da un punto di vista musicale e non solo torino > milano: una veloce recensione del concerto dei tv on the radio di ieri

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Quella linea virtuale di continuità socio-culturale che lega da più di un secolo le due operose metropoli di Milano e Torino e che oggi viene in più occasioni riconosciuta come un fil rouge che unisce indissolubilmente due realtà così uguali ma così diverse un bel cazzo: la linea è un’autostrada in carne e ossa che, andata e ritorno, costa ventotto euro e venti centesimi. Cinquataseimila delle vecchie lire da aggiungere al prezzo dei biglietti dei concerti e delle iniziative che sono capace anch’io a fare i festival e a spennare gli abitanti di due città per far girare l’economia. Ecco, il sassolino me lo sono tolto e ora posso rimarcare tutto il mio apprezzamento non per il MITO festival che deve ancora incominciare (si tiene a settembre). Piuttosto per la prima delle tre date del Todays Festival a cui ho partecipato ieri sera. Già, sono fresco fresco di concerto dei Tv On The Radio e talmente gasato da lanciarmi in una breve quanto inutile recensione.

Da un punto di vista prettamente musicale che volete che vi dica: ieri parlavo del pantheon dei gruppi di sempre e così sui due piedi è facile tentare un’analoga lista dei gruppi attuali in cima a una classifica personale che vede, appunto, i Tv On The Radio insieme a The National, Interpol e Foals. Da qui il valore artistico del concerto di ieri lo si può sbrigare in due parole: semplicemente fantastico. A parte il fatto che hanno suonato pochino – quindici pezzi – per il resto sono stati impeccabili. Hanno reso le canzoni della scaletta attraverso un’efficace componente elettrica e acustica con l’inserimento di parti eseguite live al posto di quelle elettroniche che rendono solo sul disco e apparirebbero troppo freddamente confuse in un concerto, di questo ne avevo già avuto un assaggio andando a spulciare su youtube le loro esibizioni ai programmi tv come il Letterman. Dal vivo il loro stile eterogeneo poi rende alla grande. I passaggi dalla new wave al funky al trip hop alla sperimentazione sia separatamente che tutti insieme fanno dei Tv On The Radio davvero il gruppo più eclettico e interessante sulla piazza. Hanno iniziato con “Young liars” e ci hanno salutato con una versione tiratissima di “Staring at the sun”, quindi malgrado i numerosi album e le varie hit pubblicate non hanno avuto problemi a farci ascoltare due successi così vecchi del loro repertorio.

Ecco, tutto questo basta e avanza e posso finalmente congedarmi con un paio di note solo apparentemente trascurabili. Intanto l’elevata percentuale di gente tra il pubblico come me, con i capelli grigi e non più giovanissima, segno che presto i cinquantenni guideranno il mondo e imporranno finalmente il loro gusto come fattore decisivo nelle scelte artistiche dell’offerta culturale. Diciamo basta all’organizzazione di concerti per ragazzini che tanto sprecano i soldi dei genitori per intasare gli spazi pubblici e privati con musica di merda e passano il tempo con lo smartcoso in mano a fare foto e video che poi non rivedranno mai.

Per il resto, una serie di botte di culo da record: ho trovato parcheggio praticamente davanti all’ingresso dell’area concerti e non mi sono perso in macchina in una città che non conosco granché, poche zanzare, incredibile assenza del solito tizio alto uno e novanta che si mette costantemente davanti a me che sono uno e ottantasei, nessun esagitato nei pressi che balla inappropriatamente e fuori tempo, gruppi spalla tutto sommato piacevoli. Peccato solo per certe frequenze che ormai quelli come me non percepiscono più, non vi dico la fanfara di ronzii e acufeni nel buio della notte mentre cerco di mettere insieme questa paginetta di ricordi prima che vadano persi. Ci sarebbero anche gli Interpol domenica sera, al Todays Festival di Torino, ma so già che lì non mi andrebbe così di lusso.

che bella canzone

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“Che bella canzone” è un giudizio affrettato che si esprime verso composizioni musicali che si valutano positivamente con la pancia lì per lì ma delle quali non se ne apprezza in toto l’autore se non che per quel caso specifico e tantomeno se ne condividono la genesi e gli scopi, solitamente riconducibili alla categoria del fare soldi o del fare dire agli ascoltatori casuali giudizi sommari come “che bella canzone”. Una tesi che vi dimostrerò per assurdo: se siete fan dei Police, per esempio, direste mai “che bella canzone” sulla coda che sfuma di “Roxanne”? Chiaro che si tratta oggettivamente di una bella canzone, ma i Police sono i Police e se ne apprezza l’opera omnia, pur con i suoi alti e bassi. Ma “Roxanne” resta un dato di fatto. Direste mai che “Once in a lifetime” è una bella canzone? Stesso discorso di prima in quanto si tratta di un brano da ascoltarsi all’interno di un contesto di tutta la produzione dei Talking Heads in quanto gruppo fondamentale nella comprensione della musica moderna nonché facente parte dei cinque mostri sacri del mio pantheon musicale (insieme a Bowie, Genesis con Peter Gabriel, The Cure e appunto i Police).

Risulta facile invece esclamare “che bella canzone” alla radio perché la radio resta il mezzo che vanta un genere specifico tutto per sé che è quello dei radio edit, appunto, una sotto-categoria dei singoli che comprende non solo i singoli (come potrebbero essere “Roxanne” o “Once in a lifetime”) ma anche i singoli one shot, brani pubblicati da interpreti o autori che non hanno una storia, saturano il mercato della musica usa e getta, vendono qualche milione di copie o fanno qualche miliardo di clic su youtube con un pezzaccio ma non hanno velleità alcuna di dare continuità alla loro vena artistica. Non mi riferisco necessariamente ai tormentoni perché quasi mai, al cospetto di un tormentone, ci viene da dire “che bella canzone”, piuttosto a certi pezzi riusciti ma avulsi da un progetto e concepiti da gente che poi, in tutta la carriera, a malapena riesce a mettere insieme abbastanza composizioni da fare un the best of o addirittura da permettersi concerti dal vivo in autonomia.

E ho pensato alla categoria musicale riconducibile a un giudizio affrettato e sommario come “che bella canzone” perché qualche giorno fa, in macchina, ho girato non so su quale stazione radio che stava trasmettendo “Crazy” di Seal e mi è venuto spontaneo commentare a mia moglie la selezione così, dicendo proprio “che bella canzone”. Capito, no? Seal è tutto sommato un cantante con una sua dignità ma che sarà per sempre ricordato solo per quel pezzo lì, e anzi, se devo dirla tutta, preferisco di gran lunga la versione di Alanis Morrisette. Quella sì che è proprio una bella canzone.

scaricare canzoni da Internet e scaricare l’Internet nelle canzoni

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Quindi si può considerare il pop come un mass media se il mezzo è il messaggio? E che ne so io, ma vi sembrano domande da farsi? Non siete capaci di andare su Google e cercare le risposte ai vostri quesiti? Ammesso che sia d’accordo con voi, posso concedervi il fatto che certe canzonette amplificano alcuni dei grandi temi sociali della contemporaneità: i menestrelli si fanno cantori di quello che accade e, oltre a parlare d’amore e aspetti collaterali come corna, sesso, turbamenti e gelosie, talvolta espongono nei loro potenziali successi argomenti dell’attualità con un approccio più o meno impegnato. Quindi dopo il Vietnam, le barricate in piazza fatte per conto di chi crea falsi miti di progresso, la depressione economica e persino l’uomo sulla luna anche l’Internet ha avuto la sua bella celebrazione nella hit parade. D’altronde la rete, i suoi contenuti e le dinamiche sociali che ha imposto costituiscono un elemento decisivo della vita contemporanea dell’uomo ed è giusto che ci siano canzoni il cui linguaggio abbia riferimenti dall’uso che facciamo della tecnologia. Ma considerando che siamo freschi di questa invasione digitale a volte l’ingenuità con cui alcuni termini di moda vengono forzatamente imposti per attirare l’immaginario collettivo e, conseguentemente, sfruttarlo per vendere dischi fa un po’ sorridere. Un ottimo esempio a proposito è il brano di questa estate che vorremmo non finisse mai di Lorenzo Fragola, uno dei nulla partoriti da Xfactor che ha una forte visibilità in questi giorni su tutti i canali radiofonici e televisivi con una canzone che si intitola “# fuori c’è il sole”, in cui il celebre cancelletto viene addirittura pronunciato “hashtag” nel ritornello. Il che, se vi fermate un attimo a riflettere, è un’ottima idea commerciale, perché se ne valesse la pena e la canzone non fosse la merda che è si potrebbe decretarne il successo riempiendo Twitter con stralci di testo accompagnati proprio con #fuoriceilsole, consentendo così al nulla di xfactor che è Lorenzo Fragola di vedere le proprie parole tra i topic più trend della stagione. Una sintesi di tutto quello che ci circonda sui browser più in auge ma vista attraverso un approccio forzosamente hipster e underground è invece un brano il cui video mi è capitato di vedere per caso su Mtv ieri, “La tipa di Rockit” di Borghese, un vero e proprio bignami dei social network ad uso e consumo di chi nel duemila e rotti si atteggia a musicista alternativo in Italia. Borghese (che giuro non so assolutamente chi sia) traccia un identikit dei giovani musicisti d’oggi assolutamente condannati a perdersi nell’indomita forza dispersiva di Internet. Pensate a quanto la rete e i social network sono in grado di annullare la nostra vita con l’incommensurabile surrogato di conoscenza che illusoriamente ci mettono a disposizione. Innegabile, a dimostrazione di ciò, il fatto stesso che tra i giovanissimi siano sempre meno quelli che scelgano la musica come hobby, oramai i passatempi in rete vanno per la maggiore a scapito delle più tradizionali forme artistiche che anche solo la mia generazione ha praticato con più o meno successo. Peccato che il risultato del brano in questione sia discutibile e autoreferenziale, il che è la prova che appunto oggi in Italia il rock è morto da almeno una decade e al massimo ci appare in sogno a suggerirci numeri del totocalcio sbagliati perché ad avergli dato il colpo di grazia qualche responsabilità i social network ce l’hanno. Perché davvero, a questo punto preferisco i veri precursori dell’Internet cantata, che sono stati indiscutibilmente quelli che trovate qui sotto.

guarda il video di mille persone che suonano “In the cage” per chiedere a Peter Gabriel di tornare nei Genesis e fare un tour con almeno una data in Italia

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Oggi voglio insegnarvi invece come si fa a fare i musicisti di successo nell’era della musica digitale che ha distrutto l’industria discografica e, conseguentemente, ridotto sul lastrico milioni di rockstar oramai con le pezze al culo per non vendere più un disco nemmeno a prezzi stracciati. Prendete esempio dai Wilco. Qualche giorno fa i Wilco hanno reso disponibile al download gratuito il loro nuovo album Star Wars: è sufficiente recarsi sul loro sito, inserire la propria e-mail e il gioco è fatto. Io l’ho scaricato, i Wilco mi piacciono abbastanza anche se devo dire che questo nuovo album mi sembra un po’ meno interessante di “The Whole Love” che, invece, era una bomba. Probabilmente devo ascoltarlo con maggior attenzione. Comunque avete capito come funziona: tanto gli mp3 da qualche parte si trovano, quindi perché non distribuirli subito, un po’ come quelle mamme che compravano le sigarette ai figli per evitare che le scroccassero agli amici, trovandole magari ripiene con l’aggiunta di sostanze più divertenti del tabacco.

Tanto, alla fine, il guadagno i Wilco lo fanno suonando in giro, mica vendendo i dischi. I Wilco però sono delle brave persone perché ti dicono, una volta che hai scaricato l’album digitale, che ascoltare la musica gratis è bello ma sarebbe corretto ripagare in qualche modo l’esablishment. Per esempio comprando uno o più dischi di una lista di album di band che piacciono ai Wilco. Ho provato per voi i nomi di quella lista ma, a essere sincero, non sono un granché. Di questo elenco ho trovato solo molto interessanti i Parquet Courts, una band di texani emigrati a Brooklyn che fanno un genere che ricorda in parte Lou Reed con qualcosina degli Strokes, sentite per esempio questo pezzo qui.

Ma, a parte questo, fare i buoni e gli altruisti in un ambiente come quello della musica alla fine ripaga. Voglio dire, i Wilco con questa mossa si sono dimostrati dei veri signori dello starsystem, l’attenzione per il prossimo – quando il prossimo è rappresentato da band emergenti – è un gesto di bontà anomala per i tempi che viviamo.

Ma il mio eroe, da questo punto di vista, resta indiscutibilmente Dave Grohl, ne abbiamo già parlato altre volte. L’ex batterista dei Nirvana è un altro bonaccione, e sembra che sia facile tirarlo dentro in qualsiasi iniziativa perché dimostra entusiasmo in qualsiasi cosa faccia, come circondarsi di vecchie rockstar per celebrare un tributo all’autorevolezza della terza età in ambito musicale, e mi riferisco alle numerose incursioni di gente del calibro di Jimmy Page o altri vetero-metallari sui suoi palchi.

Avrete senz’altro seguito ieri l’esponenziale diffusione del video dei 1000 musicisti che, con un’esecuzione record di “Learn to fly”, hanno chiesto a Dave Grohl di portare i Foo Fighters dal vivo a Cesena. Nel giro di pochissimo tempo il video è giunto ai piani alti dei social network ed è stato ripreso da vari magazine musicali e non, fino a transitare come da copione dai canali ufficiali e dai siti di informazione per arrivare ai destinatari con la velocità che contraddistingue la viralità sul web. Dave Grohl sembra aver apprezzato l’iniziativa, e come sarebbe possibile non commuoversi di fronte a una tale attestazione di amore e stima, così presto assisteremo al concerto della sua band in Italia, come nel video in questione era espressamente richiesto.

Chissà se qualche altra rockstar dal cuore meno tenero avrebbe fatto lo stesso. Ieri sera, per esempio, vedevo un documentario della BBC sui Genesis che, intervistati lo scorso anno al completo, quindi con Peter Gabriel, hanno comunque dimostrato di essere rimasti sulle stesse posizioni che avevano indotto il cantante a intraprendere la carriera solista dopo il tour di “The lamb lies down on Broadway”. Se non l’avete visto ve lo consiglio. Si intitola “Genesis: Sum of the Parts” e trasuda presunzione di Tony Banks (il tastierista, qualora non lo conosceste) da tutti i fotogrammi. Questo per dire che anche se ci mettessimo in un milione a suonare tutti insieme “In the cage” per implorare una loro reunion, scommetto che la cosa non andrebbe in porto, sia perché le incomprensioni tra loro sono rimaste tali e quali anche perché trovare così tanti musicisti in grado di suonare un brano dei Genesis la vedo dura.

le ragazze del secondo piano

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Vorrei essere una ragazza solo per aver avuto la fortuna, da giovane, di esser presa sulle spalle da qualcuno per gustarmi un concerto al secondo piano umano della bolgia sotto il palco. Non serve essere frequentatori dei live per avere questa ambizione. Se avete mai provato l’ebbrezza del primo maggio in casa davanti alla tv, sapete di cosa parlo. Le ragazze del secondo piano della bolgia ai concerti sono invece spesso in primo piano alla tv fino a quando poi non si accorgono di essere inquadrate e lì si rompe il giocattolo e il regista passa a qualcun altro. Sono in reggiseno o maglietta succinta, in genere sono bellocce e amano essere al centro dell’attenzione e, manco a dirlo, hanno sotto di loro un ragazzo in friendzone a cui non la daranno mai ma comunque entusiasta nell’accondiscendere ogni capriccio della ragazza che aspira a salirgli sulle spalle. Il problema subentra per chi sta dietro. Chi si arroga il diritto di vedere il concerto dal secondo piano della bolgia se ne fotte altamente di chi improvvisamente si vede rovinata la sua esperienza di ascoltatore, dal momento che anche l’occhio in un concerto vuole la sua parte. E la schiena della ragazza del secondo piano della bolgia non è mai all’altezza dello spettacolo ma, comunque, a un’altezza tale da rompere i coglioni al prossimo alle spalle. Benvengano quindi i lanci di bottiglia e qualunque cosa come tentativo di far desistere ogni ragazza del secondo piano della bolgia. Poi un’altra cosa che non sopporto è il fatto che, da lassù, hanno anche la presunzione di dimenarsi cercando di seguire il tempo aumentando così la portata del danno arrecato al pubblico costretto a vederla e all’aspirante fidanzato sotto, costretto a interpretare ogni movimento come uno stimolo a muovere la gamba corrispondente in modo da assorbire la forza impressa dalla ragazza sopra e scaricarla con la giusta direttrice secondo le più banali leggi della fisica. Così, se siete ragazze che aspirate a salire al secondo piano della bolgia ai concerti sulle spalle di qualche vostro spasimante che farebbe qualunque cosa per voi, siate le prime a desistere da questa pratica così volgare e irrispettosa per chi ha pagato quanto voi per questo o quel gruppo dal vivo. Chiaro che poi più l’artista sul palco è di valore e più è sconsiderato il vostro gesto. Per esempio ieri è stato pubblicato questo video in cui i Portishead (sì, proprio i Portishead) hanno chiamato sul palco Thom Yorke (sì, proprio Thom Yorke) a cantare The Rip, un bellissimo brano di Third di cui già i Radiohead avevano registrato una cover (che trovate qui e diamine, son già passati sette anni). Se guardate il video qui sotto noterete che dopo pochi secondi, più o meno a 00:45, davanti al fortunato ascoltatore che sta registrando il concerto, due tizie salgono sulle spalle dei relativi friendzoner e iniziano a dimenarsi. Che senso ha, poi dimenarsi su un pezzo come The Rip dove l’unica cosa che potresti fare è inchinarti e salutare con la massima immobilità il trionfo dell’altrui ingegno compositivo e personalità artistica? Per una cosa così potrei anche diventare manesco.

non potremmo aiutarli ad ascoltare musica latinoamericana a casa loro?

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Era scritto su un volantino che qualcuno ha messo nei raccoglitori della posta condominiale nella zona. Un messaggio provocatorio ma condivisibile. C’è un caldo record e già non si riesce a dormire così, poi apri le finestre e almeno due macchine su tre passano con la radio a palla e i ritmi sono sempre gli stessi, con la cadenza da reggaeton riconoscibilissima anche dalle camere da letto. Ora premesso che non ho molti amici razzisti ma anche a me, come agli autori di quella campagna anti-salsa, è venuto il dubbio che sta roba piaccia davvero tanto agli italiani. Oppure i veri invasori sono loro, i ballerini di latinoamericana. Il mix è letale se ci aggiungi le immancabili zanzare e, ciliegina sulla torta, il consorte che russa. Sul volantino si dice basta alla bachata e al merengue estremo ma anche all’hip hop in spagnolo delle gang che gli chiedi il biglietto e ti staccano il braccio con il machete. Il mio parere, se interessa, è che una volta ero tutto per il melting pot e le contaminazioni mentre adesso, che potrei essere un bianco WASP nordamericano se non fosse per alcuni dettagli palesemente magrebini del mio viso, ho iniziato a fare dei distinguo perché mi sembra che dall’altra parte un po’ se ne approfittino. Quasi rimpiango i discotecari che ti svegliavano rincasando con gli echi della loro techno acid detroit o quel che era. A me tutto questo impeto caliente ha rotto il cazzo da un bel po’. Ero comunque indeciso se riporre il volantino nella borsa per discuterne con mia moglie dopo esser rincasato o se gettarlo via prima di entrare nella sala d’aspetto del dottore. Di certo non potevo mettermi a leggerlo davanti agli altri pazienti in attesa di essere ricevuti, c’è sempre qualche rappresentante del sudamerica o individualmente o come accompagnatrice di qualche anziano non più indipendente. Così ho deciso di usarlo temporaneamente come segnalibro ma, manco a farlo apposta, anche lì con le finestre aperte c’era un bel casino. Fuori, nel cortile su cui si affaccia lo studio del mio dottore, un uccellino di non so quale specie rara emetteva un gracidio agghiacciante e ripetuto senza sosta, in una sorta di agonia della natura che, davvero, ti viene voglia di circondarti di animali giocattolo come quelli che vendono gli ambulanti nelle strade turistiche. Non capisco come sia possibile spendere soldi per tenersi in casa animali sgradevoli, sai che due maroni avere tutto il tempo una bestia che emette un verso così repellente. So di persone che tengono in appartamento topi, ricci, serpenti e persino cani aggressivi. Ne conosco alcuni ma mi guardo bene dal metterli al corrente del mio punto di vista. Stessa cosa per chi ha la passione della musica latino-americana, perché è nato da quelle parti o perché a ballarla hai possibilità di finire a letto con qualcuno. Dissimulare il disprezzo, benché ipocrita, risulta comunque un atteggiamento efficace.

un appello agli esercizi commerciali: cacciate i soldi e fatevi Spotify Premium, costa meno di 10 euro al mese

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C’è uno spot di Spotify free, uno di quelli che interrompono la riproduzione acriticamente tanto che, per esempio, ti ritrovi un assaggio dell’ennesimo hit di salsa dell’estate 2015 tra “The happiest days of our lives” e “Another brick in the wall”, che può essere riassunto nel concetto “lo so che ti danno fastidio i nostri annunci pubblicitari, ma d’altronde siamo una società che deve raggranellare introiti e per questo che ti rendiamo l’esperienza d’ascolto un po’ più complessa ricordandoti che, soprattutto se sei un esercizio commerciale, puoi evitare di far capire ai tuoi clienti che sei un barbone che già non paghi la SIAE e in più non cacci nemmeno quei pochi euro al mese per diffondere senza fastidi la musica che vuoi tu”.

E credo che questo spot sia stato creato apposta per quei negozianti che fanno i furbacchioni collegando un laptop all’impianto hi-fi della loro boutique per sfruttare l’apparente gratuità della musica in streaming senza passare alla versione Premium. La cosa paradossale è infatti ritrovarsi ad ascoltare lo spot di cui sopra proprio in uno di quei negozi di abbigliamento che fanno i fighi con le commesse fighe e quando c’è il pienone dei giorni di saldi, e i proprietari non si rendono conto del messaggio tra le righe che appunto è la messa alla berlina della loro italianità pronta a balzare in difesa dell’intelligenza votata a trovare la migliore soluzione al prezzo più conveniente, se poi è gratis ancora meglio. Il dramma è che né gli esercenti, né le addette alla vendita e tantomeno la clientela che si affanna tra le percentuali degli sconti bada a un aspetto così secondario come la colonna sonora del loro shopping in una modalità di erogazione così estranea a una qualunque regolamentazione dei diritti d’autore. Nessuno quindi si accorge che il negozio utilizza un servizio free che, in quel contesto, dovrebbe essere a pagamento proprio perché se malcapitatamente un giorno passasse uno che conosce la differenza tra le due versioni free e premium e poi decidesse di svelare sul suo organo di delazione preferito che il tal esercente è un barbone che non caccia i soldi per l’upgrade alla versione premium, ne deriverebbe un esemplare caso di figura di merda. Ah, non vi ho detto che la versione free la uso anch’io, se no come farei a sapere che tra “The happiest days of our lives” e “Another brick in the wall” può capitare di sentire un brandello dell tormentone salsa dell’estate 2015? Sentite qui che merda, e provate a immaginarla in mezzo a due brani dei Pink Floyd.

grazie tiziano

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E comunque sfatiamo il mito per cui dietro a molta della merda musicale che si sente in giro, alla radio, alla tv, nei negozi e nei centri commerciali, ci sono solo produttori e compositori che a tavolino mettono insieme gli ingredienti di un successo da hit parade e poi restano nei loro studi di registrazione a contare gli introiti che grazie ai nostri gusti discutibili gonfiano i loro conti correnti. Molto spesso ci sono pure musicisti, cantanti, interpreti e gruppi musicali che ostentano con orgoglio le loro produzioni, proponendole pure in concerti live. Infatti se, come me, siete costretti a frequentare il mondo reale là fuori per svariati motivi, se avete un lavoro o anche solo per prendere una boccata d’aria vi imbattete nel genere umano che vive e abita al di là della sfera ristretta delle vostre frequentazioni, avrete notato che non solo i muri sono tappezzati di manifesti di eventi musicali che non avreste mai detto, ma che soprattutto c’è davvero gente che spende fior di quattrini per parteciparvi. Se non ricordo male l’anno scorso, di questi tempi, ho intercettato alcuni selfie su Facebook di persone che condividevano la gioia di essere al concerto dei Modà a San Siro, per esempio. E io pensavo: che cosa ci sarà da essere così contenti? Ma l’aspetto sconcertante è che lo stadio era pieno, il che mi ha indotto ad alcune riflessioni. Dove abita tutta questa gente che ascolta i Modà? Volete dire che se io fermo un campione di passanti qui sotto e gli chiedo dove erano la tal sera alla tal ora mi rispondono “sotto il palco di Checco”? No perché io, davvero, a parte la persona che ha pubblicato la foto, non credo di conoscerne altri. In questi giorni si sta ripetendo lo stesso fenomeno con Tiziano Ferro. Vedo passare continuamente, sui social, immagini e video in tempo reale tratti dalla sua esibizione a Milano. A differenza dei Modà, qualcuno colpevole di alimentare l’industria dell’inutilità sonora l’ho beccato, però. E ho appurato che questi rappresentanti del genere umano, che vivono, lavorano, votano e probabilmente si riproducono prima o poi, non nascondono più le loro passioni borderline che, in teoria, uno dovrebbe tener nascoste per sottrarsi al pubblico ludibrio. La gente ti dice proprio che è stata al concerto di Tiziano Ferro, ti descrive tutto per filo e per segno e se ne vanta pure.

se vuoi sopravvivere alle hit parade di quando facevamo le medie clicca qui

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L’estate è a tutti gli effetti la stagione dell’ansia e questo è uno dei paradigmi della mia visione delle cose, del modo in cui conduco la mia esistenza in pubblico ma soprattutto in privato e, di conseguenza, di questo blog. Si tratta di un concetto che si cela piuttosto grossolonamente tra le righe di un post su quattro o cinque nel periodo compreso tra il 21 giugno e e il 23 settembre. Non chiedetemi perché la penso così mentre tutti vivono la gioia del sole del mare e delle belle giornate. Non è che non mi piaccia, me la vivo male punto e basta. La combinazione tra lo stare ai margini della società produttiva per cause di forza maggiore (il fatto che non esiste più la sincronia tra le ferie alla fine da giugno ad agosto ciascuno fa un po’ quello che vuole e così la mole di lavoro cala) con la pressione bassa, i piedi costantemente roventi, la carne umana nuda che esonda da ogni dove, l’eccesso di luminosità e le giornate lunghissime non creano certo i presupposti per condizioni di vita dignitose. L’estate però è l’unico periodo in cui ci si può divertire con quella sensazione nello stomaco che io definisco il contrario delle farfalle (o bollicine) di quando ti innamori. Potrebbe essere se non cemento a presa rapida una cosa tipo alghe che vanno a comprimere l’addome spingendo il corpo umano verso la profondità delle domande esistenziali che ogni uomo a una certa età comincia a porsi. Una sensazione che, se riuscite a controllarvi, ha comunque una sua dignità e ci si può divertire a provarla, altro che droghe leggere.

Io riesco a suscitarla a comando e mi basta consultare un sito come quello in cui qualcuno ha raccolto anno per anno tutti i singoli più venduti in Italia in pagine web che solo ad aprirle si sente quell’inconfondibile odore di umidità da cantina dove si tengono le cose che non si vogliono buttare ma che è meglio dimenticare. A me piace cercare i titoli di certe canzoni dal 78 all’82 circa e quando ne trovo una nuova che avevo temporaneamente rimosso ecco le alghe che si agitano e una scarica di chissà che cosa diffondersi per tutte le membra. Una sorta di elettrochoc light ma controllato in quanto auto-indotto. Oppure ancora vado su Google Street view a cercare luoghi dove sono stato in vacanza da bambino con mamma e papà, e quando li trovo inalterati – un albergo che non ha cambiato ragione sociale o una stradina che non è stata ancora asfaltata che abbiamo percorso insieme non saprei dire quanti decenni or sono – ecco ancora una botta di quelle lì che mi scuote da capo a piedi. Vi consiglio di approfittare di queste esperienze di regresso emotivo finché il freddo dell’autunno non ci ghermirà di nuovo e ci riconsegnerà al patrimonio delle responsabilità che ci competono. Se avete paura di perdere il controllo, vi consiglio questo giochino ma in un ambiente ben rinfrescato, senza uscire nelle ore calde, non fate il bagno dopo mangiato, bevete tanto e tutti gli accorgimenti triti e ritriti che ci fanno sentire ancora importanti per qualcuno.

amore chiamami

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Non me la sono mai presa per il fatto che Debbie Harry abbia registrato le sue parole di passione per me in una hit mondiale come “Call Me” rendendole peraltro comprensibili a tutti gli ascoltatori e soprattutto creando equivoci tra i fan. Cari sostenitori dei Blondie, sappiate che quella frase in italiano nel cambio della canzone è diretta al sottoscritto sin dai tempi della prima incisione, quindi potete tranquillamente dopo trentacinque anni mettere a riposo gli ormoni perché non c’è storia. Poi ieri avrete letto tutti che è stato il compleanno di una delle mie prime fidanzate, Debbie Harry appunto, che saluto da qui e che si merita tutto il mio affetto perché comunque rimane sempre una delle donne più belle mai viste sulla faccia della terra dalla scoperta del fuoco. Lei ed io ci siamo amati anche per il fatto che era la cantante di un gruppo che incarnava l’essenza della new wave americana di quel periodo lì. Poi c’era tutta la componente fashion, il fatto di Playboy, la colonna sonora per Richard Gere e tanti altri piccoli aneddoti che oggi anzi ieri, in occasione del suo settantesimo genetliaco, possiamo lasciarli per un attimo da parte e tornare ai fasti del nostro amore, appunto, quando mi diceva in italiano “amore chiamami” alla radio e a me veniva da prendere la cornetta, fare il numero e dirle “ciao Debbie ecco vedi, mi basta sentire la tua voce e chi se ne importa se l’interurbana, anzi, l’intercontinentale costa un botto sulla bolletta della SIP, il nostro amore durerà per sempre”. E infatti dura anche adesso che hai settant’anni e io quasi cinquanta e scopro che nelle più recenti esibizioni tipo questa canti la nostra canzone un paio di toni più bassi, ma come biasimarti, anche Bono fa “Sunday Bloody Sunday” in sol costringendo The Edge a usare una chitarra con un’accordatura ai confini della realtà. Ci sono canzoni dei Blondie che mi fanno saltare, altre che mi fanno venir voglia di quell’atmosfera lì così acerba, mamma mia, c’era un’aria che oramai boh, è tutta consumata dal silicio probabilmente. I primi quattro album poi sono davvero un inno a uno stile che non avrà mai più eguali. Ma Debbie perdonami se non ti faccio gli auguri con “X-Offender” o “In the sun” o i più blasonati “Atomic” e “Heart of glass”, li porto tutti con me ogni giorno pronti a lasciar scaturire la tua voce quando ne ho bisogno. È che a me “Call me” che so che non è nemmeno del tuo gruppo ma che l’hai scritta con quel volpone di Giorgio Moroder mi fa inerpicare qualcosa su dalla pancia ogni volta. Sarà la chitarra, sarà l’assolo di synth verso la coda, sarà sicuramente la tua dedica che hai fatto solo a me e che, ogni volta che si ripete, mi fa sentire lo stesso di allora.