fuori come va?

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A Capo D’Orlando, provincia di Messina, il lungomare è intitolato a Luciano Ligabue, artista contemporaneo. Non c’è nulla di sbagliato: è un monotono rettilineo piatto e tutto uguale.

Squid – O Monolith

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È difficile trovare una band coraggiosa quanto gli Squid. In O Monolith i già pochi ammiccamenti ai suoni di tendenza di Bright Green Field lasciano posto alla sperimentazione più dura e pura nel math-prog, per un monumento all’espressività musicale senza precedenti.

Superata l’urgenza di tracciare i solchi del proprio insediamento stanziale laggiù, nei remoti territori inesplorati dove le valli del post-punk lasciano spazio alle impervie montagne del progressive – siamo a poche miglia dal regno dei Black Midi, qui la residenza a South London non c’entra – a due anni dalla fondazione di Bright Green Field gli Squid avviano una politica di espansione.

Non correte il rischio di sbagliarvi: la band è riconoscibilissima e i tratti somatici del loro suono è facile individuarli nelle nuove canzoni di O Monolith. Ci sono i tempi dispari e la consueta varietà ritmica, a tratti schizofrenica. Ci sono i repentini scatti d’ira vocale di Ollie Judge che corrispondono ad altrettanti impeti di batteria (è impossibile non uniformare il canto e la simultanea e contestuale percussione di qualcosa, voce e gesto muscolare sono indissolubilmente legati, pensate ai versi che vi escono dalla bocca quando fate uno sforzo fisico: avete mai visto una partita di tennis?).

Ci sono le linee di tromba come meteoriti in picchiata nello spettro stereofonico delle loro canzoni. Troverete anche quelle dissonanze/cliché che per consuetudine riconduciamo al punk e che talvolta interpretiamo come musica suonata male apposta (o suonata fintamente male apposta) da gente che non sa suonare bene o con uno stile meno ostico ma, malgrado questo, vuole a tutti costi suonare lo stesso e si dà al punk (in alcuni casi al free jazz) perché nel punk vale tutto, anche non saper suonare o non aver studiato ma non è certo il caso degli Squid, qui ci sono strumentisti di scuola math-rock con i controfiocchi. In O Monolith la musica è così estrema da fare tutto il giro e disintegrarsi a tutta velocità contro il muro della sperimentazione, che rispetto alla musica come la conosciamo noi è una dimensione a sé. Una non-musica, potremmo dire.

Le manie di grandezza, o ambizioni, per usare l’accezione costruttiva dello stesso concetto, sono insite nelle ragioni fondanti di questo nuovo progetto. Le anguste sale di registrazione dell’album d’esordio hanno lasciato il posto ai Real World di Peter Gabriel nel Wiltshire, uno dei luoghi della terra più suggestivi per chi è assetato di ispirazione e ricchi di magia per chi cerca un significato – si trova a meno di un’ora di strada da Stonehenge – ed è anche questo fattore che ci induce a credere al motivo che ha portato verso la scelta di un titolo così criptico per il loro concept. Il fascino dei megaliti e il mistero del loro impiego da una parte, il significato del più celebre monolito della storia, quello kubrickiano che beneficia i destinatari delle sue epifanie di uno scatto evolutivo della loro forma di vita, dall’altra.

Non so a voi, ma a me sembra tutto intriso di geografia umana, per questo spero di non essere il solo a legare l’immaginario visivo degli Squid all’importanza dei luoghi e dei non-luoghi nelle loro e, di conseguenza, nelle nostre vite, un po’ per gli artwork di copertina dei loro dischi ma soprattutto per i video dei singoli pubblicati, surreali clip in cui l’ambientazione fa la differenza. Un’attitudine già intuita grazie allo scenario digitale di “Narrator”, tratto dal primo album, poi confermata dall’improbabile campo di basket di “Swing (In a Dream)” e dal deserto dell’ufficio relazioni con il pubblico (e tutta l’involontaria ferocia della burocrazia connessa) di “The Blades”, i singoli che hanno preceduto l’uscita di O Monolith. Ambienti rurali e ambienti urbani, migrazioni in posti nuovi, nuove forme di espressione, ed ecco che il cerchio si chiude.

Sarà la sequenza di synth in sette quarti che si attorciglia intorno all’arpeggio di chitarra e agli impulsi di cassa dritta con cui si apre “Swing (In a Dream)” a convincervi dei buoni propositi della band, ancora prima della frasetta di tromba che sembra rubata a un solo di uno standard bossa nova lounge-jazz. Sarà la belva che si risveglia furiosa nella sua tana nel finale di “Devil’s Den”, fino a quel punto sopita da una lunga e improbabile ninnananna cacofonica, a farvi ritrovare la vera anima di questo gruppo. Sarà il vocoder di “Siphon Song” ad accompagnarvi lungo un crescendo post-rock con deflagrazione finale, dopo il quale avrete tutto il tempo di raccogliere, della disperazione successiva al disastro, quel poco che rimane delle vostre membra. Sarà la math-fusion da operetta di “Undergrowth” a offrirvi un rifugio in pattern ritmici più consoni alle vostre consolidate simmetrie culturali.

Sarà “The Blades” – per me un capolavoro, poi fate voi -, più o meno a metà del disco, a fornirvi un riepilogo di tutto quello sperimentato fino a questo punto. Saranno il primo e il secondo tempo di “After The Flash” a farvi perdere ancora una volta l’orientamento, malgrado la guida dell’ostinato ripetuto ad oltranza, volutamente sacrificato per un finale inglorioso. E, dalle sue ceneri, sarà il grunge breakbeat di “Green Light” a persuadervi dello scarso senso della misura di questi cinque giovani inglesi. Alla bizzarra conclusione, la traccia “If You Had Seen the Bull’s Swimming Attempts You Would Have Stayed Away”, in cui coesistono Kamasi Washington e i Radiohead, il compito di farvi riflettere sul valore complessivo di quest’opera.

Per me, non ci sono dubbi. A differenza di certi esercizi di stile di altri artisti che condividono con gli Squid ispirazioni, estrazione e target, O Monolith è un monumento naturale alla potenza dell’arte, alla modernità e all’ingegno del genere umano. Probabilmente la cosa più vicina alla musica classica contemporanea che il rock del nuovo millennio sia in grado di esprimere.

Protomartyr – Formal Growth in the Desert

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Potrebbe essere l’anno dei Protomartyr. “Formal Growth in the Desert” è la prova che la crescita della band di Joe Casey fuori e dentro i luoghi aridi della vita – reali o metaforici che siano – ha dato i suoi frutti.

Sulla sua pagina Wikipedia Joe Casey è definito – o si descrive, vai a sapere chi l’ha compilata – uno che si distingue per la sua voce e per il modo anti-carismatico di calcare le scene. Io aggiungerei che, più che ogni altra cosa, si fa notare per le sue indubbie qualità di autore e, già che ci siamo, ne approfitterei per aggiornare le sue informazioni alla luce dell’ultimo album dei Protomartyr, un disco che si chiama Formal Growth in the Desert e che vedremo ai primi posti delle classifiche a fine anno, statene certi.

Il frontman della band di Detroit oggi è un cantante pressoché completo, capace di coniugare il suo disagio post-punk (in un disco in cui l’etichetta post-punk risulta ampiamente superata) insieme a un raffinato stile da crooner a tratti quasi credibilmente confidenziale. Tutto questo mentre il chitarrista e produttore Greg Ahee, il batterista Alex Leonard e il bassista Scott Davidson gli srotolano sotto uno dei più complessi tappeti sonori sulla piazza, privo di compromessi con la linearità o, al limite, con qualcosa che induca anche lontanamente a muoversi a ritmo. Sul discorso del carisma, poi, c’è ben poco da dire. Se siete ancora qui a farvi condizionare solo perché uno ha un’attitudine allo star system da geometra del catasto alle prese con il karaoke durante un pranzo di matrimonio, provate con i Fontaines D.C. o qualche altro cantante piacione, così risolviamo il problema alla radice.

A me piace invece considerare i Protomartyr un vero e proprio fenomeno, a partire proprio da Joe Casey. Una band dagli equilibri e squilibri perfetti in cui l’apporto di ciascuno dei quattro vive in ragione di quello messo in campo dai propri sodali. Se, come sostengono in un’intervista, Formal Growth in the Desert è il loro primo disco da ascoltare in cuffia (esperienza che vi invito caldamente a provare) il merito è corale. Da una parte c’è la crescita artistica dei Protomartyr, facilmente riscontrabile album dopo album. Dalla trilogia della ruvidezza abbaiata nei primi dischi all’implosione dark di Relatives in Descent, un punto di non ritorno che ha raffinato l’approccio compositivo poi sublimato in Ultimate Success Today.

Uno stile diretto e amabilmente ostico che permane tutt’ora inconfondibile nella sua immediatezza, nonostante qui risulti decisamente più elaborato e maturo grazie al ricorso a synth e strumenti inusuali e improbabili per un sound allarmante e abrasivo come quello dei Protomartyr, a partire da una rassicurante steel guitar usata spudoratamente in contesti noise. Un risultato che premia il lavoro superlativo di Greg Ahee in qualità di produttore. Complice lo studio di ricerca strumentale con le colonne sonore di cortometraggi coltivato durante i tempi morti della pandemia, il suo ottimo e appropriato gusto si riscontra non solo nelle fondamentali parti dello strumento che suona, ma anche nell’apparato compositivo tout court, allestito con un convincente intuito d’insieme grazie all’aiuto di Jake Aron, già dietro ai master di Snail Mail, Rahill, Solange e molti altri

Ma non c’è stato solo il Covid di mezzo. Casey ha perso la madre malata di Alzheimer. Si è sposato e, dopo esser stato vittima di svariati furti a ripetizione nell’appartamento in cui risiedeva, ha fatto armi e bagagli e si è trasferito nella sua vecchia casa di famiglia, fuori dal centro. Senza contare che oggi ha 46 anni e sapete cosa succede, a una certa età, alle persone inclini a vedere il bicchiere mezzo vuoto, prima di berlo. In un posto come Detroit, per giunta. I testi dei Protomartyr sono sempre più tele dai soggetti appena accennati da un tratto sferzante, scene in cui la sensibilità poetica e il realismo prosaico si confondono in un paradosso narrativo, in perfetta linea con i sussulti scombinati di armonie del tutto inusuali per gente di questo pianeta e in questa fase storica.

Il risultato, sono parole di Casey, è un testamento in dodici canzoni per andare avanti con la vita anche quando sembra impensabile. I Protomartyr però sono una vera band, nell’accezione sociale del termine. Una comunità consapevole delle sfide reciproche, in grado di mettere a fattor comune le debolezze dei singoli per l’accrescimento collettivo. Questo spiega la costante interoperabilità degli elementi che compongono la loro musica, sia che i testi presentino invettive politiche contro i rischi del tecno-capitalismo, sia che riguardino riflessioni sul diventare vecchi, aver paura del domani, o anche solo per parlare d’amore.

Formal Growth In The Desert vanta infatti anche il merito di contenere quella che probabilmente è la più bella canzone di tutte quelle composte dai Protomartyr nella loro storia, e non è un caso che “Rain Garden” sia stata messa a compendio di una tracklist studiata per un climax che lascia senza fiato. Diranno che è solo una canzone d’amore, è la premonizione di Joe Casey. Amore mio, fai strada al mio amore e baciami, baciami prima che vada via, sembra implorare. Ma il disco termina, Casey e soci se ne vanno sul serio, e ci lasciano attoniti e stupefatti, travolti da un fiume in piena. Ci chiediamo allora se sia vero: anche i Protomartyr hanno un cuore. Un punto di partenza, e un punto di arrivo. Si approda qui lungo una scalata alla perfezione in cui, una canzone dopo l’altra, si celebra l’ascesa verso un piano sempre più inaccessibile del precedente, passaggi propedeutici ad affrontare l’impervio stadio successivo.

I Protomartyr si confermano così uno dei progetti che meglio interpreta i tempi in cui viviamo con un’ottica, quella dell’occidente dai giorni contati, che non lascia scelta. Il paradosso di vivere, produrre e consumare sempre più a lungo, i rischi di perdita e di fallimento che crescono esponenzialmente, la serenità che siamo costretti a trovare in tutto questo. Formal Growth In The Desert è un album fuori dal comune, un formidabile atto di dolore, un’opera eccezionale così completa da prevedere persino, ma solo in chiusura e a sorpresa, un insperato barlume di speranza nel deserto interiore e globale in cui è stata ambientata.

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Rahill – Flowers At Your Feet

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Se, come è successo a me, vi ha colpito la presenza di Beck nel singolo “Fables” che ha preceduto l’uscita di “Flowers At Your Feet”, rimarrete sorpresi dallo stile originale e genuino di Rahill. Una dozzina di canzoni raffinate, contraddistinte da un approccio unico, in grado di mettere d’accordo i nostalgici degli anni novanta e chi apprezza le cantautrici indie di nuova generazione.

Flowers At Your Feet è uno di quei dischi che ti prendono per mano per condurti a spasso nel mondo immaginario di chi li ha composti. Un variopinto paese delle meraviglie dove, varcato lo specchio, ci si inoltra nella memoria dell’artista, un luogo popolato da ricordi intimi e ritratti di famiglia. Una sensazione di totale libertà compositiva che si propaga in un ambiente velatamente solare permeato da un moderato retrogusto di malinconia fanciullesca. Il non plus ultra per chi si diletta con la musica indie e per tutti quegli ascoltatori che, con una nuova stagione estiva alle porte, preparano un rifugio all’eccessiva esposizione alla felicità diffusa. Tutto questo grazie a un timbro sottile a tinte soul e un sound che mescola perfettamente una certa estetica sixties con l’eclettismo figlio di quel modo di giocare con i sampler in salsa lo-fi, molto popolare a cavallo tra gli anni novanta e il duemila.

Non è un caso che tra i mentori dell’album d’esordio solista di Rahill, poliedrica artista di Brooklyn già cantante della band garage-rock Habibi, ci sia Beck, che di quel movimento di transizione e raccordo tra il secolo breve e questo (che si profila brevissimo) è stato il socio fondatore, il presidente onorario e il capocannoniere. L’autore di Loser firma la sua featuring nel singolo “Fables”, traccia che non sfigurerebbe in un mashup con  “Devils Haircut”, e non solo perché basata sullo stesso bpm e costruita con uno di quei breakbeat di batteria campionati da chissà quale bootleg di James Brown.

Ma questo è solo uno degli aspetti che trasmettono la naturalezza della musica di Rahill Jamalifard, il cui nome completo svela le origini iraniane e giustifica il suo legame con il background culturale in cui è cresciuta artisticamente, dalle filastrocche in farsi di nonne e zie ai negozi di dischi usati di Brooklyn. Il suo stile apparentemente swinging e strampalato si sposa perfettamente con un approccio contemplativo e introspettivo alla narrazione autobiografica. Il risultato è un album che sorprende per l’equidistanza tra nostalgia e contemporaneità e tra i vari rimandi ai generi musicali rivisitati che qui sublimano in un eclettico (quanto indefinibile) indie-pop.

Se vi parte la prima traccia mentre reggete ancora in mano la copertina del disco, non vi stupirà scoprire come “Healing” possa aspirare ad avere come perfetto visualizer la tenera foto di Rahill da bambina, appena uscita dal bagnetto e avvolta negli asciugamani, scelta per l’artwork. Un tema ripetuto di archi accompagnato dal ritmo delle spazzole leggere sul rullante e dalle registrazioni di voci di una mamma e una figlia in fasce, una scena che non abbiamo dubbi a ricondurre a un momento di intimità rubato a un filmato amatoriale di quotidiana genitorialità.

“I Smile For E”, sullo stesso registro di “Fables” e di “Futbal”, altro singolo pubblicato nelle scorse settimane, si coglie in tutta la sua leggerezza grazie all’accompagnamento scarno a supporto della melodia, pronto ad arricchirsi sul finale di una trascinante sezione fiati, e grazie a quel du du du du du du du di voce nel ritornello, quasi un cliché della canzone scanzonata. “Tell me” è un invece un reggae destrutturato che, ai tempi degli Sneaker Pimps, non avremmo esitato a catalogare come trip-hop. Un corposo giro di basso che si snatura nel dub della strofa per poi culminare nella distorsione usata lungo i ritornelli, il tutto imbellettato da rumori elettronici e repentini cambi di loop.

Grazie a questi episodi risaltano così anche i brani meno danzerecci, come la lenta “From A Sandbox”, o “Hesitations”, in cui si amalgamano perfettamente chitarre riverberate, divagazioni di flauto e manipolazione digitale. Non manca un pizzico di psichedelia, presente in “Gone Astray” e nelle rarefatte “Nazila” e “Ode To Dad”, sincere suite per ricordi e vibrafono o poco più che sapranno come commuovervi. Superlative anche le venature jazz e r’n’b di “Rise So I Rose”, “Bended Light” e “Note To Self”, di sicuro il singolo che verrà, la traccia di chiusura perfetta per un disco in quanto egregia sintesi di tutto quello che l’ha preceduta e impreziosita da un andamento raffinato che ci ricorda certe hit dei Morcheeba.

Malgrado Flowers At Your Feet sia l’opera prima di una nuova talentuosa cantante, si lascia cogliere come un album incredibilmente maturo ma senza compromessi in freschezza e spontaneità. Un disco che permette a Rahill di presentarsi nel migliore dei modi: una compositrice dalle idee chiare, versatile e determinata, in grado di padroneggiare differenti stili e di adattarli a una creatività fuori dal comune.

Kara Jacskon – Why Does The Earth Give Us People To Love?

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Ascolti Kara Jackson e rimani folgorato. Poi la vedi e ti bruci la seconda volta. In “Why Does The Earth Give Us People To Love?” si fondono senza ritorno poesia e musica, impegno e bellezza, amore e morte.

Il National Youth Poet Laureate è il riconoscimento annuale di cui viene insignito il giovane statunitense che più si è distinto nella poesia o nell’arte dello spoken word, dimostrando impegno nei temi della giustizia sociale e dei diritti civili. Noi iniziative di questo tipo non possiamo nemmeno immaginarle, vi basti sapere che ad aggiudicarsi la prima edizione, nel 2017, è stata Amanda Gorman, la poetessa che poi è stata chiamata a declamare i suoi versi alla cerimonia di insediamento di Joe Biden (mentre qui da noi, in un’occasione del genere, per dire, avrebbero invitato a fare uno show gente del calibro di Albano o Bocelli).

Nel 2019 il premio è andato invece a Kara Jackson. E senza nulla togliere alle altre vincitrici – so che non c’entra, ma un’altra cosa che vi lascerà di stucco è che al primo posto di questo concorso si sono sempre classificate solo ragazze, peraltro tutte decisamente incantevoli – la sua esperienza ci insegna qualcosa. Se vi dilettate con i versi, fate come Kara Jackson: imparate uno strumento musicale, uno qualsiasi, possibilmente funzionale ad accompagnare le vostre rime. Vi riserverà delle sorprese.

Kara Jackson vive a Oak Park, un sobborgo di Chicago sede di una vivace scena artistica, ma le sue radici richiamano il profondo sud, un fattore di appartenenza che connota drasticamente il suo lavoro. In un’intervista sostiene di non riuscire a raccontarsi senza raccontare chi è suo padre, nato e cresciuto a Dawson, Georgia, un paesello grande non più di un sasso che però per lei assume il significato di posto più importante del mondo. Non può fare nulla senza pensare dove si trova e come non si troverebbe dove si trova senza le persone che l’hanno preceduta. Dawson, aggiunge, è anche la prova che la cultura può nascere negli angoli più piccoli e remoti della terra e dice di sentirsi turbata dalla leggerezza con cui siamo soggetti a ignorare quegli spazi.

Da adolescente notava quanto l’audacia con cui si autodefiniva poetessa mettesse a disagio le persone e inducesse gli adulti ad attivarsi in una forma di controllo per farla desistere, in qualche modo. Ingerenze che, per fortuna, hanno sortito l’effetto contrario. Kara Jackson ha intuito di essere sulla strada giusta e ha cominciato a fare sul serio, come poetessa prima e come songwriter ora.

Per questo è estremamente audace discernere in Why Does The Earth Give Us People To Love?, il suo album d’esordio, la musica dalla poesia. Vi sfido a distinguere le parole dai suoni lungo le 13 tracce – o componimenti, chiamateli come volete – che formano questa raccolta – o disco, chiamatelo come volete.

Dal punto di vista musicale, vi sorprenderà scoprire l’ingenuità con cui la componente sonora viene usata a seconda delle esigenze liriche. Prendete “no fun/party” e la moltitudine che contiene. Uno struggente primo blocco in cui, davvero, non c’è niente da ridere, tanto meno nei paradossi delle relazioni amorose quando sono cantati così, con la nuda voce profonda e ruvida di Kara Jackson, a volte persino piacevolmente in bilico nell’intonazione, accompagnata da un arpeggio di chitarra. Poi, all’improvviso, due accordi strappati messi apparentemente a caso a spezzare il racconto, come il bumper di un intervallo pubblicitario qualunque, e si passa al secondo tempo, con l’ukulele e la voce filtrata da un effetto-scatoletta, quello che si usa per simulare i registratori fai da te. E anche la distratta sfrontatezza con cui la cantautrice inserisce nella tracklist canzoni da sei o sette minuti, un vero azzardo nell’era dei disturbi dell’attenzione, conferma la sua totale volontà di dissociarsi dagli stereotipi dell’industria musicale.

Un poeta, al contrario, vi farà notare tutte le volte in cui la scelta delle parole risponde a necessità ritmiche e melodiche. Su tutte, “Why Does The Earth Give Us People To Love?”, il doloroso commiato della lettera di addio alla compagna di liceo Maya, morta a sedici anni sopraffatta dal cancro. Una domanda con la d maiuscola che non dà solo il titolo a canzone e album. Come per tutto il resto, non c’è risposta. Ci immaginiamo così Kara Jackson e la sua amica cantare a due voci per l’eternità, Maya sulle note acute e Kara su quelle più basse e adatte al suo timbro, fino alla fine, come promesso, come le amiche che lo sono per sempre e ci vuole ben altro per separarle. La terra ci dà persone da amare e poi ce le toglie ma noi possiamo continuare a ricordarle proprio così, come un controcanto, due linee di melodia parallele che si librano con agilità, costantemente distanti una manciata di toni l’una dall’altra.

In tutta questa densità emotiva, profondità di affetti e concentramento di angosce, il rischio è di perdersi episodi per nulla secondari, come “curtains” o “brain”, in un album in cui non c’è un istante di leggerezza, se non tutti i titoli delle canzoni privi dell’iniziale maiuscola. Le due rapide parti di “recognised”, qualche spaccato di vita amorosa e rapporto con gli uomini in “therapy”, “free”, la bellissima “pawnshop” e l’eloquente “dickhead blues”, la cui coda ha il miglior arrangiamento strumentale del disco. Poi c’è “lily”, ancora sul legame femminile, l’intesa e la complicità. Per non parlare della storia di “rat” e del cupissimo whisky di “liquor”, i superalcolici come seconda scelta di chi non si può permettere l’amore.

Fino a quando il southern folk blues di Why Does The Earth Give Us People To Love?, un’esperienza d’ascolto appagante e totalizzante in un modo che non si può nemmeno immaginare, come tutte le cose, si conclude. Kara Jackson ha 23 anni ma l’impressione è che abbia capito e visto tutto, che abbia vissuto così a lungo da arrivare fino alla fine e fare il giro e tornare al presente. Ha da insegnarci moltissimo della vita, della solitudine, dell’amore, del dolore, della morte. La sua capacità di osservare le cose da due angolazioni, quello della poesia e quello della musica, sempre che riusciate a scinderle, non è da tutti. C’è un’insoddisfazione di fondo, una sofferenza mai sopita, una curiosità senza tempo che spinge Kara Jackson a cogliere, un brano dopo l’altro, l’essenza di quello che prova per poi riproporlo in un modo unico.

E come voi anch’io, al primo ascolto, confesso di aver avuto la stessa sensazione provata con il disco d’esordio di Tracy Chapman, oggi come allora opere incontrate per caso in un momento di grandi ripensamenti e di dubbi senza soluzione. E, proprio come quel capolavoro, anche Why Does The Earth Give Us People To Love? ha tutte le carte in regola per imporsi come uno spartiacque epocale, o più semplicemente un buon compagno di viaggio a cui affidarsi quando si perde il senso dell’orientamento.

Altın Gün – Ask

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Tornano gli Altin Gün ma tornano alle origini. “Ask” è un gustoso potpourri di rivisitazioni della tradizione folk turca. Se si perde un po’ della frizzante sperimentazione a cui ci hanno abituati, si guadagnano elementi utili alla comprensione di una cultura e dello spirito di un popolo.

Se vi va di cimentarvi un po’ con il rock-pop anatolico nel suo periodo d’oro, indicativamente a cavallo tra gli anni 70 e gli 80, il divertimento è assicurato. Il punto è che ciò che ci intriga, di questo genere, probabilmente è frutto di un retaggio del nostro pregiudizio eurocentrico per il quale, da Trieste in là, tutto ci risulta esotico. A questo si aggiunge la tendenza che abbiamo nel misurare il grado di psichedelia di ciò che ascoltiamo in una scala con valori direttamente proporzionali alla distanza tra noi e l’India. Costruzioni armonico-melodiche, strumenti impiegati e tecniche di esecuzione, ritmi inusuali per i nostri quattro quarti standard, strutture disordinate rispetto ai nostri rigidi schemi strofa strofa ritornello strofa cambio ritornello, fonemi impronunciabili. Ascolti di questo tipo ci destabilizzano fino a farci perdere l’equilibrio, un vero e proprio trip. E se volete sapere il mio punto di vista, comunque è molto meglio questo che la tecnica opposta, cioè la musica etnica dell’est extraeuropeo adattata ai canoni pop occidentali, in pratica quello a cui siamo esposti ogni anno quando va in onda l’Eurovision Song Contest, manifestazione canora oggi tanto social ma unicamente per gli stessi motivi che ci siamo detti sopra. Tutto bello e folcloristico quello che proviene dall’estero, ma poi, a fine serata, meglio che ciascuno rientri a casa propria.

Un vicolo cieco in cui gli Altin Gün hanno trovato una via d’uscita. Difficile capire se, a scardinare i luoghi comuni sul rock anatolico, sia il fatto che la band è di stanza ad Amsterdam e che è composta da musicisti turchi solo per quattro sesti.

Giunti al quarto long playing, quinto se consideriamo anche Âlem, album pubblicato solo in digitale durante il lockdown e, in seguito, immolato alla causa del supporto alle popolazioni turche e siriane colpite dal terremoto, gli Altin Gün si confermano capaci di diffondere un sound tipicamente anatolico ma permeato di funk, elettronica, rock d’antan e tanta, tanta psichedelia. Il bello è che lo fanno con totale naturalezza. Nella loro produzione difficilmente vi sentirete appesantiti da forzature, nemmeno nei brani dei dischi composti e registrati a distanza durante la pandemia.

Il titolo del nuovo album è Ask, parola che Google Translate mi rende in “Amore”, e se fosse così sarebbe bellissimo perché traduce tutta l’attrazione centripeta per la propria terra di origine. Le dieci tracce di cui si compone sono infatti brani della tradizione popolare rivisitati in stile Altin Gün, ovvero corredati da una serie di finezze delle quali si può godere doppiamente alternando l’ascolto di ciascuna canzone con il proprio alter ego originale interpretato da un o una cantante turca in carne e ossa (basta un semplice copia/incolla del titolo nella barra di ricerca di Youtube).

Mettendo a confronto le due versioni vi sarà possibile infatti cogliere in pieno le potenzialità artistiche degli Altin Gün: “Badi Sabah Olmadan” remiscelata come una b-side dei Cure dei tempi di Seventeen Seconds. “Su Siziyor” e “Leylim Ley” arrangiate con giri di basso dub su ritmiche funk. “Dere Geliyor” nel caratteristico bilico precario provocato dai suoi 9/8 fino alla cavalcata indomita del solo di sintetizzatore, strumento ancora protagonista in “Çit Çit Çedene” in una articolata improvvisazione finale.

La psichedelia torna protagonista nel riff grunge-stoner di “Rakiya Su Katamam”, mentre con “Canim Oy” i tentacolari tempi dispari sono in grado di fare da mantra e liberarci in mistiche rotazioni da dervisci. “Kalk Gidelim” sdogana senza pudore persino la chitarrina in levare che introduce al reggae, mentre con “Güzelligin On Para Etmez” il tempo si ferma in preghiera, una pausa introspettiva per tornare in pista più freschi che mai con il sound disco-rock fine anni 70 di “Doktor Civanim”, la traccia conclusiva quasi in stile Giorgio Moroder.

Gli Altin Gün giocano in Ask tutte le migliori carte per confermare il loro ruolo di Tame Impala dello psych-pop anatolico, consapevoli che per dimostrarsi innovativi con un repertorio del passato occorre giocare d’intelligenza per non cadere nella banalità del tributo fine a se stesso. L’alternarsi della voce femminile di Merve Dasdemired a quella maschile di Erdinç Ecevit Yildiz contribuisce in modo decisivo a sventare i rischi della ripetitività.

È vero, mancano i registri synth pop delle produzioni precedenti, ma l’assenza dell’elettronica retro in Ask è magistralmente compensata dal cuore, quindi va benissimo così. Pensate a come sarebbe difficile un’analoga operazione qui da noi, solo l’idea – del repertorio da modernizzare e di chi potrebbe candidarsi a farlo – mi fa provare imbarazzo e desiderio di chiedere venia in anticipo al mondo intero.

Il fatto che Ask sia invece un album perfettamente riuscito significa che le canzoni della tradizione turca sono costituite da un materiale adatto a operazioni di revamping e di riciclo, già pensate in fase di progettuale per essere estranee in ogni tempo, e che gli Altin Gün sono davvero dei campioni nella loro specialità, quella di essere estranei in ogni luogo.

The National – First Two Pages of Frankenstein

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Meglio di un disco dei The National c’è solo un disco dei The National che smentisce le voci che li davano per spacciati, finiti, kaputt. Per alcuni è uno scenario che non si può eludere. Per altri sono solo un po’ giù di morale ma, a giudicare da questo “First Two Pages Of Frankenstein”, tutto sommato in gran forma. Io, al loro scioglimento, non voglio nemmeno pensarci. Che mondo sarebbe senza i The National?

Il giorno in cui i The National daranno forfait, i social saranno un luogo da evitare come la peste. Io spegnerò pc e telefono non tanto in segno di lutto quanto per tenermi alla larga dai coccodrilli di chi speculerà sulla caduta della band indie più influente nel panorama musicale di questo quarto di secolo.

Vi dico solo che ho perso il conto di quanti ellepì hanno pubblicato e da quanti anni sono attivi. Non saprei dire qual è il loro album che preferisco, con quale canzone li ho scoperti o quale sia il concerto che mi ha entusiasmato di più. Quante volte ho messo i loro dischi e di quali ho scritto la recensione. Sento un loro brano e faccio fatica persino a collocarlo cronologicamente, a ricondurlo all’album in cui è contenuto. I The National fanno parte di me, e se succede lo stesso per voi sapete bene a cosa mi riferisco. Come per il popolo di Springsteen o, in Italia, la fanbase di Vasco. In modalità differenti e su presupposti diversi, i The National sono i nostri beniamini per difendere i quali siamo pronti a farci esplodere. Dopo di loro, nulla sarà come prima.

Qualcuno tenterà di convincervi del contrario, alludendo a Matt Berninger che probabilmente si metterà al lavoro per il sequel di Serpentine Prison, o a Aaron Dessner che sarà sempre più richiesto come produttore dopo le fruttuose collaborazioni con Taylor Swift, Ed Sheeran, i Big Red Machine e gli svariati interpreti che beneficiano del suo approccio pessimistico e folk all’arrangiamento pop. O ancora al gemello Bryce, che ora vive in Francia e che continuerà ad approfondire le sue ricerche nel campo della musica classica e ai fratelli Devendorf, con i loro incastri ritmici unici al mondo prestati ai dischi altrui.

Abbiamo trascorso tutto questo tempo che è passato da quel capolavoro che è stato I Am Easy to Find divorati dall’angoscia. In mezzo c’è stata persino una pandemia mondiale che ha fatto piazza pulita di quel poco di ottimismo che sopravviveva tra le persone normali, figurarsi per gente incline alla depressione come i The National. Ma la materia prima di cui sono composti, a differenza di altre band di primedonne, ha fatto la differenza. Se i The National si scioglieranno, parole che non riesco nemmeno a pronunciare proprio come Fonzie quando doveva ammettere di essere in errore, sarà perché semplicemente si è consumata l’ispirazione. Nessuno scazzo, nessun battibecco tra musicisti adulti che hanno percorso insieme un lungo cammino, nessun desiderio di maggiore visibilità o di ripartizione dei ruoli o, peggio, questioni economiche. Solo e semplicemente vita che ha fatto il suo corso, un ciclo comune che investe in modo naturale gli esseri viventi.

È Matt Berninger stesso a confermare che ci sono andati davvero vicini, questa volta. Come mai avvenuto in precedenza, tra di loro si è diffusa la percezione che le cose fossero davvero giunte al termine. Poi è accaduto qualcosa che, se non fosse profondamente umano, diremmo che ha del miracoloso. La forza per continuare i The National l’hanno circoscritta all’interno della band. Ogni membro ha fatto da supporto per gli altri del gruppo e ha permesso ai compagni di viaggio una base di sostegno, una rete di solidarietà artistica e umana che ha contribuito a ribaltare la prospettiva. Un terreno fertile da coltivare con abnegazione, da cui hanno preso vita le nuove canzoni.

Una delle prime cose che ti insegnano ai corsi di scrittura creativa è che, per imparare a scrivere, bisogna saper leggere. Matt ha superato il blocco compositivo proprio grazie all’incipit del classico noir di Mary Shelley, da cui è stato tratto il titolo del concept. I cinque nel frattempo hanno continuato a frequentarsi, a suonare dal vivo e a circondarsi del loro entourage popolato da intellettuali del calibro di Sufjan Stevens, Phoebe Bridgers e Taylor Swift a dare, più che un contributo artistico, un supporto morale. Amici che intervengono quando c’è bisogno. Forse sono questi i presupposti da cui è scattato quel qualcosa di cui non siamo al corrente ma a cui saremo eternamente grati. I The National sono tornati al punto di partenza, e lo hanno fatto al meglio delle loro possibilità.

Detto ciò, ecco tre cose fondamentali per comprendere appieno questo disco. La prima: First Two Pages of Frankenstein ha un’impronta fortemente cantautorale, nell’accezione che intendiamo noi in Italia. Più di ogni altro dei loro lavori precedenti, qui la band si è messa completamente al servizio delle liriche e del ruolo di Matt Berninger. Troverete pochissime aperture strumentali, code o soli. Le ritmiche sembrano volutamente defilate, pronte a togliere il disturbo e a sospendersi per rendere ancora più incisiva la narrazione dei testi e aumentare la meraviglia di trovarsi da soli con la voce e poco più.

Le parole, infatti – e questa è la seconda – mai come in questo disco sono importantissime. Decisive. Matt Berninger è unico nell’arte di fermare immagini di solitudine, di coppia e di solitudini di coppia nei suoi versi. Gli arrangiamenti del resto della band aggiungono valore alle canzoni, scavando nella materia tutti gli spazi funzionalmente ricavati per le liriche. Ed è qui che si sprigiona la magia. Dalle tracce prende vita una serie tv a episodi, una raccolta di racconti pervasi di realismo a fornire un’esperienza d’ascolto che non ha confronti. Troviamo tentativi di ricucire storie in bilico, seduti a bordo di una piscina. Ci sono liste di cose da distribuirsi in due quando ci si separa, compresi i dischi dei Cowboy Junkies e degli Afghan Whigs. Si intravedono pacchetti aperti di American Spirits e scorci di intimità, con amanti vestite solo da una maglietta dei New Order, un gatto in braccio e in mano un bicchiere di birra. Si percepisce l’ottimismo fuori luogo di quando non c’è più niente da fare. Si sente il rumore del mondo nelle notizie che scorrono sullo schermo touch di uno smartphone, e il silenzio tra persone che non hanno più nulla da dirsi. Si assiste a meccaniche dichiarazioni d’amore al tavolino a fianco, in un diner qualsiasi. Si controlla insieme l’elenco delle cose di cui possiamo fare a meno, e si può essere d’accordo su tutto ma non sull’importanza di un buon impianto stereo. E c’è un viaggio nella testa dello scrittore, quando fa cilecca e non ne vuole sapere di collaborare, complice l’immaginazione che non si schiera più dalla nostra parte. Sotto, gli echi delle raccomandazioni di Carin Besser, compagna di vita di Matt che, amorevolmente, gli ricorda che la mente non è sempre nostra amica.

Dalla loro posizione di band più rappresentativa dei nostri tempi, i The National – artisti più che maturi all’apice della loro carriera – avrebbero potuto manifestarsi con tutta la loro sicurezza e la loro maestria compositiva (cosa che alcuni di loro fanno già abitualmente per altri interpreti), dare alle stampe un disco ancora più caratterizzante dei loro lavori precedenti, e consacrarsi definitivamente per ciò che sono. Quello che traspare, invece, è la sincera ammissione della fragilità del loro equilibrio, in un momento in cui non sarebbe stato possibile nasconderlo. Fare finta di nulla sarebbe stato un fiasco. Ed ecco, quindi, la terza cosa, ma l’avrete capito anche voi, se mi avete seguito fino a qui. First Two Pages of Frankenstein è il disco migliore dei The National. Il migliore, almeno fino al prossimo.

Petite Noir – MotherFather

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Petite Noir ritorna sulle scene dopo cinque anni di assenza con un disco magnifico. “MotherFather” – fusione di maschile e femminile in un solo genere artistico in grado di esprimere tutto – è pervaso da una straordinaria ecletticità stilistica a corredo di una poetica ispirata e una spiritualità profonda.

Se nessuno vi ha ancora introdotto a Petite Noir, potete cominciare recuperando la discografia precedente a questo nuovo disco, tanto si fa in fretta: l’EP The King of Anxiety e il sorprendente esordio sulla lunga durata, l’album La vie est belle/Life Is Beautiful, pubblicati a qualche mese di distanza l’uno dall’altro nel 2015. Due dischi a cui ha fatto seguito il mini-LP La Maison Noir/The Black House, uscito nel 2018.

L’aspetto che colpisce di più è l’attitudine di Petite Noir a mantenere l’originalità compositiva indipendentemente dagli stili a cui le sue canzoni sono riconducibili. Una qualità palindroma, passatemi il termine, nel senso che non si corre il rischio di sbagliare a pensarla al contrario: modelli eterogenei di musica che calzano in perfetta naturalezza con la sua poetica e la sua estetica di gran classe. Per questo, rimasto a digiuno delle sue produzioni per cinque anni, ho avuto tutto il tempo per riflettere sul fatto se si possa considerare (non paragonare, sia chiaro) Yannick Diekeno Ilunga – questo il suo nome completo – a una sorta di David Bowie panafricano. Con MotherFather, la sua ultima produzione, anche Petite Noir si conferma infatti un musicista alternativo non condizionato dalle proprie origini e dal proprio passato, totalmente libero e pienamente consapevole di sfuggire a qualunque categorizzazione.

Di sicuro, è raro trovare una personalità artistica fuori dagli schemi e così marcata da risultare inconfondibile, qualunque accompagnamento abbia sotto. Il fatto è che nella musica di matrice africana (potremmo usare l’aggettivo black se, nell’accezione a cui siamo più esposti, non costituisse quasi una esclusiva della cultura americana) Petite Noir non teme confronti. Ovunque, nel suo repertorio, riconosciamo le radici electro-afrobeat di ultima generazione e un timbro unico, a sostegno di un miscuglio che suona come una specie di r’n’b dagli echi post-punk, con chitarre ai confini con il metal e atmosfere dalle tinte scurissime. Abbinamenti che ci rendono perfettamente il concetto di noirwave, la definizione che Petite Noir ha coniato per dare delle coordinate a quello che fa, in un impeto di lucidissima e più che giustificata autoreferenzialità.

I genitori di Petite Noir hanno origini congolesi, uno dei cinque posti più poveri della Terra con l’aggravante di una società tramortita da un primitivo conservatorismo ultracattolico. Petite Noir però è un privilegiato. Il mestiere del padre gli permette di nascere a Bruxelles. Da lì crescerà in Sudafrica per poi finire col vivere tra Londra e Parigi. Un cittadino del mondo a tutti gli effetti che non può che suonare la musica del mondo, uno stile la cui traduzione letterale – world music – in questo caso può trarre in inganno e risultare riduttiva.

D’altronde i confini del continente africano coincidono con quelli del mondo stesso, se consideriamo la diaspora e la dispersione a cui vecchie e nuove schiavitù hanno costretto i popoli nati laggiù, nel corso della storia. Spostarsi altrove è stato il destino di molti, ma gli africani sono forse gli unici a cui non è stato permesso di colonizzare nulla. L’aver fortemente condizionato la musica degli ultimi due secoli – magra consolazione, lo so – ha comunque favorito il raggiungimento di una meritata e indiscutibile egemonia, quella sonora (e ritmica, va da sé) sul resto del mondo.

Si ritorna così al punto di partenza, e cioè che Petite Noir è una delle cose più interessanti nel panorama artistico attuale, che MotherFather si candida a disco dell’anno e che se, invece, non lo conoscete e dovete cominciare da qui, fatelo con la traccia #7 del nuovo album, “Simple Things”. Un brano che condensa i cardini dell’arte compositiva di Petite Noir: voce piena che si alterna al falsetto; sound che mescola elettronica a jazz, qui grazie alla sezione fiati diretta dal trombettista Theo Croker; successione di accordi che potrà risultare utile a orientarvi con dimestichezza nel resto della sua produzione. E, poco prima, troverete un secondo featuring a impreziosire l’album, la cantante zambiana Sampa The Great, che presta il suo rap a un’altra perla di questo disco, “Blurry”, uscita come singolo un paio di mesi fa e riconoscibilissima per l’intro in chitarra lo-fi.

MotherFather è frutto di un percorso a ritroso che Petite Noir compie lungo le sue esperienze personali con il razzismo, sperimentato sulla propria pelle durante la sua infanzia a Johannesburg, e con il tema della separazione nell’amore. In dieci canzoni il disco esalta il paradosso della musica, un linguaggio sofisticato e intimo per tradurre nella piacevolezza dell’ascolto anche gli stati d’animo più scomodi e controversi. Pensate infatti a che significato possa avere la fusione in un concetto indistinto (MotherFather, appunto) dei due poli ai lati opposti della vita: se c’è un creatore è maschio e femmina e entrambi i genitori allo stesso tempo, altrimenti che senso avrebbe. Fondamentali anche “Numbers” (la mia preferita) e “Finding Paradise”, due momenti a ridosso di un sound e di una poliritmia riconducibile all’afrobeat, mentre la struggente “Love Is War” e l’effimera “Play” riportano il mood del disco alla libertà espressiva a cui l’artista ci ha educati.

Nel suo nuovo lavoro, Petite Noir si inabissa con determinazione verso scomodi e graffianti richiami ai suoni più ruvidi, per poi risalire con disinvoltura e sublimare in rarefatte atmosfere rituali, tra trance e preghiera, liberandosi dai canoni dell’artificiosità per sposare una purezza senza confronti, consolidando il suo approccio trasgressivo e dimostrando che nella musica nata nell’Africa del terzo millennio si può trovare di tutto perché tutto, davvero, proviene da lì.

Daughter – Stereo Mind Game

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Il ritorno dei Daughter è la colonna sonora dell’equivoco di fondo dei tempi che corrono: viviamo a distanza nella speranza di rincontrarci ma ci facciamo bastare l’idea di farlo. Ci appaga di più e ci protegge dalla paura di rimanere delusi.

Potrebbe essere la trama di una di quelle serie tv in cui ci piace affogare compulsivamente il nostro senso di inadeguatezza alla vita contemporanea. In un presente distopico la musica è materia a tutti gli effetti, ma in forme che non riusciamo a cogliere. Si trova in quello che mangiamo, nell’aria che respiriamo, nelle cose che vediamo. Le persone più sensibili hanno qualche effimera reminiscenza o poco altro. “Io ti ho già visto da qualche parte”, si dicono quando si incontrano, e si allontanano fischiettando il solo di “Smells Like Teen Spirit”. “Dove ho già percepito questo odore?”, pensano con il naso per aria, senza però mettere a fuoco nulla di concreto, ma che c’entra qualcosa con i Massive Attack. Osservano il panorama sfuggente dal finestrino di un treno in corsa, provano una sensazione di già sentito ma non riescono a isolarla a fondo, forse un video dei Chemical Brothers. Solo un gruppo di nerd, una specie di setta ai margini dell’economia, riesce a separare sottobanco la musica dal resto e a organizzarla in canzoni attraverso dispositivi (a corde, a fiato, a tastiera) di cui solo loro si tramandano la tecnica. Conoscono anche il segreto di fermarla e fissarla su un supporto ed ecco che la musica può essere divulgata e compresa dalla gente comune. Il senso è che le canzoni sono sempre esistite, da qualche parte e in qualche tempo. Semplicemente non siamo abbastanza evoluti da accorgercene. Fine.

Anzi, no. Prendete il nuovo album dei Daughter. Le tracce di cui è composto ci sono sempre state. Le abbiamo ascoltate più volte, negli ultimi trent’anni. Ma solo ora che sono state definite con un inizio e una fine e codificate in una forma da noi decodificabile, ci viene chiesto di ascoltarle per la prima volta, ed ecco che ci viene da dire che no, non è vero. Stereo Mind Game fa parte della nostra collezione di dischi da sempre. Ma come fare a provarlo?

Possiamo procedere per tentativi. Il fatto che la band sia riconducibile a un genere che si chiama dream-pop non vale. Sarebbe riduttivo banalizzare un gesto di così profondo valore artistico alla sola dimensione onirica. A mettere in discussione le leggi della fisica nei sogni siamo capaci tutti. Lasciamo stare anche il gioco delle somiglianze a tizio o a caio. Ok, anche nei Portishead e nei Cocteau Twins ci sono gli archi, un incedere rallentato e una voce femminile, ma da voi pretendo di più. E il fatto che i Daughter si prestino alla sonorizzazione di videogiochi può essere rilevante, ve lo concedo. Ma non è solo questo.

Senza contare che i Daughter sono cintura nera di malinconia. Campioni del mondo di spleen. Eppure, non sono io a dirlo, rispetto a due titoli-manifesto dell’assenza come If You Leave e Not To Disappear qui c’è una vaghezza di ottimismo/realismo. Anni dopo l’ultima pubblicazione, Elena Tonra, Igor Haefeli e Remi Aguilella lavorano a distanza per scelta sul nuovo materiale. Poi la pandemia sovverte (a loro come a tutti noi) le priorità, ed ecco che mantenere i contatti in isolamento si consolida in metodo.

La musica d’insieme, che è un amalgama di voci, quando si ferma a mera somma delle parti si snatura, e non necessariamente con un’accezione negativa. La sfida è mantenere il controllo, rendere il risultato organico per quanto possibile. Ed ecco che, laddove non può esserci l’effetto che solo l’ascolto reciproco in tempo reale con gli strumenti in mano può conferire a un pezzo, il parziale sovvertimento dei canoni compositivi tradizionali ci apre le porte di un nuovo genere. Questo processo in cui si applicano in modo asincrono strati di cose l’uno sopra l’altro somiglia molto alla composizione di musica per film. E forse è questo che ci rende così famigliare Stereo Mind Game. Uno scherzo che ci gioca la nostra mente, facendoci credere che qui, in questo disco, ci siamo già stati. Non abbiamo traccia di quando, ma siamo sicuri di esser stati noi i protagonisti.

Il risultato è che in Stereo Mind Game il tema della separazione, dell’assenza e del desiderio di ritrovarsi è reso ovunque e in modo efficace. L’album ci accoglie con i bicordi di chitarra trattati con il delay di “Be On Your Way”, un approccio che mette l’ascoltatore nelle migliori condizioni per assumere la forma più adatta a quello che sta per accadere. Il pattern di batteria, un vero cliché del genere con tutti quei colpi in più di rullante che inducono alla sicurezza che il benessere che stiamo provando non ci lasci alla misura successiva, conferisce quel senso appagante di ciclicità e ipnotica ricorsività che poi è l’aspetto che più di ogni altro ci illude di far parte del ritmo a cui ci viene chiesto di abbandonarci, come in quei giochi in cui chiudiamo gli occhi e ci lasciamo cadere all’indietro consapevoli che qualcuno ci sorreggerà. Una tecnica sagace, ripresa magistralmente nella straordinaria “Swim Back” e, in maniera più sommessa ma altrettanto convincente nelle conclusive “To Rage” e, su tutte, “Wish I Could Cross The Sea”.

Ci sono poi tracce in cui i Daughter si propongono invece in un’anomala linearità ritmica che si riflette in una forma-canzone più scorrevole ma altrettanto angosciante, a iniziare da “Party”, da un verso della quale è tratto il titolo dell’album, fino ai turbamenti di “Junkmail” e alle domande senza risposta di “Future Lover”: come è il futuro? C’è abbastanza tempo? C’è spazio anche per brani riconducibili al folk etereo che abbiamo apprezzato nei dischi precedenti, come “Neptune”, il cui coro finale rasenta la perfezione, la quasi totalmente acustica “Isolation” e “Dandelion”, capace di accelerare i battiti e confermare che in velocità si riesce ad essere più sfuggenti nel modo di suonare e cantare musica indie-folk.

Il fiore pressato nella foto della copertina di Stereo Mind Game, una pratica per sognatori d’altri tempi, anni luce dai sospiri digitali che affidiamo agli algoritmi e alle intelligenze artificiali, incarna perfettamente l’anima di questo disco e degli anni controversi che ci stanno consumando. Noi, esseri umani lasciati soffocare come una pianta tra le pagine di un libro. Ciò che resta è solo la nostra forma priva dell’essenza a beneficio di chi lo sfoglierà o, peggio, come natura priva di vita, scelta a corredo di un erbario qualsiasi. A una decade esatta dal loro disco d’esordio, i Daughter ripropongono la loro poetica con una visione più matura, giustamente disincantata, ma ancora in grado di farci trovare rifugio in un altrove volutamente distante da qui.

Algiers – Shook

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Non dovremmo riflettere sul nostro peccato originale – quello di essere bianchi in un sistema economico, politico e sociale bianco – solo quando esce un nuovo disco degli Algiers. Il punto è che blues/rap e punk industriale, combinati insieme, li percepiamo ancora come una forzatura e ascoltiamo le loro canzoni permeati dal senso di colpa di non riuscire a considerarlo un genere a sé.

Siamo già al quarto disco ma, da quello che si legge in giro, si fa ancora fatica a non considerare ostico l’attrito provocato dalle graffianti melodie soul/black di Franklin James Fisher nell’istante in cui entrano in collisione con le basi così maledettamente noise/punk degli Algiers. Un approccio beffardamente recidivo che induce a una sola interpretazione: l’intento è far provare disagio all’ascoltatore. Mettere la gente in allarme. Farci evacuare dalla comfort-zone della trasgressione ordinaria.

Il punto è che anche il prodotto della musica più estrema, quando nella fase di confezionamento si mettono insieme cose differenti, risulta una sorta di miscuglio omogeneo, una soluzione in cui le sostanze sonore di partenza non si riescono più a distinguere. Per gli Algiers la cosa si fa più complicata perché siamo invece nell’ambito delle emulsioni: uno strato resta ben visibile in superficie e anche quando lo bevi – aggiungerei “soprattutto”, quando lo bevi – si distinguono perfettamente sul palato persino le quantità di gospel, di rap, di jazz, di R&B e i cubetti di spoken word. Non ci sono dubbi, da questo punto di vista. Nella discografia degli Algiers, “Shook” è probabilmente il più dissonante dei quattro, una scossa che fa tremare le ginocchia.

Non so a voi, ma per me questo non costituisce affatto un problema, anzi. L’apparente dicotomia tra bianco e nero è incisa a chiare lettere nel manifesto della band di Atlanta sin dall’omonimo disco d’esordio e se, a quasi dieci anni di distanza, siamo ancora a parlarne in questi termini, sarà per questa ragione che la loro musica, al momento, non teme concorrenza. Come loro, ci sono solo loro.

Smarchiamo subito gli onori di casa. “Shook” è un disco pieno di featuring così riuscite da far passare ai neofiti più sprovveduti gli Algiers come un collettivo, più che un quartetto. In ordine di apparizione c’è l’outro a parole di “Everybody Shatter” recitate da Big Rube, artista che poi ritorna a declamare il minuto e rotti di “As It Resounds”. Un paio di strofe e il rinforzo del ritornello di “Irreversible Damage” a cura di Zack de la Rocha. I contributi rap di Billy Woods e Backxwash ad aggiungere valore al capolavoro di “Bite Back”. I cori di Samuel T. Herring dei Future Islands e il rantolo di Jae Matthews dei Boy Harsher in “I Can’t Stand It”. I versi di LaToya Kent (una delle vocalist del collettivo Mourning [A] BLKstar) in “Born”. Il bridge in egiziano di Nadah El Shazly in “Cold World”. Il sax di Patrick Shiroishi e la voce di DeForrest Brown Jr. in “An Echophonic Soul”. La coda della traccia di chiusura “Momentary”, affidata ai versi di Lee Bains. Presenze così protagoniste da condividere la parte centrale della cover, insieme al titolo.

Ed è anche grazie a questo assembramento militante che “Shook” risulta un cupo progetto permeato di rabbia e di riscatto, di rivalsa ai soprusi. Non sorprende, se già sono gli Algiers in sé a essere un concept, prima che una band, con un nome che incarna la ribellione al colonialismo e il sacrificio per l’emancipazione. Percepirli al netto di questa dichiarazione d’intenti/fondante pregiudizio ne diminuirebbe la portata deflagrante. Dell’ottimo quarto lavoro colpiscono l’elettronica a tinte industrial, la chitarra sferzante e lo spazio che giustamente viene lasciato al gusto e alla tecnica di Matt Tong, batterista fuori dal comune cresciuto nei Bloc Party di “Silent Alarm”. E poi l’anima di Franklin James Fisher, la sua voce e le sue parole, il suo essere Algiers senza soluzione di continuità, le sue melodie profondamente soul.

La struttura delle canzoni è fuori da ogni convenzione. Prendete la ritmica e i cluster di pure onde sinusoidali su “Irreversible Damage”, la drum’n’bass de-costruita e pronta a compattarsi in velocissimo post-punk di “73%”, il rigore di “Cold World”, la trap tutta arpeggiatori e synth di “Bite Back” e il suo ritornello motown, il punk di “A Good Man” e quella promessa di muro di suono che viene mantenuta solo troppo tardi, il dub scombinato di “Something Wrong” con quel gioco di pitch che vira verso il basso e quel modo di suonare fuori tempo che mette alla prova anche i temperamenti più pazienti, i mille volti di “I Can’t Stand IT” e l’ossessività della proposta dei cori gospel che si sprigionano un po’ ovunque per sublimare negli accordi jazz di “Green Iris”, un brano con un finale che toglie il fiato, e in “Momentary”, la traccia conclusiva che ci fa ripartire da capo, dalle radici della tragedia della comunità afroamericana da dove tutto, Algiers compresi, è iniziato.

“Shook” è, ancora una volta, un disco pensato per risultare impegnato e impegnativo. È un tentativo di dare voce a un mondo abitato da oppressi che nessuno di noi, da questa parte del pianeta e attratto da questo genere di ascolti, è in grado di comprendere appieno. Rispetto alla nostra realtà, nei suoni e nelle parole, gli Algiers si confermano degli alieni. Io li adoro, ma riesco ad andare poco oltre la dimensione musicale. Se riuscite a goderveli così a fondo da lasciarvi condurre nella perfetta sintonia che i loro brani richiedono, sappiate che vi invidio moltissimo.