il suo nome detto questa notte mette già paura

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Aprite i vostri archivi più intimi e provate a rilevare quanto, restringendo il campo della query dal 1977 al 1981, la vostra vita in quegli anni lì ha avuto a che fare con qualcuno dei pezzi di Lucio Dalla tratto dai suoi tre album forse più importanti della sua carriera, usciti proprio in quel lasso di tempo. Mi riferisco Come è profondo il mare (1977), Lucio Dalla (1979) e Dalla (1980), e anche se ammetto di non essere il più titolato esperto in questo ambito, considerando la mia specializzazione in ben altri generi musicali, concorderete con me che pensare a una classifica di tre dischi così è una bella lotta. Ma poi è chiaro che non è che dobbiamo sempre star lì a dare i voti e a pensare che qualcosa è meglio o peggio di qualcos’altro. Concentriamoci invece sui nostri ricordi, e pensate a quanti ritagli di esperienze possono essere legati al timbro vocale di Lucio Dalla e a quella ventina di brani tratti da quei tre dischi, considerando il successo che hanno avuto e a quanto si sono sentiti per radio, alla tv, negli impianti stereo, negli autoradio nostri e dei nostri amici. Casualmente nei negozi, anche se forse allora non c’era il vezzo della diffusione sonora negli esercizi commerciali, o volontariamente nei juke-box, questo si, posso darvi la conferma. Più di ogni altro cantautore, e mi riferisco agli altri mostri sacri della nostra cultura, Lucio Dalla ha meritatamente occupato un posto di crocevia tra varie tipologie di pubblico, anche se nella finestra di tempo a cui mi riferisco era tutto molto meno diversificato e c’era un approccio più omogeneo agli ascolti. Rispondendo a suo modo al pop, alla canzone impegnata, all’intellettualismo del pubblico dei cantautori, all’esigenza di semplicità e all’immediatezza dell’emozione pret a porter delle sue parole raffinate ma allo stesso tempo crudelmente dirette, al registro della sua voce così familiare e per questo rappresentativa di una fase così peculiare della nostra storia, Lucio Dalla innegabilmente è dentro di noi e fa parte di quello che siamo. E se è vero che poi quelli che ritengo i suoi migliori tre dischi sono entrati nel pantheon della maggior parte degli italiani, non riesco a non pensare a un istante della mia vita di allora – ero poco meno che preadolescente – senza legarlo a uno dei suoi versi e alla dolce amarezza dei quadri che dipingeva nelle sue canzoni, un aspetto che va oltre i gusti musicali (io davvero ascoltavo ben altro) e che si va a collocare tra i requisiti fondamentali del modo di interpretare quel passato lì. Insieme a come ero, a quello che facevo, a chi frequentavo, ai vestiti che indossavo, alle speranze che maturavo, alle gioie e ai dolori e a tutto il resto, qualsiasi cosa che cerchi rovistando nei cassetti della memoria di allora, di quel periodo tra il 77 e l’81, trovo sempre un berrettino di lana e un paio di occhialini tondi.

non importa

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Non ho ancora verificato la fonte, ma pare che nei negozi di uno dei più noti brand dell’abbigliamento in franchising si possano trovare in vendita le magliette con il neonato più celebre della storia del rock, quello che nuota inseguendo la banconota da un dollaro sott’acqua. Mi ha avvisato mia figlia che ha visto la cover di Nevermind su una maglietta indossata da una di terza nei corridoi durante l’intervallo. Mia figlia però non sa niente del grunge, ha 11 anni, ma ha visto più volte il disco nella collezione di papà e una foto così suggestiva (oltreché simbolica) non è passata inosservata. Questo l’ha spinta a chiedere la provenienza della maglietta e, venuta a conoscenza della marca, ha chiesto la conferma a me sia sul gruppo che ha pubblicato l’album che sulla possibilità di averla. Ho acquistato Nevermind in vinile nel 92 e, insieme al disco, c’era una maglietta, non so dirvi quanto fosse uguale a quella messa in commercio ora. E non chiedetemi che fine abbia fatto l’originale, non ho intenzione di rivangare storie morte e sepolte tanto quanto la band in questione ma è comunque un peccato, perché avrei potuto garantire a mia figlia un’eredità invidiabile. Un vera e propria reliquia dei fasti del tempo.

Ma il punto è che non è la prima volta che si vedono t-shirt di pietre miliari della musica disponibili lungo una rete di vendita così distribuita. Qualche tempo fa era stata la volta delle pulsazioni elettromagnetiche di Unknown Pleasures, trattato alla stregua di una lingua dei Rolling Stones qualsiasi o di una boyband da ragazzine qualunque, e, badate bene, non è una questione di snobismo culturale. Non sapete quanto mi piacerebbe se mia figlia e le sue amiche e tutta la loro generazione mettessero da parte quella merda di pop-rap italiano che ascoltano per scuotere le lunghe chiome ai solidi pattern ritmici di Dave Grohl. E non è nemmeno un problema di soldi e di diritti venduti da chissà chi a chissà quale multinazionale. Ci urta solo il contrasto tra il nichilismo cobaniano (giuro che non è una mia invenzione) e la visione della suddetta maglietta penzolante dall’appendiabiti in mano a qualche appassionato/a di shopping low cost, nel tempio dell’abbigliamento cheap, con un sottofondo musicale di Tiziano Ferro e nella surreale temperatura condizionata con cui certi posti accolgono i loro clienti nei mesi più caldi. Avete presente? Si estrae il capo corrispondente alla propria taglia, lo si soppesa, si dà un’occhiata all’etichetta, lo si avvicina al busto per provare a immaginare l’effetto addosso, si sceglie se prenderlo o no.

quelli della webnotte

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Anche l’altra sera è finita come tutte le altre volte in cui c’è qualcosa di interessante molto tardi per cui mi impegno a rimanere sveglio. Su un canale statunitense di Youtube trasmettevano in streaming il concerto da Austin, Texas di una delle mie band preferite ma con uno scarto di fuso orario che non era certo a nostro vantaggio, un po’ come il dollaro che ultimamente ci ha fregato negli acquisti online dagli USA. Sarei dovuto restare in piedi fino alle due, una cosa che non faccio più credo da almeno dieci o quindici anni, escluse le nottate a preparare il biberon per mia figlia nei primi mesi della sua vita nel 2004. Che c’è da ridere, scusate? Alle dieci già crollo dal sonno, mi sento le palpebre premute dalla gravità, mi vien voglia di stendermi e addormentarmi e non c’è film, libro, concerto o situazione conviviale che tenga. Così il concerto in streaming è saltato malgrado abbia resistito fino a mezzanotte, e poco male perché sono certo che tempo una settimana e lo metteranno per intero sul loro sito da seguire in differita. Così ho pensato a quelli che ogni sera tirano tardi per seguire Webnotte sul sito di Repubblica. Non c’è giorno in cui non ci sia uno di quei cantanti italiani che piacciono a me, da Malika Ayane a Renzo Arbore, poi anche Brunori Sas, Rossana Casale, Elisa ed Emma Marrone. Poi sulla colonna di destra del sito di Repubblica apprezzo sempre molto la sfilza di spezzoni che il quotidiano mette on line quasi in tempo reale. Vi leggo i titoli di quelli freschi freschi di pubblicazione: “Magia Malika e Bergonzoni, Musica e arte della parola conquistano Webnotte”, poi ancora “My name, il talento di Ilaria da X-Factor a Webnotte” e “Malika Ayane canta Gainsbourg la classe di Ces petits riens”. Insomma, davvero se non fosse che sono un morto di sonno mi verrebbe voglia di andare a sbirciare il programma di Azzante e Castaldo, così innovativo e ricco di novità musicali, quasi quanto quella che mi sono perso l’altra sera per colpa delle ore piccole. Insomma, se vi capita di seguire una delle puntate di Webnotte mi avvisate su Facebook, così mi arriva un trillo sullo smartphone e magari mi aggiungo al pubblico da remoto. Prima o poi capiterà una puntata dedicata a Jovanotti, che come sapete è sempre al primo posto. Come dite? C’è già stata?

fidatevi, il veleno di Cinzia era l’eroina

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Sui pezzi di Venditti ci vorrebbe un blog a parte, e magari c’è pure e io ne sono all’oscuro. Ecco, se c’è, vi prego di continuare a non segnalarmelo. Ma non per via del fatto che con l’Antonellone nazionale ho un po’ il dente avvelenato da quando, al Moulin Rouge – e se siete miei concittadini sapete di cosa parlo – proprio mentre stavo per concludere con Danila al culmine della serie dei lenti nel bel mezzo della domenica pomeriggio, il dj ha pensato bene di mettere “Ci vorrebbe un amico” rovinando pesantemente l’atmosfera di pop britannico che faceva furore ai tempi mixandolo a un brano del calibro di Doot Doot dei Freur. Insomma, converrete con me che il Venditti degli anni 80 genera gastroenterite acuta immediata, effetti inclusi. Vi dirò di più: se avessi un blog su di lui che è uno dei più celebri cantautori nazionali lo chiamerei – battuta scontata – “V per Venditti” o al massimo “In questo blog di ladri”. Poi, altra cosa che volevo dirvi, è che abbiamo già parlato altre volte di Venditti: qui a proposito di “Notte prima degli esami”, poi di quando mi hanno raccontato di averlo visto fuori dallo stadio di Marassi dopo Genoa – Roma, e anche a proposito del suo timbro tipicamente anni 70 che accompagnava le domeniche in di noi ragazzini in balia delle crisi adolescenziali delle sorelle maggiori e altre amenità dei dì di festa. Invece volevo oggi rivelarvi la mia teoria su “Piero e Cinzia” che vanno al concerto di Bob Marley a San Siro nel giugno del 1980. A quel concerto ha partecipato anche una mia cugina che è mancata un paio di anni fa, e so che ai tempi si faceva come si facevano in molti di quei 100mila spettatori e così, un po’ generalizzando come sono solito fare, penso che anche i sogni e le speranze dei due protagonisti di quell’imbarazzante pseudo-reggae in salsa pop cantautoriale siano stati per lo più indotti da sostanze illegali e stupefacenti. Chiude il cerchio il fatto che Danila, quella il cui abbraccio mi è sfuggito proprio sulla rima baciata “stare insieme a te è stata una partita, va bene hai vinto tu e tutto il resto è vita”, e Cinzia che “cantava le sue canzoni e si scriveva i testi sul diario per sentirli veri” sono due nomi molto anni 70 che adesso si sentono veramente poco in giro, non me vogliano le numerose lettrici di questo blog che si chiamano così. E spero abbiate intuito il velato disprezzo che provo per quel pezzo lì che non solo non linko qua sotto per provare quanto io abbia ragione, ma piuttosto metto un pezzo dell’ex rivale De Gregori dedicato a uno dei nomi più belli del calendario che è Caterina. E, per finire veramente, mi chiedo perché quando Venditti gli ha dedicato “Scusa Francesco”, De Gregori non gli abbia risposto con un brano dal titolo “Scusa un cazzo”.

un chitarrista povero è comunque più fortunato di un tastierista al verde

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Ho visto il video di un nuovo singolo dei Simple Minds e l’effetto che fa Jim Kerr è grosso modo lo stesso di Roby Facchinetti con la tinta, anche se ci ballano ben quattordici anni di differenza, ma mentre i Pooh sono comunque sempre stati un gruppo da gente che si sente vecchia dentro, il quintetto new wave scozzese no. E se eravate a conoscenza del tour live 5×5 che hanno portato in giro per l’Europa un paio d’anni fa converrete con me che suonare cinque brani per ognuno dei loro cinque primi dischi non è certo roba da casa di riposo. Non so se avete presente Life in a Day, Real to Real Cacophony, Empires and Dance, Sons and Fascination/Sister Feelings Call e New Gold Dream (81, 82, 83, 84) che dal 1979 al 1982 hanno completato con suoni mai sentiti il vuoto del post-punk new wave dark disponibile ai tempi. Comunque ho scoperto solo ieri che di quel tour è stato pubblicato un doppio album live che è superlativo, piuttosto in linea con le atmosfere originali e tutt’altro che pacchiano e sfarzoso, come invece ha detto quel mio ex per fortuna collega a proposito della Cappella Sistina, pensate un po’ con mi tocca condividere la mia vita professionale. La grave lacuna del disco e della tournée in questione è l’assenza di Mike McNeil alle tastiere, storico fondatore della formazione, ben rimpiazzato da un valente turnista ma rimpianta piattaforma elettronica del gruppo nonché fonte di frustrazione ai tempi d’oro degli emuli di quei suoni come il sottoscritto. Riprodurre i timbri dei loro brani degli esordi era tutt’altro che semplice con una strumentazione approssimativa come la mia, per esempio, e alla fine un po’ per colpa dei registri di strings troppo violinosi o dei synth eccessivamente piatti le loro cover venivano di merda ed era meglio soprassedere o passare ad altro. Non vorrei banalizzare ma se sei un chitarrista virtuoso con qualunque sei corde elettrificata fai la tua sporca figura. Per chi suona le tastiere il suono impatta all’ottanta per cento sulla resa complessiva, e puoi essere anche Chick Corea ma ti prendi dei fischi dal pubblico raffinato dell’art rock. Invece dicevamo del nuovo video dei Simple Minds che, obiettivamente, è una canzone che fa cagarone forte, pur mantenendo una sua dignità che si vede che dietro c’è una band che ha fatto la storia. Voglio dire, questo pezzo qui sotto è del 1978 e mi pare che anche solo per la maggior parte di ciò che abbiamo ascoltato e di ciò che preferiamo ora ai Simple Minds gli si debba un sincero e forte tributo artistico e umano.

qualcosa sull’imprinting sonoro o giù di lì

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Lasciate perdere una volta tanto le colonne sonore di telefilm e cartoni animati, quelle che ore e ore di televisione pomeridiana ci hanno pervaso organi e tessuti fino nel DNA. E mettete anche da parte la musica che da bambini, grazie a nonni, genitori e fratelli maggiori, vi ha aperto le porte della percezione sonora e ha gettato le basi dei vostri gusti in merito. Se la nostra vita è fatta di canzoni preferite, c’è posto anche per tutte quelle che abbiamo ascoltato involontariamente e comunque hanno attecchito. Pensate a quanti ritornelli ci sono rimasti dentro nell’età dello sviluppo, quando in noi è ancora tutto estremamente fertile e basta poco che qualcosa faccia presa e poi non va più via. E ogni tanto, ciclicamente, si apre una valvola da qualche parte e melodie remote fanno capolino nella nostra giornata, magari quando siamo più vulnerabili, o più trasparenti sugli strati superiori tanto che si vede tutto quello che c’è sul fondo. E ogni volta il gioco consiste proprio nel collegare quello che affiora alla sua radice in profondità, fino a chissà dove. Perché mi è tornato in mente questo pezzo? Quando è successo e quante volte lo devo aver ascoltato perché è rimasto così netto e identificabile? Qui sotto ho elencato un po’ di materiale che, ogni volta che si manifestano questo genere di reminiscenze, mi sorprendo di averlo in qualche modo coltivato e che, comunque, malgrado i numerosi decenni trascorsi, sia ancora tutto così incredibilimente nitido.

Questa, ad esempio, doveva essere la sigla di un programma radiofonico ma comunque sentite come il suono così parcellizzato del synth fa presto a penetrarti nel conscio e nel subconscio e a diffondersi viralmente nell’organismo

Questa era l’appuntamento fisso con Odeon, trasmissione TV che seguivo se non altro perché ci scappava sempre qualche topless, e dovete capirmi, avevo dieci anni o giù di lì


ma questo pezzo è stato anche il mio incubo perché poi mio papà mia aveva regalato lo spartito e, inutile a dirsi, non sono mai riuscito a impararlo tanta era la complessità.

Ma la mia attitudine (?) alla tastiera si è manifestata anche con questo altro capolavoro di elettronica, si vede che già dentro di me pianificavo di sprecare buona parte degli sforzi a comporre musica decente


e chissà perché, risentendola adesso, l’associo a pellicole soft-core.

Tra i dischi che andavano per la maggiore in casa mia, quando ancora comandava mio papà e svolgeva lui le funzioni di DJ resident e Master of Ceremony, c’erano le orchestre che andavano molto di moda nei primi anni 70 con direttori celebri che riarrangiavano musica classica e pop in chiave proto-lounge, passatemi il termine. Tra i favoriti della mia famiglia c’erano Ray Conniff, James Last e soprattutto Frank Pourcel. Non so quante volte questo vinile è stato suonato sul nostro giradischi, la domenica mattina

Non mancava ovviamente il liscio, come nelle famiglie di campagna di una volta, e su questo brano non ho nulla da aggiungere perché è in grado di commuovermi ancora adesso. Vedete poi perché si cresce prediligendo i timbri della depressione? A voi il valzer “Speranze perdute” nell’esecuzione di Gigi Stok

Ma poi, per fortuna, la personalità dei ragazzini si emancipa dal lessico e dall’ambiente sonoro di nascita. Quando ho visto questo tizio, per la prima volta, sono rimasto realmente folgorato e ho capito quale poteva essere un modo davvero originale per fare musica e da lì è derivato più o meno tutto. Pensate un po’ come è messa certa gente come me.


p.s. notate la gaffe di Boncompagni che traduce “Ca Plane Pour Moi” con “Questo aeroplano è per me”, pensate come siamo cresciuti.

la guerra di Piero

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In natura esistono solo due elementi che, in condizioni di transizione di fase, accelerano il moto delle particelle a causa del fenomeno fisico della distorsione (o saturazione) favorendo la sublimazione dell’aggressività dei corpi: l’heavy metal e il punk. Solo alcuni studiosi ammettono il grunge in quanto non-metallo, d’altronde è un materiale artificiale composto dall’aggregazione di molecole dei due elementi di cui sopra, e questo da parte mia è un commento tutt’altro che negativo. In molti sono pronti a dare la propria preferenza all’ultimo arrivato della famiglia dei generi ribelli, e tra i tre oggettivamente rientra anche il mio di plauso, nel senso che con il punk ci sono cresciuto ma quello un po’ ravattone nel senso di suonato a cazzo lo evito come la peste. Abbiamo già discusso altrove su quanto sarebbe bello mettere alla batteria di un qualsiasi gruppo punk gente del calibro di Dave Grohl. E lasciate stare i Clash, che sono punk solo nell’approccio. L’heavy metal, invece, lo sapete anche voi, è la mia bestia nera.

Tutto questo per dire che i due elementi naturali e ben distinti che da due o tre generazioni occupano i sogni di trasgressione di giovani e meno giovani sono nati comunque rivolti a due target molto differenti: quelli che suonano male ma che comunque devono esprimersi in un’attitudine molto affascinante quanto anarcoide da una parte, e quelli che sprizzano tecnica da tutti i pori finalizzata alla violenza musicale. I metallari, ci siamo capiti. Qualche sera fa – vi giuro che è stata la prima volta – mi è capitato di seguire una puntata di The voice of Italy. Non preoccupatevi, siamo ancora alle selezioni, se non ho capito male la dinamica del gioco che comunque è sulla falsa riga di X-factor. Tra i giudici del talent c’è il caro vecchio Piero Pelù, voce dei Litfiba che poi sono uno dei gruppi italiani che ho amato di più ma solo nella fase fino a “17 re”, il resto ve lo lascio senza problemi. I Litfiba degli esordi sono facilmente categorizzabili nel filone post-punk, quindi più della famiglia dei musicisti scarsi e di quel versante lì. E io me lo sono sempre immaginato più affine come gusti a quello che ascolto io, quindi sicuramente nel quadrante del rock tecnicamente disimpegnato e del post-punk, anche se ho seguito con la coda dell’occhio la deriva tamarra che da Cangaceiro in poi Pelù ha preso, secondo me non per colpa sua. Ora, sapete come funziona The voice of Italy. I giudici ascoltano i candidati e poi, se sono di loro gradimento, cercano di attirarli nella propria scuderia per tentare la vittoria del gioco con il favore del pubblico. Il ruolo assegnato a Pelù, tra gli altri giudici che sono J-Ax, Noemi e DJ Francesco con suo papà, è quello di aggiudicarsi le voci più rocckettare, tra look e gestualità degne del peggio metal anni 80. Nella puntata che ho seguito si è presentata una ragazza che sembrava uscita da un video degli Scorpions e indovinate sotto le ali di quale mentore si è accomodata. Quello che non ho capito, in conclusione, e che chiedo a voi è: da che parte sta Piero Pelù? Sta con i capelloni cotonati e dalle chitarre a V oppure con i Clash?

una volta amavo i cambiamenti, poi sono cambiato e ho smesso

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Una volta amavo i cambiamenti, poi sono cambiato e ho smesso. Potrei finire così, vincitore nella categoria degli autori di pensieri compressi che sono quelli che vanno per la maggiore. Ma invece voglio surclassare con stile voi e tutti gli aforismi sul cambiamento con cui riempite i vostri socialcosi e che, manco a dirlo, hanno rotto il cazzo. Il cambiamento è quasi sempre in peggio, chi lascia la strada vecchia per quella nuova sapete meglio di me dove va a finire. Il cambiamento è inevitabile ma possiamo scegliere quando e come farlo, dice uno e l’ho letto proprio poco fa. Ah si? Siete proprio sicuri di avere abbastanza pelo sullo stomaco da discernere la scelta più appropriata gestendo il panico? O ancora sentite queste, fresche fresche di aggiornamento di status. “Sii come la fonte che trabocca e non come la cisterna che racchiude sempre la stessa acqua”. Ma come? E poi se ai vicini di sotto gli si allaga la casa? “Non avere mai paura di tentare qualcosa di nuovo. Ricorda: dei dilettanti costruirono l’arca mentre il Titanic fu costruito da professionisti”, ho letto pure questa. Vogliamo scherzare vero? Crediamo ancora alle favole e alla fantascienza? “Quella che il bruco chiama fine del mondo, il resto del mondo chiama farfalla”. Certo, ne riparliamo poi comodamente spiaccicati sul parabrezza. “La logica vi porterà da A a B. L’immaginazione vi porterà dappertutto”. Giusto, poi ti svegli e se il treno è in ritardo al lavoro ci arrivi già con i coglioni che ti girano. Ecco perché vi dico che una volta amavo i cambiamenti, poi sono cambiato e ho smesso. E mi limito solo ad aggiungere che da allora non mi è stato più possibile tornare indietro, d’altronde si tratta di una di quelle decisioni irrevocabili, se non la meno riconvertibile per antonomasia. Ancora oggi non chiedetemi di cambiare le cose, e questo stallo globale termonucleare in tutti gli scenari che hanno l’onore di ospitarci – parlo della vita privata, del lavoro, degli interessi, delle passioni, del cibo, della musica, della narrativa, degli hobby, del tessuto che compone il nostro corpo e di tutto il resto verso il quale ogni mattina ci promettiamo di intervenire per non morire di routine ma che invece lasciamo lì immutabile tra i cimeli della nostra esistenza – dicevo questo stallo globale termonucleare in tutti gli scenari che hanno l’onore di ospitarci e che ci fiacca con quella sorta di sostanza collosa là fuori che tiene in scacco esseri viventi, non viventi e quelli a metà, gioca a mio favore. Potete stare sereni che tanto nessuno svolta da nessuna parte, e se lo fa se ne guarda bene da mettere la freccia in tempo.

oscar per la migliore trama mai utilizzata

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La maledizione che si abbatte su molti gruppetti più o meno dilettanti di musica leggera decretandone la fine, molto spesso in modo provvidenziale se non addirittura mettendo al riparo i componenti dal severo riscontro del pubblico, li aveva logorati a tal punto da mandare tutti i piani all’aria malgrado la presenza di segnali confortanti. Ma pensate a quanti torti si sono consumati dentro alle mura di cantine e box adibiti a sala prova, con ragazze che interrompono duraturi rapporti con chitarristi per mettersi con i cantanti o viceversa. Chi non si è mai trovato coinvolto in crisi artistiche di questo tipo scagli il primo plettro. Questo poi molto ma molto prima dei social network e anche di Internet, quindi in un mondo in cui i giochi si svolgevano alla luce del sole, anzi, al buio delle mura insonorizzate ma comunque in carne e ossa e con i tempi tecnici necessari per spostamenti, telefonate, attese, discussioni verbali, chiarimenti, risoluzioni di conti a ceffoni, drammi, bugie, segreti detti e divulgati con sussurri per non farsi sentire. Giorni, settimane, mesi di struggimenti e turbamenti. Altro che whatsapp. C’era anche una specie di gruppo rivale che ha approfittato di quel tragico scioglimento cannibalizzando i membri non interessati dalle dinamiche sentimentali, solitamente batteristi e bassisti badano al sodo, i tastieristi – lo so per esperienza diretta – sono sempre degli outsider, fatto sta che non erano nemmeno iniziati gli anni 80 che una delle promesse del post punk locale si era già dimostrata bella che impossibile da mantenersi.

Ieri poi, per puro caso, mi è capitato di vedere “Una fragile armonia”, un filmetto strappalacrime del 2012 che dovreste vedere anche voi intanto perché ha come protagonista Philip Seymour Hoffman e poi perché c’è tanta bella musica classica. La storia si basa infatti sulle dinamiche di un quartetto d’archi di successo composto da una coppia marito e moglie, in cui il marito che è il secondo violino (Hoffman) sentendosi sminuito si porta a letto una ballerina di flamenco. Dal primo violino che è uno scapolone che si innamora della figlia dei due suoi colleghi malgrado la differenza di età (di lui era stata innamorata anche la moglie di Hoffman prima di sposarsi). E dal violoncellista interpretato da Christopher Walken che è costretto a mollare il colpo a causa del Parkinson e che però segue con sofferenza tutte queste dinamiche che minacciano di far esplodere l’ensemble prima del tempo, ovvero prima che lui lasci il suo posto per l’impossibilità di reggere l’archetto.

Ma, lasciando perdere ogni spoiler, mentre il film si avviava alla fine mi si è accesa una lampadina su come scrivere una storia sulla band a cui mi riferivo sopra. Sentite qui. Trascorsi quarant’anni dal loro scioglimento, il chitarrista manifesta i primi segni di Alzheimer e così il cantante, in forma di redenzione per avergli fatto perdere l’amore, contatta gli altri ex membri per rimettere in piedi il gruppo. Hanni tutti quasi settant’anni ma nessuno non riesce a sottrarsi al fascino della musica, a riprendersi gli strumenti un po’ malandati lasciati in cantina o alla mercé dei nipotini, a rimettersi a suonare gli stessi pezzi di allora, il tutto per seguire da vicino e a modo loro il decorso del loro vecchio sodale e con tutti gli annessi e connessi di un’esperienza del genere. I due ex rivali non hanno del tutto smaltito gli antichi rancori, il cantante così cerca di sfruttare i momenti in cui la demenza senile lascia il chitarrista vergine circa il loro rapporto e privo di trascorsi. Ci starebbe anche bene un risvolto sul successo, in un momento di povertà artistica generalizzata – siamo più o meno nel 2025 – una band di vecchietti che calca con grinta post punk il palcoscenico, e un finale strappalacrime, tipo che il chitarrista si dimentica di prender parte all’appuntamento decisivo con il pubblico e manda tutto in vacca ma per il resto del gruppo non importa, a loro serviva solo per allietare gli ultimi anni dell’amico malato e va bene così. Ecco. Ora ci penso su e poi vi dico come va.

un giorno qualunque li ricorderai

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Tenevi una delle tue sigarette alla menta accese con le dita come un direttore d’orchestra muove la sua bacchetta, richiamando al senso del ritmo un trombettista immaginario esecutore del tema strumentale di “Amore che vieni, amore che vai” e disegnandone involontariamente la melodia con il fumo nell’aria. Seduta con le spalle poggiate a una delle transenne che delimitano quel corridoio in cui fotografi e addetti alla sicurezza si muovono liberamente lungo il lato frontale del palco, oscillavi la testa a sottolineare quelle coppie di rime baciate che sono una delle virtù di quelle liriche, così delicate e piacevoli nella loro ingenua simmetria. Ma sapevamo entrambi che mancava poco prima che qualcuno ne annullasse l’effetto mettendo la vera musica di riscaldamento del concerto e che, con i suoi decibel e tutti i suoi bassi pompati di modernità, avrebbe coperto uno dei tanti impianti artigianali che diffondono le canzoni di De André per le strade di Genova e che fino a quel momento comunque ci aveva intrattenuto. Ma da queste parti devono essere tutti molto più sensibili della media, a partire dal tecnico del suono che invece ha volutamente lasciato terminare la canzone che sfuma in quel modo che conosciamo tutti prima di iniziare a fare il suo lavoro e sollecitare la voglia di ritmo con una selezione pensata ad hoc per quel pubblico dai gusti così facili da individuare. Hai spento la tua sigaretta alla menta contro la suola delle Birkenstock in tempo per alzarti a gettare le braccia al collo di qualcuno che ti stava raggiungendo lì e che non ho visto nemmeno in faccia, uno che ti ha chiesto un bacio e tu gliene hai dati altri cento.