stavo ascoltando i Rage Against The Machine quando è rientrata mia figlia dall’allenamento e mi ha chiesto di abbassare il volume

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Stavo ascoltando i Rage Against The Machine quando è rientrata mia figlia dall’allenamento e mi ha chiesto di abbassare il volume. Ma non è solo questo. Giusto due sere fa alla tv passa il video di “Killing in the name of” e lei si mette a fare i versi sulla parte finale in cui Zack spara affanculo quelli che vorrebbero imporsi con la loro volontà. Stai attenta cara che stai scherzando con il fuoco. Sapete, vero, come sono i ragazzini di quell’età che vogliono fare i ribelli nei confronti dei genitori per tutta una serie di ragioni. L’aspetto paradossale è che noi di questa generazione qui ne abbiamo viste abbastanza, di cose trasgressive. Siamo cresciuti prima con i Clash, poi tutto il post-punk negli anni 80, i Nirvana e il grunge, i Radiohead e l’elettronica spinta. Insomma, a noi, voi che avete dodici tredici ma anche sedici o vent’anni, non riuscireste a stupirci nemmeno se vi tatuaste in scala 1 a 1 degli altri lineamenti su tutta la superficie del vostro corpo. Quindi siamo alle solite: per catturare la nostra attenzione volete fare le persone normali? Stupirci con le rime baciate dei vostri rapper mantenuti dai genitori? Ragazzi miei, che cantonata che avete preso. La vostra sfortuna è che la condizione di essere alternativi o, comunque, fuori come dei balconi, ha completato il giro di 360 gradi e ora l’unica strada è quella di ripartire da zero con le cose elementari o per lo meno semplificate. I Fedez e tutta quella gente lì stanno stretti nel loro spazio creativo perché o aspettano che qualcuno faccia piazza pulita o si annienteranno come la materia con l’antimateria. A cancellare tutto ci stanno appunto pensando quelli che rientrano in casa dall’allenamento e ti chiedono di abbassare i Rage Against The Machine perché non è pop. Oggi il pop, che è la vera essenza di questa società liquida, sta diluendo tutto quello che c’era prima, come se si volesse pulire tutte le incrostazioni di roba scomoda, quella difficile da capire e da spiegare. Quindi le chitarre distorte fanno casino e danno fastidio ma è un fastidio diverso di quello provato dai genitori che urlavano ai figli in cameretta di smetterla con tutto quel baccano che fa Tom Morello (il chitarrista dei RATM). Qui è il contrario. I figli che sono diventati adulti e che sparano Tom Morello a manetta, e inverosimilmente il contrappasso peggiore che avrebbero potuto mai subire: i loro figli che crescono assolutamente normali e hanno superato i genitori in regolarità chiudendo i conti con i nonni che si disperavano per i figli punk, grunge o chissà cosa poi cresciuti senza aver invece chiuso i conti con la propria adolescenza e diventati genitori, a loro volta, ma di figli terribilmente pop. Ma c’è un post scriptum: Tom Morello, proprio qualche giorno fa, ha twittato di aver detto ai suoi figli, per la prima volta, di abbassare la musica nella loro cameretta. Mi piacerebbe sapere che cosa stavano ascoltando e se, davvero, si è chiuso un cerchio che è grande non immaginate quanto.

il mistero della traccia fantasma

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La domanda a cui un vero collezionista di vinile non trova risposta non è tanto quale sia il posizionamento più efficace del suo tesoro – ordine alfabetico, per genere, per anno di pubblicazione o per frequenza di ascolto a seconda del momento e del mood – quanto che ne sarà dei dischi dopo la morte. La musica sta appiccicata nei solchi e non chiedetemi quale sia la magia per cui la puntina riesca a diffondere il suono, per non parlare del modo in cui qualcuno è stato in grado di comprimerla tutta lì dentro. Sono certo che si tratti di informazioni facili da trovarsi soprattutto oggi con la rete e con i nerd di queste cose qui che mettono i like a giradischi artigianali da svariate migliaia di euro. Per me resta una sorta di miracolo, un processo soprannaturale divino o demoniaco che cosa conta, l’importante è che anche se si tratta di un motore immobile sia a cinghia e non guasti i vinili con graffi e righe, e non ne voglio sapere di più. E riesco ad ammettere che sia più facile trasformare la musica in informazioni da digitalizzare, mentre è in certe invenzioni del secolo scorso che va individuato il vero ingegno dell’uomo, senza nulla togliere al silicio. Quindi, mistero per mistero, possiamo pensare che questa cosa intangibile che fuoriesce dalle casse quando il braccio si posa su una delle due facciate sia una specie di ectoplasma che va a permeare una dimensione che noi non conosciamo e, lasciatemelo dire, è meglio conoscerla il più tardi possibile. Strofini un disco con una puntina e si diffonde una materia tanto sconosciuta quanto invisibile che, per quanto ne sappiamo, potrebbe essere anche la stessa di angeli e fantasmi. Perché no? Forse è per questo che quando sono lì che scartabello nei negozi di vinile usato o tra i contenitori sulle mie bancarelle preferite penso chi fossero i precedenti proprietari di tutto quel ben di dio, e se in qualche modo risiede tra i solchi dei dischi che hanno posseduto la chiave per tributargli il miglior ricordo da questa parte delle cose. Metti su una canzone e tutte le particelle che si sprigionano ritornano in contatto con l’anima di chi aveva conservato il disco in vita, come le polveri di metallo con la calamita, come i capelli quando ti togli la maglia di lana in una giornata elettrica. Per questo parlare con gli spiriti è possibile e magari, a seconda della canzone, non è detto che non abbiano anche voglia ballare con noi.

volevo essere così ricco da entrare nei negozi di abbigliamento e chiedere di abbassare la musica

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Volevo essere così ricco da entrare nei negozi di abbigliamento e chiedere di abbassare la musica così ho pensato che mi sarei arricchito componendo musica di successo che oggi non è quella che riempie gli stadi, bensì quella che le compagnie telefoniche scelgono per i loro spot e che poi detta l’agenda degli ascolti negli spazi pubblici dedicati al commercio. Pensavo fosse il contrario, e cioè che le compagnie telefoniche cercassero canzoni per far sentire la gente più a casa propria nelle loro pubblicità, e invece poi ho scoperto che sono i compositori e i musicisti che si avvalgono di loro per restare colonna sonora della contemporaneità più a lungo possibile. Così ho messo il mio estro al servizio di chi vende connettività per consentire alle persone di chiamarsi, di scambiarsi messaggi e di navigare in Internet ciascuna con le proprie tariffe e le contraddizioni pensate su misura per attirare i clienti nel vortice dei disservizi più redditizi. Ho piazzato quattro hit, tante sono le principali compagnie telefoniche del mercato italiano, e sono diventato ricco da far schifo. Sta di fatto che da quando sono diventato così ricco la musica delle pubblicità delle compagnie telefoniche è diventata un vero e proprio genere musicale con la sua dignità commerciale come il pop, la techno, le canzonette di Sanremo e le suonerie degli smartcosi. Così finalmente sono entrato in un negozio che vende abbigliamento da ragazzine – sapete, sono il padre di una figlia di quella fascia anagrafica lì – e mi sono preso il lusso di dire alle commesse che se avessero abbassato il volume della musica che avevo composto io e che induce all’acquisto di un particolare pacchetto di traffico voce e dati per il periodo estivo avrei comprato tutto quello che c’era esposto della taglia della mia bambina. Mentre passavo la carta di credito sul lettore contactless ho precisato alla cassiera che la musica anche se composta da me non dev’essere ascoltata così forte. Io a furia di suonare punk industriale a un livello inumano, oramai venticinque anni fa, mi sono procurato una polifonia di acufeni che non mi dà tregua e che quando sono nel silenzio delle storie immaginarie di cui mi piace tener traccia mi rammentano quanto la musica possa ferire le persone più sensibili come me. Ho chiesto a chi lavora in quel negozio di rispettare un giorno di silenzio in onore della corretta conservazione dell’apparato uditivo e mi sono persino reso disponibile a rimanere con loro fino alla chiusura per celebrare quella festa di tutti a suon di mance, tanto sono ricco sfondato e mi basta un trillo di un qualsiasi smartcoso per ricordarmelo.

codice giallo

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Quante volte capita di rovinarsi il weekend con uno strappo, una storta, mangi o bevi troppo e non c’è niente che ti possa rimettere in sesto dall’emicrania. Vai a sciare e ti spatasci contro uno snowboarder scavezzacollo. Ti dimentichi talmente tanto del tuo ruolo manageriale che qualche virus si impadronisce del tuo intestino. Mio papà si intristiva molto soprattutto nei casi limite, quando rientri da una gitarella fuori porta con la famigliola e vedi qualcuno che si è stampato sulla strada e pensi che, in effetti, un’indigestione tutto sommato è il meno peggio. Anche a me è andata di lusso. Ieri ho passato il pomeriggio al pronto soccorso perché mi si è conficcato il riff di chitarra di “Libera nos a malo” di Ligabue in un piede. Non sapete quanto detesti il cantante emiliano, forse per questo che mi ha fatto infezione. Camminavo scalzo in un parco e qualche comitiva di persone dai gusti discutibili deve averla cantata in coro, con l’accompagnamento di una chitarra acustica suonata però dal solista di una delle ennemila tribute band che infestano il paese. Vi ricordate l’alone viola dello spot sull’AIDS? Ti pungevi con un ago infettato e senza bisogno di Instagram ti prendevi un filtro da cui non c’era verso di tornare indietro. Ecco. Ho calpestato il riff di chitarra di “Libera nos a malo” di Ligabue e ho iniziato a cantarmela e ricantarmela nella testa. Mio nonno catturava le vipere nelle pietraie per venderle al farmacista del paese da cui poi si ricavava l’antidoto per il veleno. Con lo stesso obiettivo sarebbe il caso che qualcuno si prendesse la briga di raccogliere i residui di musica elementare da terra, anche se l’ideale sarebbe che nessuno lasciasse incustodite le hit banali ma, finiti i propri porci comodi con Vasco e quelle robe lì da scampagnata, pulisse tutto. Comunque poi è finita bene, la medicina ha fatto progressi ed è bastata una playlist di quelle che dico io per limitare la diffusione dell’infezione. Lanciamo comunque una campagna contro i riff che se ti prendono poi non te li togli più di dosso perché è vero che ci sono quelli piacevoli ma, come sapete, la madre dei negozianti che vendono chitarre elettriche a gente del calibro di Ligabue è sempre incinta.

dietro a un grande uomo che cade sulla terra ce n’è sempre uno che si perde nello spazio

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Forse non tutti sanno che anche noi italiani abbiamo avuto la nostra “Space Oddity”, e non mi riferisco alla struggente “Ragazzo solo, ragazzo sola” che con la fantascienza c’entra ben poco. Erano i tempi della conquista dello spazio e dei suoi impatti sulla cultura, musica compresa. Di lì a poco si sarebbero imposti i Rockets con i loro capoccioni impiastrati di giallo oro, ma fino a quel momento quando il saggio indicava la luna i giovani di allora vedevano solo ed esclusivamente il Maggiore Tom orbitare da qualche parte lungo scenari kubrikiani. Chissà, forse anche da questa parte delle Alpi c’era un crescente desiderio di colonizzare lo spazio e di perdersi nel vuoto cosmico per non trovarsi mai più e vedere di nascosto l’effetto che fa. E di una canzone come quella di Bowie che potesse assurgere a manifesto di casa nostra delle ambizioni in assenza di gravità non c’era traccia. Almeno non nei circuiti tradizionali della tv di stato e delle manifestazioni estive di genere, perché probabilmente nell’ambiente di quello che in seguito verrà categorizzato sotto la bandiera del rock progressivo qualche composizione a tema ci sarà sicuramente stata.

In questo contesto i Dik Dik presentarono a Canzonissima – siamo nel 1974 – una ballata dedicata a un esperimento aerospaziale finito male con tutti i risvolti strappalacrime del caso. L’uomo che sparisce nel suo razzo mentre è in viaggio per Giove e, prima di esalare l’ultimo non-respiro considerando l’assenza di ossigeno, lancia il suo messaggio alla terra con un triplice “Help me”. In sala controllo c’è la moglie che assiste al tragico esito dell’operazione, come se non bastasse in grembo porta il primo figlio del capitano Mc Kenzie, a nulla servono i tentativi di salvare l’astronauta da qui. Era un diciotto settembre, e tre anni dopo la vedova che non ha nemmeno avuto il corpo del marito scomparso su cui piangere racconta le gesta dell’eroe di famiglia al proprio figlio. Gli parla di un uomo vestito d’argento per dare un volto a una voce registrata su un nastro che chiede aiuto disperatamente, senza sapere da dove. C’è poco da ridere perché non è per nulla patetico, tutto ciò. Il duca bianco sarà il duca bianco, ma io avevo sette anni e questa cosa del figlio che non conosce il papà perché è morto nello spazio mi faceva piangere come niente altro. p.s. ne parlano anche qui.

se ci sono più di tre accordi non è jazz, è un compromesso storico

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Poche cose mi danno sui nervi come le traduzioni in italiano delle canzoncine presenti nei telefilm e nei cartoni animati – eccezion fatta per gatto rognoso bel gattone puzzi come un caprone, che comunque ha un suo perché – e i pezzi venduti come appartenenti a un genere musicale solo perché di quel genere hanno una caratteristica come il ritmo, la struttura, o la successione degli accordi, o qualche intento dichiarato nel testo, ma in realtà puzzano di operazioni commerciali per sfondare in target non pertinenti lontano un miglio. L’esempio più eclatante, giusto per farvi capire a cosa mi riferisco, è quel vecchio successo di Stevie Wonder intitolato “Master Blaster (Jammin’)” che, nel 1980, ha fatto il pieno di primi posti in classifica e dischi venduti. Il brano in questione ha un valore encomiabile in quanto tributo a un Bob Marley ancora in vita ma già leggenda della cultura giamaicana, quindi nulla da dire se non su un aspetto di pura estetica musicale. Il pezzo viene spacciato come reggae perché ha il ritmo in levare, ma del reggae inteso come genere musicale non ha nulla. Il cantato, il giro armonico con tutti quegli accordi – il roots reggae è decisamente più elementare – e soprattutto quell’andamento di batteria shuffle alla “Jammin'” di Marley (che è già comunque un pezzo piuttosto pop a sé) che risponde all’idea che ha di reggae il pubblico che il reggae proprio non lo ascolterebbe se non dalla voce di Stevie Wonder. Ma è il jazz, soprattutto, a essere landa di facile conquista, complice il fatto di essere oggetto di sforzi trasversali per portarlo alle masse il che, lasciatemelo dire, è un’operazione di pura follia. Il jazz ha imboccato un percorso che lo ha portato anni luce lontano da noi con l’emancipazione della cultura afro-americana dagli anni 60 in poi, sviluppando un linguaggio per fare quadrato intorno a un movimento che si batteva per i propri diritti, questo con tutti i dovuti spin-off e scusate se sto generalizzando. Un’espressione radicale e complessa. Non a caso, con il jazz o sei dentro o sei fuori. Poi però si sono presentati gli sperimentatori con i suoni lunghi e rarefatti, gli accordi aperti, gli echi sugli strumenti, i bassi fretless e certe infiltrazioni new age che con le fronti imperlate di sudore dei batteristi neri stonano un po’. Ieri ho sentito una roba presentata come jazz con la voce di David Sylvian su Lifegate Radio che, ragazzi miei, mi ha fatto rabbrividire, e mi spiace non averla trovata per sottoporla anche al vostro giudizio. Mi sono precipitato così a cercare la cosa migliore per riequilibrare le dinamiche del mondo, rendere giustizia alla storia e mettermi in pace con il genere umano.

alle origini del mito

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Concludo questa settimana dedicata all’amore e dintorni con una di quelle storie che nascono nelle sale prove o comunque tra musicisti, laddove cioè due che si innamorano non hanno nemmeno bisogno della “loro canzone” perché di musica ce n’è fin troppa. Erano un trio e si erano dati il nome di una città immaginaria tratta da un celebre (quanto sopravvalutatissimo IMHO) libro di Tolkien perché, fondamentalmente, suonavano quel tipo di musica che piace a quel genere di lettori lì. I celti, il folk, gli sifolotti, i violini e sopratutto le voci femminili che ti fan venire voglia di ubriacarti di birra scura e fare la corte alla cantante.

E infatti il chitarrista acustico del trio era perso della vocalist, con quel timbro da tramonto con capelli al vento su bianche scogliere dei mari del nord e arpe e violini e altri strumenti da immaginario fantasy. Se ti innamori di una che incarna gli ideali estetici di un target che al secondo boccale di Guinness ti invita a darci dentro con la giga – e che pezzo di giga, nonostante il facile doppio senso – sai che patimenti a ogni concerto. Infatti lui si destreggiava tra arpeggi e pennate senza riuscire a toglierle gli occhi di dosso mentre lei vocalizzava tutto un universo fatto di quella materia che non si sa bene se sia mai esistita al di fuori di certa letteratura. Il terzo che completava il trio non conta, era un nerd degli strumenti a fiato artigianali che si faceva arrivare da qualche sedicente bardo agli albori del commercio elettronico pagandoli un occhio della testa.

Inutile dire che colei che sembrava uscita da una favola medievale aveva nei confronti del suo spasimante chitarrista quel tipico comportamento utile a tenere sempre gli uomini sulle spine senza che poi si giunga mai a conclusione. Che poi in un tripudio di astrazione la carnalità avrebbe persino sfigurato. Fareste mai sesso con un angelo, ammesso che gli angeli abbiano un sesso? Per farla breve, la cosa andava avanti così con questa tensione platonica monolaterale fino a quando si avviò un gemellaggio con un altro trio molto più terra terra. Un sodalizio nato per caso una sera in locale della provincia più profonda dove i due mini-gruppi avevano condiviso il palco e, risultandosi simpatici reciprocamente, avevano deciso di invitarsi in modo da raddoppiare le opportunità di suonare in giro. Era un trio anche con una venatura goliardica. Alternava classici della canzone d’autore a versioni kitsch come “le bionde trecce e gli occhi azzurri” cantata sugli accordi di “Smells like teen spirit” oppure un medley di “Adesso tu”, “Sabato pomeriggio” e “Come mai” con strofe, ponti e ritornelli alternati. Ma non è stato il tastierista autore di simili arrangiamenti a fare casino, quello è innocuo e lo conosco bene.

Il cantante, che era quello che aveva insistito più di tutti ad approfondire la partnership, era invece un vero e proprio professionista del broccolaggio in ambito musicale, e potete immagine come è stato complesso convincere il chitarrista del gruppo folk che non era detto che i due front-man e front-woman facessero le cose seriamente dopo che una sera, a fine esibizione, erano spariti evidentemente insieme senza nemmeno smontare le rispettive aste porta-microfono. Ed è finita che i due terzetti di lì a breve si sono sciolti – d’altronde accompagnereste mai una cantante di cui siete pazzi d’amore ma che se la fa con un componente di un gruppo da pianobar dopoché le avete fatto la corte per anni? – mentre i due cantanti sono stati felicemente sposati fino a qualche tempo fa, fino a quando lei un bel giorno è partita per l’Irlanda e, da allora, se ne sono perse le tracce.

l’invidia del Fallon

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Il Post, che è una gran bella invenzione soprattutto per l’intelligenza dei suoi commentatori, ha due grossi limiti: il marito renziano della presentatrice renziana del Grande Fratello che lo dirige e, talvolta, un certo modo un po’ provincialotto di presentare le cose degli altri, all’interno di articoli senza capo né coda su tematiche lasciate allo sbando ad autori un po’ meh. Non che io lo sappia far meglio, eh. Però, insomma, per scrivere sul Post secondo me occorre avere i numeri. Ieri per esempio ho letto questo articolo qui su Jimmy Fallon, e se gli avete dato un’occhiata possiamo permetterci un paio di riflessioni.

Delle tonnellate di entertainment televisivo in salsa talk e rotti che viene prodotto e trasmesso dalle reti USA, a noi che resistiamo solo con la tv pubblica e digitale ci arriva ben poco. Il Letterman in differita su RAI5 e una marea di link grazie al web, ai feed dell’informazione americana a cui siamo registrati, e ai rilanci dei nostri siti di news. Grazie a uno di questi canali ho conosciuto tempo fa Jimmy Fallon, presentatore comico attore ballerino cantante tuttofare di una serie di programmi della NBC che portano il suo nome e che fanno il pieno di spettatori da un bel po’ di anni. L’ho conosciuto per la forte connotazione musicale del suo show. Ci sono ottime esibizioni dal vivo, un po’ come da Letterman, ci sono i Roots in pianta stabile come orchestrina “resident”, ci sono intelligenti trovate di buon gusto come le cover eseguite con i veri interpreti del brano accompagnati da “classroom instruments”, gli strumenti musicali suonati dai Roots che si usano a scuola o, meglio, nelle scuole americane durante l’ora di musica, e considerate che qui da noi ci sarebbe solo un’orchestra di flauti dolci.

Ora, l’articolo in questione prende di mira lo showbiz a stelle e strisce che fa showbiz su se stesso partendo da Madonna che, in uno di questi siparietti di Fallon, canta “Holiday” nella riduzione per melodica, kazoo, glockenspiel e via dicendo. Non entro nel merito del senso dell’articolo perché – è un mio limite – non c’ho capito un cazzo. Ma, se posso permettermi, “la celebrazione della celebrità” e “la reiterazione di un meccanismo promozionale in cui l’oggetto della promozione sparisce” temo siano lo specifico della narrazione televisiva di programmi come questo, e il successo che ha sul pubblico – e non dobbiamo sottovalutare gli americani perché gli americani sono molti di più di quelli che possiamo immaginare – lo si deve proprio a un indotto che è costituito dalla fama delle star fuori contesto, applicata a ogni tematica specifica dei vari programmi. Quindi Madonna, ma anche Meghan Trainor o Mariah Carey o la cantante di Call Me Maybe messe a nudo su una base acustica e infantile. O Justin Timberlake coinvolto da Fallon a cantare e ballare la storia del rap in più puntate.

La morale della storia è che, in USA, con le mezze calzette non si va da nessuna parte, non è possibile attirare pubblicità, fare ascolti, guadagnare soldi e ricapitalizzare il capitale dell’industria musicale. Lo so che a noi sembra strano, se pensiamo che qui a tentare di mettere un po’ alla berlina i famosi ci sono solo i reality sulle isole esotiche, i balletti con le stelle, i programmi di Fiorello o le interviste un po’ azzimate di Fabio Fazio. Che poi sappiamo tutti quanto si faccia a gara a farli stare comodi, a non suscitare dubbi sulla lobby cui appartengono, a non rischiare di assottigliare il loro marketshare che, come sappiamo, in Italia è già risibile di per sé. Quindi accontentiamoci delle differite di Letterman e Fallon, di quello che purtroppo a noi non ci è toccato in sorteggio, qui dove gira che ti rigira vedi sempre le stesse facce – in tv alla radio al cinema e su Internet e anche su Il Post – celebrità di provincia nel consolidato ruolo di se stesse, e guai a metterlo in discussione.

uscite la chitarra di Zamboni, su

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Se siete o siete stati musicisti, saprete meglio di me che lo strumento su cui sfogate le vostre passioni o, meglio, lavorate è quasi più importante dei vostri stessi famigliari. A meno che voi non siate il chitarrista degli Who o di altre band iconoclaste che amano infrangere i tabù ancor prima dei ferri del mestiere – e che ferri – lo strumento musicale ve lo portate persino in camera quando rientrate ciucchi persi dai vostri concerti nelle birrerie di periferia davanti ai soliti quattro sfigati che nemmeno vi hanno prestato attenzione. Lo strumento musicale viaggia nel posto a fianco di voi in macchina, in treno e persino in aereo. Entra al ristorante e si piazza tra le vostre gambe come il più affettuoso dei cani con tanto di pedigree. Lo si trasporta in custodie che nemmeno gli esplosivi, gli si sta appresso più di un neonato, lo si mostra con orgoglio ad amici e parenti più di qualunque partner in amore. Lo si porta dallo specialista con cadenza regolare per preservarlo da qualunque malanno, ha un suo set per l’igiene personale, ha una sua stanza dove lasciarlo giocare con i suoi amici preferiti. Ci sono tonnellate di aneddoti sul rapporto viscerale che sussiste tra un musicista e il suo strumento, ne conosco davvero a pacchi e magari un giorno li metterò per iscritto. Ricordo, per esempio, quando il mio gruppo suonò prima di un comizio di Bertinotti in una piazza di Parma l’ultimo giorno di campagna elettorale delle politiche del 96, quelle che poi vinse l’Ulivo, la Canzone Popolare, quei begli anni lì. Bertinotti argomentava e dietro di lui c’eravamo noi con tutti i nostri strumenti montati sul palco, pronti a partire non appena avesse finito di parlare. Poi il dramma. C’era vento, e un frammento del suo sigaro è volato sul fa della prima ottava del mio Yamaha SY85 facendo un bel buco. Sapete, le tastiere dei synth sono di plastica. Una tragedia che ha messo alla prova la mia fede politica di allora, avrei dovuto pensare bene dove concentrare i miei ideali. Vabbè.

Ora ieri si è consumata una tragedia. Sulla sua pagina Facebook Angela Baraldi ha pubblicato questo annuncio, che vi riporto “as is”:

LA CHITARRA DI MASSIMO ZAMBONI GIBSON DELUXE 1969 SMARRITA NEL PARCHEGGIO DELL’ARCI TOM DI MANTOVA

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IMPORTANTE!!!
MESSAGGIO RICEVUTO DA MASSIMO ZAMBONI E DALLA SUA CHITARRA
una Gibson Deluxe del 1969
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CHIEDO AIUTO A TUTTI! Ieri sera ho commesso una delle sciocchezze più grandi che potessi commettere, lasciando la mia storica chitarra Gibson nel parcheggio dell’ARCI TOM di Mantova. Ovvio che non ne è rimasta neanche l’ombra, e a me è rimasto un malincuore che non avrei mai supposto. Non voglio affliggervi, ma vi chiedo la cortesia di allertare tutti i vostri eventuali amici mantovani, o chiunque senta parlare di un ritrovamento miracoloso, o chiunque si senta offrire una Gibson d’epoca… contattatemi. Prometto ovviamente una ricompensa, ma questo sarà solo una parte della mia gratitudine. La chitarra è una Gibson Deluxe del 1969, colore oro, con meccaniche non originali, pick up mini humbucking – Grazie davvero,
Massimo Zamboni info@massimozamboni.it
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Oggigiorno, come sapete, rubano di tutto. A me hanno portato via il fanalino di una bici scassatissima, prima di portarmi via pure la bici. Una delle tre che mi hanno rubato. Questo per dire. E anche se il colpo l’ha messo a segno la più ignorante delle bestie di strada, che da una chitarra qualcosa ci si ricavi al mercatino delle pulci lo sanno pure i bambini. Posso immaginarmi la gioia di chi ha avuto la fortuna di portarsi a casa una Gibson Deluxe del 1969, per di più di un ex CCCP.

Ma il punto è un altro, e lo metto per inciso qui, diretto al destinatario: Massimo, cosa ti è venuto in mente? Come hai potuto lasciare la tua chitarra incustodita? Come è possibile dimenticarsi di uno strumento musicale? A cosa pensavi? Quale preoccupazione ha obnubilato la tua concentrazione tanto da non accorgerti dell’assenza di una parte consistente di te? Comunque non voglio infierire più di quanto non abbia già fatto il destino nei tuoi confronti. Anzi, da queste pagine la massima solidarietà. Ti siamo vicini, Massimo. Magari chi ha preso la tua chitarra passerà di qui e leggerà questa dichiarazione d’amore universale rivolta da chi suona a chi traduce il nostro amore in vibrazioni, qualunque esse siano.

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la formula è (solo una terapia)x34

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Ai tempi delle affinità e divergenze tra il compagno Togliatti e noi del conseguimento della maggiore età non esistevano i testimania e azlyrics che ci sono oggi, fondamentalmente perché non c’era nemmeno l’Internet, così per imparare a memoria o seguire i testi oltre a consumare i solchi dei vinili l’unica via facilitata erano i canzonieri e gli spartiti che, però, costavano un occhio della testa. Senza contare che i CCCP ancora grazia che facevano i dischi, figuriamoci rientrare in una pubblicazione che la cosa più trasgressiva che aveva in catalogo erano i Nomadi di cielo grande cielo blu.

E nel caso dei testi di Ferretti l’ascolto ripetuto non aiutava nella comprensione delle parole, un po’ per i testi stessi, un po’ per il suo modo di parlare sui pezzi, un po’ per il missaggio che teneva la voce molto in secondo piano rispetto a come siamo abituati a percepire i cantanti. Ai tempi andava di moda giustificare questa scelta dicendo che in fondo la voce è uno strumento come gli altri. Un cazzo, permettetemi la finezza. Se mettessi le mani io sulle bobine di quel disco lì dei CCCP alzerei la traccia della voce di almeno un paio di tacche per evitare ai posteri le figuracce che facevamo noi con le ragazze intellettual-alternative fraintendendo la maggior parte del significato dei brani tanto che ci era impossibile sia scriverne i passaggi correttamente sul diario o sui banchi di scuola, sia cantare le canzoni ai concerti senza gli sguardi divertiti delle persone intorno. E non mi riferisco a un pezzo come Allarme, in cui Ferretti è talmente basso prima del (diciamo) ritornello che non sembra nemmeno dica cose di senso compiuto. Sempre che ne dicesse, eh. Poi è arrivata la rete a salvarci, e da allora è stato possibile con un clic accedere agli astrusi testi di Ferretti e vi assicuro che le divergenze con l’originale erano molto di più di quelle che ci immaginavamo e, soprattutto, con il compagno Togliatti. Qualche esempio?

(quello che io capivo e cantavo/che cosa dice il testo)
traccia 1: CCCP

Ricordati la pelle, organizzata/Come una malattia della pelle localizzata
ogni limitudine e chanche, un disturbo residuo/Ogni irripetibile chance un disturbo residuo
Pravda, Rude Pravo, Tribuna Ludu, KGB
un altro te, un uomo nuovo/Altroché nuovo nuovo
sensazionale, aspettare per l’occasione propizia/Sensazionale afferrare l’occasione propizia
indicati da una crocetta, la qualità la qualità desiderata/Indicare con una crocetta La qualità, la quantità desiderata
fedeli alla linea, CCCP, SSSR
fedeli alla linea, la quale non c’è/Fedeli alla linea, anche quando non c’è
quando uno è malato, quando muore, o è dubbioso, o è depresso/Quando l’imperatore è malato, quando muore o è dubbioso o è perplesso
fedeli alla linea, la linea non c’è
fedeli alla linea, CCCP, SSSR
un altro te, un uomo nuovo/Altroché nuovo nuovo

traccia 3: MI AMI (la parte veloce)
sei bello allucinato, la situazione estrema/Io attendo allucinato la situazione estrema
non hai un bisogno liquido ti vende la tua pelle/Un grande sogno nitido chiedendo alla tua pelle
se accusi il barbiere un’amorosa quiete/Con dita di barbiere un’amorosa quieta
sfioranti come a caso con l’aria imbarazzata/Sfiorarti come a caso con aria imbarazzata
la costola pesante, devolvo la pensione/Atmosfera pesante, elogio alla tensione
tranquillità assoluta

un rapimento, un’estasi
sul punto delicato
questa non è una dialettica fragile e leggera/questa non è una replica facile e leggera
non è una mossa tattica
mi ami?

un’affinità elettiva o quale futuro/L’affinità elettiva è orfana di futuro
oscuri i progetti se gradisci la quiete/Disturba i progetti, rapisce la quiete
spera i posti sospeso/Svela i conti in sospeso
accarezzati il sogno/accarezzati in sogno
in tempo scassato che gira, rigira/in un tempo spezzato che gira, rigira
ritorno all’inizio
non vuole finire
mi ami?
smettila di parlare, avvicinati un po’

traccia 5: Valium Tavor Serenenase
Il Valium mi rilassa
il Serenase mi stende/Il Serenase mi distende
il Tavor mi riprende
cerchi l’energia/C’è chi mi dà energia
e chi la porta via

e voi cosa volete
dite cosa vi fate/Di che cosa vi fate?
dov’è la vostra pena
qual è il vostro problema
perché vi batte il cuore
per chi vi batte il cuore
meglio un medicinale che una storia infernale/Meglio un medicinale a una storia infernale
meglio ti batte i nervi o dei più batte i nervi/Meglio giornate inerti o dei capelli verdi
eppur tutto va bene, va tutto bene/Eppur tutto va bene, va proprio tutto bene
malgrado l’appetito il Valium per dormire l’ho finito/Manca un po’ l’appetito e il Valium per dormire l’ho finito