasquier tocca penare. Messiaen dà dimostrazioni dal piano ma i suonatori cadono nella selva dei ritmi. La musica è la fuga di Messiaen dalla morsa del metro, dal laborioso battere del cuore e dal ticchettio degli orologi. L’andamento irregolare si sforza di sconfiggere il presente e porre fine al tempo.
Gli strumenti della fuga vengono da ogni dove: dal piede metrico greco: amphimacer e antibacchius. Dai dēśītāla dell’India settentrionale. Dai palindromi ritmici che si leggono in un senso e in quello contrario. Dagli scossoni sincopati di Stravinskij. Dagli isoritmi medievali, enormi cicli metrici all’interno di altri cicli. Certe volte il metro si attenua del tutto e reclama la libertà degli uccelli. Ma il volo elude i suonatori. Cresciuti nelle mansuete battute regolari, incespicano nel caos della libertà. I rapidi unisoni, quei crescendo scatenati, fanno gli sgambetti. Tieni la nota finché non hai più fiato, dice Messiaen. Allarga il suono. Pretende note di un’altezza assurda e volate brutali, disperse. Segna sullo spartito ordini come infiniment lent, extatique: infinitamente lento, estatico. Vuole un suono più dolce di quello che è capace di produrre un archetto. Vuole ogni colore che sia possibile tirare fuori dal bosco, dalle urla gelide ai violenti silenzi, e ripete che ogni ritmo folle dev’essere perfetto. li violino malridotto, il violoncello da sessantacinque marchi, il piano scordato con i tasti che s’inceppano, il clarinetto che si è sciolto dopo essere stato appoggiato alla stufa rovente: insieme devono produrre l’angelo e tutto il lucore della Città Celestiale. I suonatori si esercitano con le dita intirizzite dal gelo.
Per due mesi provano e riprovano gli stessi passaggi impossibili. Uniti per così tanto tempo con quella musica febbrile, mentre l’inverno cala sulla Slesia e il campo stende su di loro una coperta di morte, i quattro cambiano. La loro tecnica preme verso un luogo nuovo. L’agnostico pacato, l’ateo tetro, il cattolico messianico e l’ebreo trotzkista si accovacciano sulle loro parti del recalcitrante brano alla luce fioca nel bagno di una prigione e individuano, nella comune messa a fuoco, la risposta del canto d’uccello alla guerra. Il campo stampa i programmi per la prima:
Stalag VIII A-G6rlitz PREMIÈRE AUDITION DU QUATUOR POUR LA FIN DU TEMPS D’OLIVIER MESSIAEN 15 Janvier 41
Contravvenendo alle regole, il capitano autorizza a partecipare perfino i prigionieri in quarantena. Sta succedendo qualcosa in quell’angolo di confino, lontano dal fronte semidistrutto, dagli attacchi del sottomarini, dalle offensive e controffensive nel deserto dai bombardamenti sopra Londra, dal continuo attrezzare carneficine macchiniche su scale che a nessun umano è dato comprendere. Il debutto del prossimo mondo.
La giornata si apre come centinaia d’altre. Surrogato di caffè all’alba. Una mattina di lavoro ai compiti assegnati che obnubila il cervello. Zuppa di cavolo a pranzo e ancora lavori forzati tutto il pomeriggio. A cena, un’altra tazza di surrogato di caffè, una fetta di pane, un po’ di fromage blanc. Nessun messaggero arriva ad aprire la tomba eterna. Il concerto comincia alle sei, nella Baracca 27, il grezzo teatro del campo. Mezzo metro di neve tappeta il terreno e seppellisce il tetto. La neve entra a raffiche dall’ingresso. La baracca mal illuminata è pienissima, qualche centinaio di prigionieri di varie nazionalità, di ogni classe sociale e professione: dottori, preti, uomini d’affari, operai, contadini. Alcuni non hanno mai sentito musica da camera. Il pubblico si accalca sulle panche, stretto nei cappotti grigioneri. Le nuvole di fiato gelido riempiono la stanza, sbuffi di budella marcescenti essudati da uomini denutriti vestiti di stracci unti d’olio. Il poco calore che la baracca ha da offrire in una serata che intorpidisce le ossa viene da quei corpi emaciati. Gli infermi del blocco ospedaliero vengono portati sulle barelle. Gli ufficiali tedeschi amanti della musica occupano i posti riservati nelle prime file.
Il quartetto si trascina sul palcoscenico improvvisato con le giacche lacere e le uniformi cecoslovacche verde bottiglia. Gli zoccoli di legno sono le uniche scarpe al campo che riescano a tenere i piedi scongelati per cinquanta minuti. Messiaen si fa avanti, il vestito che gli pende addosso. Dice al pubblico che cosa sta per ascoltare. Spiega gli otto movimenti, uno per ciascuno dei sei giorni della creazione, uno per il giorno di riposo e uno per l’Ultimo Giorno. Parla di colore e di forma, di uccelli, dell’ Apocalisse e dei segreti del suo linguaggio ritmico. Parla del momento in cui tutto il passato e il futuro finiranno e l’infinità avrà inizio. I prigionieri tossiscono e si agitano sulle panche. I volti induriti si fanno sospettosi. Nessuno sa di cosa vada farneticando quello spaventapasseri. Pasquier accarezza il violoncello. Le Boulaire coccola il violino. Akoka, il clarinetto in grembo, guarda i compagni e sfodera un ultimo sorriso da buffone. La lezione finisce, i musicisti sollevano gli strumenti e la liturgia cristallina ha inizio. Due uccelli intonano il canto preaurorale che cantano da molto prima del tempo umano. Il clarinetto impersona un merlo; il violino, un usignolo. Il violoncello pattina su un anello di quindici note di armonie fantasma, mentre il piano gira attorno a un ritmo di diciassette valori di durata, diviso in un contesto di ventinove accordi. Quel vorticante sistema solare impiegherebbe quattro ore a dipanare il suo circuito completo di rivoluzioni annidate l’una dentro l’altra. Invece il movimento dura appena due minuti e mezzo: una scheggia fra due infiniti. Uno scintillio di suoni, stando al programma di sala di Messiaen. Un alone di trilli che si perde alto sugli alberi… l’armonioso silenzio del Paradiso.
Ma i prigionieri intontiti non fanno in tempo a capire cosa sentono che la mattina è già finita. Poi appare l’angelo, un piede sulla terra, uno nel mare, e annuncia la fine del tempo. Accordi vivaci, fragorosi, una corsa di doppi archi. Violino e violoncello, in un canto all’unisono, abbandonano il campo spingendosi fin dove arriva l’immaginazione. Il piano discende in cascate di accordi. Ma riecco la fanfara a infastidire il pubblico. Nessuno capisce che cosa credono di fare quei quattro esecutori. La musica oltrepassa gli ascoltatori affastellati, esce dalla baracca sepolta dalla neve, supera l’ultimo groviglio di filo spinato che sigilla il campo. Il movimento finisce, liberando vari accessi di tosse.
Gli ascoltatori intorpiditi si muovono sulle panche, e comincia il terzo movimento. Questo rielabora la fantasia per solo clarinetto che Akoka aveva suonato all’impronta nel campo vuoto vicino a Nancy, tanto tempo prima. L’abisso degli uccelli. L’abisso è il tempo, spiega Messiaen, con la sua stanchezza e il suo scoramento. Gli uccelli sono il contrario del Tempo. Sono il nostro desiderio di luce, di stelle, di arcobaleni e di canti gioiosi. Il clarinettista che suonava nella banda di una fabbrica di carta da parati adesso suona proiettandosi nel futuro. Cinguetta e trilla. I suoi crescendo montano dal silenzioso al dirompente, come la sirena dei raid aerei elle dirama l’avviso finale. Il canto impone un controllo vacillante. E chiede ancora di più al pubblico, elle comincia a dividernella luce a gas, fra clù sente la fuga e chi distingue solo la noia.
Il quarto movimento, un piccolo terzetto da carillon, dura novanta secondi. Potrebbe essere un’inezia che risale a prima della guerra, uno scherzo che risale a quando il problema più grande che si ponesse alla civiltà era ancora la lunghezza delle gonne. Anche l’eternità ha bisogno di interludi. Quella sera le bombe cadono sull’Inghilterra meridionale. Un cordone si stringe intorno a Tobruch. La feroce battaglia dei carri armati nel Nordafrica si interrompe per qualche ora, rinviata dal buio. A Berlino, che da lì dista un paio d’ore d’auto in direzione nordovest, la cerchia di Hitler fa le ore piccole, mettendo a punto l’invasione di Grecia e Jugoslavia. Ma lì nella Baracca 27, a Stalag VIII-A, a metà del sogno febbrile di Messiaen, il violoncello tira fuori una melodia dal suo interno. Cavalca le onde del pianoforte, che vaga per infinite, pazienti modulazioni. Ogni accordo che ne scaturisce spinge il duetto in un nuovo colore. Da qualsiasi altra parte il movimento durerebbe otto minuti. In quella baracca, invece, col tetto pieno di spifferi e i vetri ghiacciati, stipato di uomini che vivranno lì per anni, che in quel buco ci moriranno incapaci di ricordare com’era casa loro, la battuta tra due accordi vaganti a caso si perde per ore.
Per alcuni, la frase pulsante e un’ombra meno mortale della noia di quella prigionia. Per altri, è una benedizione che non ritroveranno mai più. Sul palco grande quanto una scatola di scarpe, il quartetto si trincera, liberando la Danza furiosa per le sette trombe. I quattro strumenti si danno la caccia con cadenze sobbalzanti di unisoni sfalsati, uno schiocco di frusta crescente. Musica di pietra, dice Messiaen, formidabile suono di granito; movimento irresistibile d’acciaio, enormi blocchi di rabbia viola, ubriachezza di ghiaccio. L’angelo ritorna, nel groviglio di nuvola e arcobaleno. L’esultanza non è mancata nel brano finora, ma non ha mai uguagliato questi rapimenti. Per Messiaen: Passo all’irreale e subisco, con estasi, un vortice; una compenetrazione circolare di suoni e colori sovrumani. Queste spade di fuoco, questa lava blu arancio, queste improvvise stelle…! La fine della Fine, quando finalmente arriva, è un assolo di violino sopra il palpito del piano. Ridotta di nuovo all’essenza, la melodia persiste, depurata dal fuoco nel crogiolo della guerra. Uscito da una nuvola di tremuli accordi in mi maggiore – la chiave del paradiso – il violino accenna a ciò che una persona potrebbe ancora avere, dopo che la morte si è presa tutto. Il violino sale; il piano si arrampica verso un’immobilità finale che travalica la pazienza e l’ascolto umani. La lode vaga alta, in do minore, attraversa un gelido campo minato di ambigui accordi diminuiti e aumentati, salendo di nuovo a un altro mi maggiore, poi a un altro ancora nell’ottava sopra. Dal limitare della chiave, e delle tastiere, la linea melodica guarda indietro alla terra perduta in una notte fredda, quando non esiste più il tempo.
L’ultima nota si spegne nell’aria gelida, ma non succede niente. Il pubblico prigioniero rimane in silenzio. E, nel silenzio, stupore e rabbia, perplessità e gioia, hanno tutti lo stesso suono. Alla fine c’è l’applauso. I prigionieri con gli zoccoli e le uniformi cecoslovacche verde bottiglia ripiombano nel mondo e fanno un goffo inchino. E poi, ricorderà Le Boulaire decenni dopo, un mucchio di discussioni irrisolte, su quella cosa che nessuno aveva capito. Venti giorni dopo la prima, quindicimila ebrei polacchi di Stalag VIlI-A vengono radunati e spediti a Lublino per lo sterminio. Akoka si salva grazie all’uniforme francese. Due settimane dopo, Messiaen, Pasquier e Akoka cercano di salire a bordo di un convoglio, con documenti falsificati da quello stesso capitano Brüll che aveva reso possibile il quartetto. Un ufficiale tedesco ferma Akoka: Ebreo. li clarinettista si abbassa le mutande, sperando che la sua circoncisione malfatta somigli all’integrità gentile. L’ufficiale lo arresta e lo riporta al campo. A marzo Akoka, algerino di nascita, passa per arabo in un gruppo che viene portato via dai campi. Finisce a Dinan, in Bretagna. Viene messo su un altro carro merci che torna all’Est. Di notte salta giù dal treno in corsa, cullando sempre il clarinetto. Riesce non si sa come a superare la linea di demarcazione con Marsiglia e ad arrivare a Vichy. Lì lo raggiunge un biglietto con la calligrafia del padre, lanciato dal finestrino di un altro treno in corsa: Sto partendo per una destinazione sconosciuta.
Le Boulaire scappa dal campo alla fine del 1941, con documenti coperti di timbri dall’aspetto ufficiale fatti intagliando una patata. Subito dopo la fuga, il violinista ha un esaurimento nervoso, Abbandona la carriera musicale e cambia nome diventando Jean Lanier, Comincia una nuova vita, libero da un passato che non ci tiene a ricordare. Avvia una brillante carriera di attore che conta un ruolo in un classico dei tempi di guerra: Amanti perduti. Gli uomini con i quali ha suonato la sera del 15 gennaio 1941 diventeranno perfetti estranei. Un ictus intorno agli ottant’anni gli provoca le allucinazioni convincendolo che ci sia ancora la guerra, che i tedeschi gli diano la caccia e che lui sia nascosto in uno scantinato, con la paura di muoversi. Jean Lanier, nato Le Boulaire, muore prigioniero di guerra. Paquier torna nella Parigi occupata, dove esegue il Quartetto per la fine del tempo. In seguito lo suonerà un’intfinità di volte, nel corso di una lunga e prestigiosa carriera, Fino alla morte, tiene nel portafoglio un biglietto sbiadito:
Stalag VIII A-G6rlitz PREMIÈRE AUDITION DU QUATUOR POUR LA FIN DU TEMPS D’OLIVIER MESSIAEN 15 Janvier 41
Sul retro del programma la calligrafia di Messiaen, che esorta il violoncellista a ricordare i ritmi, i modi, gli arcobaleni, i ponti e l’oltre. Messiaen attraversa il conflitto udendo suoni che travalicano qualunque politica terrena. Spende la vita a scrivere musica di armonie spettrali e ritmi uccellari. Ma nessun brano avrà mai più ascoltatori del Quartetto. Ogni tanto vede Pasquier e Akoka. Il capitano Brüll cerca di andarlo a trovare a Parigi, decenni dopo, ma il portiere lo manda via, dicendo che Messiaen non vuole vederlo. Brüll se ne va distrutto. In seguito Messiaen cerca di mettersi in contatto con il tedesco che gli aveva dato carta e e matite, l’uomo che, a suo rischio e pericolo, aveva falsificato i documenti di uscita del compositore. Ma a quel punto Brüll è oltre la portata del tempo. Se ho composto questo quartetto per un motivo, scriverà Messiaen, è stato per sfuggire alla neve, alla guerra, alla prigionia, per sfuggire a me stesso. Ciò che ne ho ricavato al di sopra di tutto è stato che, tra trecentomila prigionieri, io ero forse l’unico a non essere prigioniero. E di quella sera del gennaio 1941: Nessuno mi ha mai ascoltato con tanta attenzione.
la stessa forza della dinamite
StandardOra lasciate perdere i vestitini vintage che poi li indossate alle feste a tema e la cosa finisce lì perché comunque abbiamo una predisposizione culturale per certe linee e quel tipo di design. A dire la verità il revival anni cinquanta sessanta e settanta ha rotto un po’ il cazzo, perché è dalla fine degli ottanta che c’è questa ossessione della psichedelia poi del beat e poi Starsky e Hutch e persino Johnny Dorelli e poi basta, però. Altre cose invece tolte dal loro contesto storico ci fanno quell’impressione un po’ meh, lo sapete anche voi. Io una volta ho aperto una scarpiera rimasta chiusa per più di dieci anni e mi sono pure rimesso ai piedi quelle calzature da prete di lusso che usavo ai tempi dei Joy Division, per dire, ma ero rimasto sorpreso dalla foggia che una volta mi sembrava così avanti e che invece cambiato tutto, cambiate le curve e le proporzioni del modo di interpretare il mondo, riviste cioè in pieno riflusso del riflusso, proprio non mi ci vedevo più. E i miei piedi pure. La stessa cosa può capitare con le canzoni. Per una di quelle coincidenze che poi finiscono sui blog, domenica ho letto una cosa che ha scritto una mia amica sui parka che a me piace chiamare tutt’ora eskimo e detto fatto, sei battute spazi inclusi sul campo di ricerca di Spotify e già l’omonima composizione di Francesco Guccini irrompeva con tutta la sua erre moscia e la sua spocchia d’altri tempi nell’aria di casa mia, satura ormai esclusivamente di musica americana o inglese (a parte quel gruppo di Torino che mi porto dietro come una zavorra dal 97). Insomma che alla quarta forse quinta strofa per fortuna ha suonato il timer del forno e con la scusa che mi disturba la musica a pranzo Guccini è tornato con un brusco alt+F4 nella sua via Paolo Fabbri. La coincidenza, identificabile nell’ascolto del cantautore bolognese due volte in due giorni, si è manifestata ieri sera con le sembianze di uno svitato più o meno mio coetaneo che, all’ingresso della palestra che frequento, con un casco in testa malgrado fosse a piedi, cantava dritto come una sentinella del comunismo canoro “La locomotiva” sotto lo sguardo allibito di un gruppetto di studentesse del liceo che ospita quello spazio sportivo, nate e cresciute nel nuovo millennio. Sono passato davanti a lui proprio nel momento più bello, e cioè il verso del fratello non temere che torno al mio dovere, trionfi la giustizia proletaria. Ho risposto con entusiasmo immediato al suo pugno alzato con il mio, e non dovete biasimarmi se in quel frangente mi è sembrato il riconoscimento più adeguato a un gesto davvero coraggioso e, per dirla all’inglese, disruptive.
i 10 migliori dischi del 2023
StandardCristo, faccio il biglietto proprio quando l’annunciatore ricorda ai viaggiatori che oltre al fatto che la metro è bloccata, come riportano tutti i display alla fermata, non è detto che se uno è depresso esista una forma di rivalsa grazie alla ripresa del funzionamento di qualcuna delle linee nonostante l’alluvione, per cui si ha diritto a un premio con una fornitura di cose belle di entità corrispondente al disagio arrecato. La voce ai diffusori aggiunge che l’escamotage narrativo della cosa detta attraverso l’annuncio oggi non ha valore di titolo di viaggio, a causa di uno sciopero indubbiamente fuori luogo degli addetti al traffico di emergenza. Una vera coincidenza perché sembra tutto stramaledettamente uguale a quella domenica di novembre in cui dovevo raggiungere un amico alla presentazione del primo libro di Azael alla Mondadori di via Marghera, ma Milano era appena stata vittima di quel tilt oggi riportato sui libri di storia in quanto identificato come il vero inizio del cambiamento climatico ed ero rimasto bloccato a Zara sulla gialla. C’ero rimasto male perché davvero uscivo raramente e una volta che lo facevo mi toccava subire le angherie della casualità spalleggiata da un assembramento di giganteschi e rumorosi tifosi croati bloccati anch’essi nel tentativo di raggiungere San Siro per la partita contro la nazionale italiana.
L’analogia è che oggi invece vado a sentire quel gruppo di ultracinqantenni che quest’anno sono finiti in cima a tutte le top ten, le liste delle webzine di musica e i migliori dischi della stagione secondo tutti gli influencer di musica alternativa più seguiti. Li chiamano gli anziani della new wave ed è per questo che mi sono simpatici perché questa cosa di surclassare i pivelli dietro ai synth di una band post-punk alle soglie dei sessanta era una mia fissa quando scrivevo su quel blog degli aneddoti dal mio futuro. Prima ancora che uscisse il mio primo romanzo, quello che mi ha fatto conoscere oltre la nicchia che mi leggeva e che beh, sapete come andata se siete qui a sentire questa nuova storiella, giusto? Così cerco di fare di tutto per raggiungere il posto in cui sta per esibirsi questo complesso che ha spiazzato il mercato perché non è come per i Rolling Stones o altri musicisti di una certa età che però è quarant’anni che suonano e quindi hanno gente che li segue da sempre. Questi si sono formati da poco a un’età che uno non direbbe mai che a un musicista viene voglia di mettersi a suonare in giro e fare concerti, ma hanno fatto il botto sfruttando anche il fatto che i più giovani da qualche tempo a questa parte hanno altri modi per passare il tempo e nessuno vuole fare la rockstar di mestiere mentre loro sono di vecchio stampo e non si sono certo tirati indietro. Anche io ho iniziato a scrivere tardi, per dire, ed è la conferma che da un po’ a questa parte tutto è cambiato, c’è una specie di disordine anagrafico per cui non si capisce più niente, non c’è un’età in cui iniziare o smettere. Siamo tutti in qualche modo vittime dell’ibernazione sociale, quella che ci fa sentire in grado di fare tutto anche se, davvero, non c’è più niente da fare.