andatevene affanculo voi e il volo

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Perché il problema non è solo Sanremo. Posso garantirvi che se mi fate sentire cento pezzi inediti riesco a dirvi quali sono italiani e quali no già dal timbro della chitarra elettrica e dal modo con cui è suonata con un margine di errore pressoché nullo. Capite cosa voglio dire? È tutto l’insieme che non funziona, che ci fa capire che ci sono certe cose per le quali non siamo portati e in questa lista il rock si posiziona ai vertici, probabilmente secondo solo alla nostra scarsa attitudine a essere europei, a ultimare progetti in tempo e senza fare casini, a gestire cose pubbliche in modo trasparente e senza corruzioni e al saperci tenere alla larga dalle botteghe che vendono tatuaggi. Quindi lasciate perdere Sanremo, che importanza volete che abbia un mercato che localmente sopravvive solo sui diritti d’autore della tv di stato mentre delle cui quote, a livello globale, a noi restano solo meno delle briciole, per di più di una qualità del calibro di Bocelli, Pausini e i new entry Il Volo. E a quelli che mi dicono che comunque Il Volo sono bravi non esito a mandarli a cagare e a insultarli pesantemente. Ma come si fa? Ma ve ne rendete conto? Ma come cazzo fate anche solo a pensare che una roba così abbia una minima dignità? Se Sanremo è di per sé un gioco popolare in cui ci si schiera tra chi lo guarda prendendolo sul serio e chi lo guarda per prendere per il culo sui social network chi lo guarda prendendolo sul serio, e non a caso questa discutibile edizione ha fatto il pienone, la vittoria de Il Volo è oltre questa consolidata dinamica, oltre il trash, oltre la merda culturale, oltre tutto quello che fino a un paio di settimane fa sembrava essere inimmaginabile. Ecco, questa secondo me è la vera eccellenza, il vero Made in Italy. La nostra imprevedibilità e quella capacità che abbiamo solo noi di trovare sempre nuovi modi per distinguerci in peggio.

i Talking Heads più influenti sull’intelligenza dei neonati di Mozart?

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Un recente studio indipendente di un gruppo di ricercatori del dipartimento di Neuropsichiatria Prenatale della Michigan State Science Academy (MSSA), guidato da James F. Baxter, ha finalmente interrotto il primato delle composizioni di Mozart come principale vettore musicale in grado di influenzare e stimolare l’intelligenza dei bambini in gravidanza. Gli scienziati hanno infatti pubblicato il risultato dei loro studi condotti su campioni di mamme in diverso stadio di gestazione. Sono stati esaminati gruppi di un centinaio di donne ciascuno che si sono prestate a una serie di ascolti secondo un procedimento empirico che ha portato a non poche sorprese. La musica di Mozart infatti si classifica solo al sesto posto nella graduatoria delle composizioni più utili a sviluppare l’intelligenza nella fase prenatale dei nostri figli. Dei numerosi bambini che, dopo la nascita, sono stati seguiti durante il primo periodo di crescita, quelli più brillanti e ricettivi all’apprendimento sono risultati essere i micro-ascoltatori delle canzoni del celebre gruppo americano dei Talking Heads. Il professor Baxter e i suoi accademici non hanno nascosto il loro stupore considerando l’imprevedibilità strutturale delle canzoni pop wave della band di David Byrne, spesso ritmicamente sfuggenti e costruite su dinamiche ed equilibri armonici destabilizzanti. Una vera e propria antitesi rispetto a una certa matematica dei suoni su cui si dipanano le trame della musica classica di geni indiscussi come Mozart o Bach.

Lo studio è riuscito persino a portare a termine un retro-assestment su alcune persone che, nate nella seconda metà degli anni settanta e cresciute nei primi ottanta, quando cioè i Talking Heads erano sulla cresta dell’onda, sono state involontariamente raggiunte dalle radiazioni benigne di album come 77, More Songs About Buildings and Food, Remain in light o True Stories, tanto per citare alcuni dei lavori che venivano passati alla radio e alla tv e che quindi, con entità differente, beneficiavano di apertura mentale ignari nascituri. In alcune zone degli Stati Uniti, da quando si è diffusa la notizia, cd e lp dei Talking Heads stanno di nuovo andando a ruba e non sono pochi gli influencer che cercano di far leva sull’opinione pubblica affinché il gruppi torni a suonare insieme nella formazione originale. Nei reparti di ostetricia, ginecologia e presso le sale parto degli ospedali americani più all’avanguardia, medici e personale infermieristico coadiuvano le fasi cruciali delle neo-mamme sulle note di Memories Can’t Wait, di Wild Wild Life o di Girlfriend Is Better. Compagni e futuri padri passano ore a strimpellare chitarre contro le pance delle mogli improvvisandosi improbabili tribute one man band per spianare la strada intellettiva delle proprie creature. Per molti fan la bella notizia non è tanto che scienza e musica vadano a braccetto o che si sia trovato una modalità per controllare e guidare lo sviluppo delle persone quando ancora sono nel loro mondo parallelo dentro la mamma alternativo alla più diffusa procedura che vede al centro l’autore della Piccola Serenata Notturna. Piuttosto il fatto che oggi i Talking Heads possano godere di una nuova fama e che davvero, non si sa mai, magari tempo quest’estate e tornino a suonare live, anche qui in Italia.

le ragazze che ispirano tutti i testi delle canzoni

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Giusto vent’anni fa, era il 1995, il gruppo dei “Neri per caso” si è imposto nella sezione nuove proposte di Sanremo. Nel 2015, su un manifesto in una stazione della metropolitana di Milano, è possibile leggere un verso del testo di quella canzone che, lo ricordo ai più smemorati, era quel capolavoro di arte contemporanea dal titolo “Le ragazze”. Ci ho fatto caso proprio ieri, a ridosso della nuova edizione del Festival. Il passaggio, scritto con il pennarello nero sulla locandina di un noto ente di formazione per futuri disoccupati della comunicazione, è il celebre “si può amare da morire ma morire d’amore no”. Una coincidenza che era un peccato non coglierla, pensate a quanti e quali link colti si possono esercitare con uno spunto di questo tipo. I “Neri per caso”, per dispetto ai quali un gruppo di amici cantanti e comunisti aveva formato una temporanea parodia con il nome di “Rossi per scelta”, sono altrettanto degni di oblio dei temutissimi “Ladri di biciclette” di quella sagoma di Paolo Belli (ma per lo meno più simpatici), e poco più su nell’immaginario collettivo dei “Ragazzi italiani” se non altro per esser stati i precursori di tutta quella fuffa a cappella fuoriuscita da quel capolavoro di sottocultura trash che è XFactor. Ci ricordiamo sicuramente più i “Neri per caso” dei numerosi gruppi vocali spremuti dalle scuderie di Morgan e soci per poi tornare nella zona grigia dell’indifferenza canora nazionale. Ma il punto è che qualcuno ricorda ancora il ritornello de “Le ragazze” tanto da divulgarlo abusivamente su un manifesto pubblicitario, uno dei tanti messaggi criptici che i visionari urbani lasciano ai passanti. Quegli sforzi inutili come “stop the chemtrails” dal fascino grillista o “colonna gamberi” e tutta la serie degli slogan sui noti crostacei che si leggono un po’ ovunque sui muri di questa città, probabilmente in balia di un novello Bubba direttamente da Forrest Gump che ci spiega i nuovi usi che se ne possono fare. Questa cosa delle scritte senza senso, che è ben altro rispetto ai writers ma altrettanto dannoso, non so perché ma la collego a un’illuminazione che ho avuto tempo fa, e cioè che un idiota con un dispositivo smart resta sempre un idiota. Nei primi anni 80 dalle mie parti andava invece di moda la parola “respiri”, un nome molto evocativo che qualcuno scriveva ovunque. C’era una scritta di “respiri” in Via Balbi a Genova, dalle parti della Facoltà di Lettere, che ai tempi dell’Università era ancora carrabile e vittima di un traffico e di inquinamento che non vi sto a dire, stretta com’è, tanto che qualcuno, a “respiri”, aveva aggiunto il complemento oggetto più adeguato al contesto, e cioè “cancro”.

cancellato il tour europeo dei Tv On The Radio che iniziava stasera, a Milano

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Quindi se, come me, avevate i biglietti da dicembre per la data ai Magazzini Generali potete mettervi il cuore in pace e organizzarvi la serata con un’alternativa altrettanto interessante come l’unico concerto italiano della nostra band preferita. Saprete che il batterista è in ospedale, non sembra nulla di grave ma tant’è. Propongo di vederci allora tra noi fans lo stesso e, come magra consolazione, di ubriacarci dal dispiacere come delle merde.

la grande truffa dei cori e rumori dei Chrisma su Nuova Ossessione dei Subsonica

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Nel 1978 avevo undici anni e, pur essendo già molto competente in fatto di musica, tuttavia applicavo metri di valutazione in questo ambito subordinati ai più comuni fattori che esercitano influenza sui ragazzini di quell’età. Questo per dire che dei Chrisma (poi Krisma), ancora prima dell’acerbo sound post-punk mitteleuropeo, un’autentica primizia per il nostro paese, mi aveva colpito lo stacco di coscia di Christina Moser. Solo anni dopo ho capito che sotto quelle pulsioni ormonali si nascondeva l’attrazione per lo stile che poi ha condizionato ogni mia scelta nei quarant’anni successivi e che costituisce la matrice di ogni mio ascolto tutt’ora. Anzi, probabilmente la curiosità per quanto parzialmente mostrato dal di lei spacco inguinale era solo la punta di un iceberg emotivo che sormontava un ingombrante quanto inesorabile universo musicale in fase di gestazione.

Questo perché, come avrete letto tutti, ieri ci ha lasciato Maurizio Arcieri, la componente maschile in vita e in arte del duo dei Chrisma (poi Krisma). Maurizio Arcieri, o semplicemente Maurizio come si faceva chiamare ai tempi de “L’amore è blu”, era a sua volta un gran figo. I Chrisma (poi Krisma) sono stati uno dei tanti gruppi e artisti italiani molto stretti nelle banalità commerciali da classifica, sempre troppo avanti, poco radiofonici, ballabili a fasi alterne, televisivamente di un’altra dimensione, difficilmente categorizzabili, in una parola musicalmente disadattati. Dei veri aristocratici dello show business, pionieri dei nuovi media e della comunicazione multicanale.

Nel pieno del revival anni 80 sono stati persino invitati dai Subsonica a collaborare per il brano “Nuova ossessione”, presente nell’album Amorematico uscito nel 2002, una mossa che mi ha riempito di gioia considerando che mi si era aperta la possibilità di vedere due tra le cose più interessanti mai sentite in Italia suonare insieme nello stesso pezzo. Poi ho ascoltato il brano, non appena pubblicato il disco. L’ho ascoltato due volte, poi tre, quattro, dieci, cento, cinquecento, ma pur considerandomi un vero scanner nel cogliere e isolare singoli frammenti sonori, non sono mai riuscito a comprendere in quale punto del brano ci sia l’apporto di Christina Moser e di Maurizio Arcieri. Tenete conto che i brani dei Subsonica di per sé sono barocchismi elettronici, degli autentici babà armonici farciti all’eccesso di suonini ed effetti vari, tanto che con le piste usate per una sola canzone ne potrebbero comporre almeno il doppio. Quindi vi sfido a trovare il coretto o il rumore voluto dai Chrisma (poi Krisma).

Mi sono pure chiesto se sia stata esclusivamente una mossa commerciale. I Subsonica che si affacciano al pubblico un po’ anziano dei Chrisma (poi Krisma) per darsi un’aria più matura, o viceversa i Chrisma (poi Krisma) che si avvalgono dei Subsonica per abbordare qualche sbarbatello dei centri sociali e qualche fan di elettro-rock e tornare un po’ in auge. Ma il tutto solo a parole. Si fa un annuncio a vantaggio di entrambi ma poi, in pratica, non si combina nulla. Il che, conoscendo l’intelligenza, un certo cinismo e il modo interessato di intendere il mercato degli uni e degli altri non mi stupirebbe. Poi si sa, vogliamo bene ai Subsonica, siamo altrettanto carichi di affetto per i Chrisma (poi Krisma) – e soprattutto oggi – quindi ascoltiamo lo stesso “Nuova ossessione” sempre con grande piacere, e ci immaginiamo Maurizio e Christina in studio con Casacci e soci, con i loro ciuffi e le gonne mozzafiato malgrado l’età, intenti in un formidabile playback come ai vecchi tempi.

tagliare corto con una lunga storia

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Secondo me con i concerti abbiamo un po’ perso il senso della misura, perché giustamente le popstar hanno capito che con le vendite dei dischi marca male ed è ora di rimboccarsi le maniche e puntano tutto sull’attività live. Da qui deriva il fatto che i prezzi dei biglietti non stanno né in cielo né in terra, una roba che se tornassimo ai tempi degli autoriduttori altro che processi del proletariato a De Gregori. Il punto, al limite, è come concentrare le proprie risorse economiche e scegliere concerti che ne valgono veramente la pena. Lo so, starete pensando che ho scoperto l’acqua calda, magari non proprio così ma con una locuzione più sbrigativa tipo “grazie al cazzo”. Perché anch’io sono uno come voi che si muove solo per i propri beniamini. The National, i Tv on the Radio (ho già da un bel po’ i biglietti per il concerto del 6 febbraio a Milano), gli Interpol, St. Vincent, Sharon Van Etten, Satellites se prima o poi deciderà di eseguire live i suoi due capolavori. Tutti artisti un po’ della nicchia che al massimo ti costano 25 o 30 euro a cranio, cioè sessantamila lire, non dimentichiamolo (ho da qualche parte un biglietto per il tour di “Sono solo canzonette” di Bennato a 1500 lire). Ma va be’, mettiamoci pure l’inflazione e il passaggio dalla lira all’euro che nessuno ha regolamentato, per questo più che un referendum per uscire dall’euro occorrerebbe un referendum per uscire dagli italiani. Per farla breve, il mio budget per le esibizioni di gruppi e artisti famosi dal vivo non supera i cento euro l’anno. Ma sarà capitato anche a voi di scambiare qualche parola con gente che va a sentire cani e porci solo perché sono degli eventi, lasciandoci ogni volta mezzo stipendio. E gli U2, e Biagio Antonacci, e Fedez, e jovanotti che esce purtroppo con un altro album, e i Negramaro a San Siro, ma non distribuiti ciascuno tra i propri fan ma nel senso che singoli individui onnivori e bulimici di musica da tanto al mucchio vanno a vederli tutti. Immaginate la confusione che regna in quelle zucche, una cosa da non credere.

Poi ci sono i nostalgici facoltosi, ma quelli sono un caso a parte e fanno tenerezza. So di persone che hanno pagato migliaia di euro per una manciata di biglietti per l’imminente concerto degli AC/DC, quando poco prima erano sotto il palco di Billy Idol e contano i giorni che mancano al live degli Spandau Ballet. Il trait d’union sono i tempi che furono, gli anni 80 indiscriminati, un calderone in cui anche a me è capitato di cadere un paio di volte e ve l’ho già raccontato. Una reunion che non potevo perdere del Police qualche anno fa e una deludente serata con una Siouxsie davvero invecchiata e poco propensa a rivangare il proprio passato in favore di un nuovo lavoro discografico – un po’ così. Tutto questo però parte dalla band di Tony Hadley, che con i suoi costumi new romantic ci faceva piuttosto ridere ma oggi che importa, siamo abbastanza vecchi e a certe cose, purché ci ricordino certe vecchie storie, non badiamo più. Stavo aspettando mia moglie fuori da uno dei negozi di quel girone infernale che è l’outlet di Vicolungo nei giorni dei saldi, e sapete che c’è sempre musica in ogni angolo, quando a un certo punto è partita questa canzone qui.

scusi, dov’è il bar?

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Non voglio certo farvi la paternale sui Pink Floyd, ne sapete certo più di me, non ne avete bisogno, ci sono fior fior di critici e di musicologi che hanno già detto tutto su uno dei più influenti ensemble di compositori di tutti i tempi. A me piacciono soprattutto le curiosità, come la voce del portiere dello studio di Abbey Road che quasi impercettibile in The Great Gig in the Sky dice chiaramente di non aver paura della morte, o appunto la frase in italiano che dà il titolo a questo post e che è più facile da cogliere in Not Now John urlata credo da Waters. E che dire di One of these days che per i più introduceva a un celeberrimo programma sportivo della RAI, nel senso che magari gli appassionati di calcio non sanno che la sigla era dei Pink Floyd e, viceversa, pensate un po’ a cosa ci si poteva permettere un tempo su una tv di stato e nemmeno per un rotocalco musicale. Come per tutti i gruppi che sono stati più o meno in attività per lungo tempo, anche per i Pink Floyd è bene suddividere la loro carriera in fasi, e su questo siamo tutti d’accordo. Chiaro quindi che quel blocco centrale con il prisma triangolare rifrangente e l’omino che prende fuoco probabilmente è quello che passato di più alla storia, quello che ne è stato prima è invece più leggenda grazie al diamante pazzo, ma attenzione a non sottovalutare il periodo The wall e The final cut, e mi direte ma chi lo sottovaluta che tra due dischi chissà quanti miliardi di copie hanno venduto. Ma considerate che stiamo parlando del periodo 79-83, centrale per la formazione di gente come me che ha vissuto tra i dodici e i sedici anni proprio lì in mezzo, quindi è facile indovinare quali siano le nostre preferenze. The wall, soprattutto, è una cosa che davvero non si può misurare, una di quelle opere che tutti dovremmo ringraziare che in qualche modo sono saltate fuori dal genio umano, probabilmente come le invenzioni di cui a distanza di secoli beneficiamo delle conseguenze che ci hanno portato. Come il sistema metrico decimale, il motore a scoppio e la tecnologia no frost. Nel mio piccolo, ancora oggi, quando sento il rumore delle pale di un elicottero, mi volto a cercare le casse e aspetto che inizi Another brick in the wall.

l’orgoglio nel nome dell’amore, e insomma già dal titolo si capisce di chi stiamo parlando

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Quando abbiamo visto Bono cantare sul tetto nel video di “Where the Streets Have No Name” la prima cosa che ci siamo detti è stata che gli U2 avevano rotto il cazzo. E da allora lo abbiamo sostenuto più o meno a ogni album, perché poi quando i gruppi mirano a interpretare solo se stessi si finisce per confondere il senso del mezzo e del messaggio, un po’ come avviene per i mass media. So di darvi un dispiacere, e per venire incontro alla vostra opinione vi dirò che comunque quella parentesi anni 90 con “Stay”, “Lemon” e “The elctrical storm” e poi anche la colonna sonora di Batman è un bella boccata di aria fresca. Ma il fatto che nel 2015 siamo ancora qui a parlare degli U2 perché ci sono sempre pezzi nuovi loro in giro è la conferma del fatto che avrebbero potuto comunque fermarsi almeno dieci album fa ed entrare nell’olimpo dei rock come una delle principali band della storia. Soprattutto per quel fottuto capolavoro che è “Unforgettable Fire”, l’ultimo disco loro che vale veramente la pena.

a cosa pensi quando senti un pezzo come questo

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C’è un altro bel modo per fare sogni a occhi aperti ascoltando musica ed è quello di immaginarsi sul palco con il gruppo o il cantante in questione a eseguire questo o quel pezzo e non venite a dirmi che non l’avete mai fatto, perché dev’essere un qualcosa degno di uno studio psicanalitico tanto quanto il figurarsi il senso di colpa del mondo, annessi e connessi, al proprio capezzale o in coda dietro alla propria bara. Non c’è davvero nulla di male, sappiatelo, nessuno è ancora in grado di ficcare il naso nella vostra testa quindi sentitevi liberi di lasciarvi andare alle più trasgressive perversioni, come proporre un pezzo famoso di oggi in occasione di quel concertone che si era svolto nell’83 con tutti i gruppi del liceo. Salire sul palco e come in un celebre episodio di Quantum Leap lasciare tutti a bocca aperta suonando una canzone qualsiasi dei Tv On The Radio. Ascoltavo invece uno degli album più acclamati dell’anno testé finito, che l’omonimo dei Run the jewels, in cui ci sono basi che ai tempi d’oro della 4AD – Cocteau Twins, Wolfgang Press e compagnia bella – avrebbero potuto costituire un perfetto tappeto sonoro per un innovativo progetto dark rap. Pensate un po’. Già che ci sei, diranno i lettori più opportunisti, tanto vale tornare indietro nel tempo e anticipare certi successi mondiali degli U2 o dei REM. Converrete con me però che così si perde tutta la poesia, già che uno si fa dei film mentali tanto vale farseli fuori dai circuiti mainstream. E secondo me in questa fase di sublimazione dei desideri più reconditi ci sono passate anche le persone che non direste mai. Non vi dico le cose che ho fatto io, inventandomi i Subsonica quando qui in Italia a malapena c’erano i Decibel, e tutto per fare breccia nell’omologa della mia adolescenza della ragazzina dai capelli rossi di Charlie Brown. E più volte ho trovato mio papà talmente immerso in uno dei concerti d’organo di Bach che secondo me era completamente perso dietro lo strumento antico di qualche cattedrale barocca, intento a fare da apripista a centinaia di fedeli pronti a elevare la propria mente verso Dio.

e tuttoaduntratto il coro

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Sull’onda di alcuni successi del momento che puntavano sul coro come un elemento cardine di coinvolgimento della massa e di riconoscibilità melodica, per farvi capire a cosa mi riferisco ascoltate l’oh oh oh di Self Control di Raf oppure il laaa la la la laaaa la la la laaaa di Don’t you dei Simple Minds, noi come altri gruppi emergenti eravamo in cerca della formula migliore per trascinare il pubblico nei live, imprimere un tormentone melodico nella testa dei consumatori di hit e di marchiare indelebilmente l’opinione di fans e potenziali ascoltatori con melodie riproducibili con versi e quindi scevre tanto da testi potenzialmente identificativi, e conseguentemente subordinati alla componente soggettiva dell’individuo e alla sua maggiore o minore identificazione se non al completo rifiuto per la totale negazione contenutistica o simbolica delle parole quanto mi sono dimenticato il secondo termine di comparazione. Chiaro, no? Questo per diversi motivi: dalla scarsa dimestichezza con le liriche in italiano agli eventuali sotto-significati politici o comunque in grado di generare impegno in qualche modo. La pace, la redenzione, le tensioni sociali, la rivolta. Le canzonette sono solo quelle lì, appunto, che anche Bennato ha usato un naaaa na na nanna naaaa per cominciarla, rendersi inconfondibile e, di conseguenza, vendere più dischi. Siamo musicisti, mica scemi. Il coro o coretto per funzionare doveva quindi essere semplice e scazzato, come se si trattasse di un coro suo malgrado, nato per caso, non auto-determinatosi tale ma così proclamato dal pubblico pagante, un rito da consumare in comune tra la band sul palco e la gente sotto in grado di suggellare una vicinanza impossibile altrimenti. Perché poi il pubblico ti sgama, se componi un pezzo appositamente munito di coro per trascinare la folla, e volutamente la folla non solo non ti segue ma interrompe proprio la fiducia nei tuoi confronti. Te la sei giocata, bello. Quando invece il coretto sembra spontaneo il gioco e fatto, e può generare introiti di un certo livello. Ma dicevo che noi ci provavamo, ma non ci veniva nulla di utile. Ce n’era uno che però sembrava anticipare la disonestà intellettuale di pappananana pananana pappanaoooo panaooooo di Alive and Kicking, che oggettivamente non è solo uno dei pezzi più imbarazzanti dei Simple Minds ma di tutta la letteratura musicale universale globale dell’intero mondo mondiale. Una volta abbiamo persino azzardato un eeeehh ooooohh eh oooh dalle venature new romantic, alla Adam and the Ants per intenderci. Ma proprio non avevamo il fisico. E poi ci avreste visto sul palco con le luci rivolte sulla massa a guidare l’interazione? Ma fatemi il piacere. Sono cose che agli italiani proprio vengono male.