Tranquilli, dove volete che vada senza di voi. Era solo un modo per riflettere tutti insieme sul fatto che c’è sempre più l’esigenza che i programmi finiscano, ad un certo momento. Sarebbe così utile riprendere l’abitudine di accendere sto monoscopio metaforico nelle vite di tutti noi almeno qualche ora al giorno. Ventiquattro per sette è il mantra su cui si tira avanti nella modernità, qualsiasi tipo di produzione non si interrompe mai. Pensate solo al fascino che hanno avuto il Notturno Italiano e dopo RaiStereoNotte, per dire. Erano l’unica cosa che trovavi di aperto se soffrivi di insonnia. C’erano certi bar che tiravano tardi ma fino a un certo punto, ai quali subentravano i panettieri appena alzati con le loro brioche vendute senza scontrino. Oggi non c’è soluzione di continuità, ci sono turni che durano fino all’alba, trovi anchorman in tv che danno le ultime notizie così tardi che a seconda di come le giri potrebbero essere le prime del giorno successivo e sono sicuro che non manca molto ai negozi e ai supermercati che non chiudono mai. Ci andreste a fare la spesa alle tre di notte? Quella è l’ora più fetente. Se stai sveglio dalle tre alle quattro sei spacciato per il resto della giornata. Quando abbiamo smarrito il valore delle interruzioni, del riposo, della buonanotte e poi si spegne tutto, quando invece la casa pullula di led accesi, di ronzii di elettrodomestici in azione o in stand-by. Forse, con il tempo e con tutte le cose che sono successe, e mi riferisco agli ultimi trent’anni, abbiamo sempre più paura della solitudine e del silenzio. Accendere la tele e vedere il nulla fatto di assenza di un segnale – che poi oggi con il digitale terrestre abbiamo annientato pure quello – ci fa sentire abbandonati, senza guida, su un pianeta alla deriva, fuori orbita, fuori c’è buio e non sappiamo se il mattino arriverà anche questa volta. Prima invece eravamo obbligati a coricarci nel letto e il divano non ci bastava per nulla, dopo l’annuncio che qualcuno, dall’altra parte dello schermo, avrebbe chiuso tutto e signore e signori buonanotte. Eravamo obbligati ma non ci dispiaceva, tanto era sublime chiudere gli occhi con il libro sul petto che, lasciato andare dall’abbandono delle membra, ci cadeva addosso una, due, tre volte. Io mettevo una cassetta nel radioregistratore che avevo sul comodino, quasi sempre la stessa che mi faceva crollare al terzo o quarto pezzo. Vi siete mai addormentati con la musica? Ecco, le canzoni continuano ma tu ti allontani nell’oblio, resta solo un filo appeso che è tanto più sottile quanto quel brano lo conosci a memoria. E lo sapete dove voglio arrivare, perché è come avere una luce che non si spegne mai.
alti e bassi di fedeltà sonora
la nostra vita rielaborata in chiave flamenco
StandardUna cosa che è completamente passata di moda è l’avere tra i propri beniamini musicali strumentisti solisti che fanno dischi. Una volta c’era il tipico fan di Carlos Santana, Peter Frampton, Eric Clapton e Gary Moore e sono i primi che mi vengono in mente. Soprattutto per il primo che faceva musica per lo più strumentale ogni volta era un problema chiedere a qualcuno di ricordargli com’era la melodia di Europa o Moon flower perché ci si doveva mettere in posa con una Les Paul invisibile in mano e mimare il tema cantato però con la bocca imitando il suono della chitarra elettrica solista suonata con il plettro. Metto subito le cose in chiaro: chi aveva questi gusti pur rispettabilissimi era sempre un po’ visto come non dico uno sfigato ma comunque uno di quelli che passano molto tempo in casa e che hanno l’impianto super hi-fi sulla macchina e sì, diciamo pure un po’ sfigato.
Per questa categoria umana c’erano comunque due capisaldi che erano gli assoli rispettivamente di Sultains of swing dei Dire Straits, a cui pensavo proprio ieri perché credo sia uno dei pochi pezzi in lingua in inglese di cui ricordo perfettamente il testo dall’inizio alla fine, e mica è facile, e quello di Hotel California degli Eagles. Avete capito quindi la dimestichezza di questa tipologia di amanti della chitarra con il virtuosismo melodico dal quale erano fortemente attratti, l’equivalente di chi suona il sax e ascolta Fausto Papetti o di chi siede dietro le tastiere e no, per i tastieristi posso garantire non c’è un paragone pertinente, forse trovare il suono uguale di Jump dei Van Halen ed eseguire il riff e l’assolo ma questo solo nella sotto-categoria di quelli che, oltre ad ascoltare la musica, sanno anche suonarla.
Potete quindi immaginare quando è uscita la versione in chiave Gipsy Kings proprio di Hotel California degli Eagles, perché va bene che queste persone andavano matte per una certa melodia tipica della chitarra e certe successioni scontate di accordi, ma così era veramente troppo. Pensavo quindi a quanti danni hanno fatto all’umanità i Gipsy Kings con le loro cover, sono sicuro di averne già parlato altrove, e a quanto hanno influito sull’equilibrio dei fan dei chitarristi solisti con quella terribile versione di Hotel California. Il modo con cui i Gipsy Kings hanno riarrangiato Hotel California, o Volare, o tutte le altre cover che hanno fatto, potrebbe essere veramente un’arma di distruzione di massa. Pensate se il metodo Gipsy Kings potesse essere applicato negli altri campi artistici. Van Gogh in versione Gipsy Kings. Malevic, di cui c’è una mostra a Bergamo in questo periodo che voglio assolutamente andare a vedere, in versione Gipsy Kings. Ma anche in architettura: Gio Ponti in versione Gipsy Kings. O nel design: Alvar Aalto in versione Gipsy Kings. La storia: Jacques Le Goff in versione Gipsy Kings. La letteratura: Manzoni in versione Gipsy Kings. La poesia: D’annunzio in versione Gipsy Kings. Il comportamento di noi esseri umani: riflettere in versione Gipsy Kings, accarezzare i gatti in versione Gipsy Kings, contemplare le Dolomiti all’alba in versione Gipsy Kings. Immaginate un mondo così, e sono certo che prima di ballarli la prossima volta in uno di quei localacci dozzinali che non hanno nemmeno la licenza per far stare in piedi la gente figuriamoci per lasciarvi muovere a tempo di musica e battendo mani e piedi come si fa nel flamenco, ci penserete due volte.
abbiamo perso, ma questo l’avevamo già capito da altri segnali molto più evidenti
StandardNon stupisce quindi che il prodotto della musica e di conseguenza la musica in sé abbia toccato il fondo di un processo di svalutazione senza precedenti, come certo denaro corrente di alcuni posti poverissimi di cui ci vogliono pacchi e pacchi di mazzette per cambiare anche solo una moneta di quelle che in occidente usiamo per liberare e spingere il carrello della spesa. Ma la metafora più azzeccata, per questo processo, è la cosa in sé: guardiamo stipati nei nostri tera di memoria quanti pezzi conserviamo e qual è il loro valore effettivo se è così facile attingervi per ripagare una qualsiasi delle nostre emozioni. È sufficiente raccogliere virtualmente una manciata di questo equivalente delle perline colorate per renderci conto di quanto siamo poveri, oggi, da questo punto di vista. E non certo per la qualità di ogni singolo pezzo. Piuttosto è la quantità a disposizione a determinare questo regime di inflazione artistica che ormai si protrae nella nostra società da almeno una decina d’anni. Nessuno è in grado di indicarne l’elemento scatenante, credo che attribuire la colpa di questo fenomeno esclusivamente alla digitalizzazione sia riduttivo. O meglio: il canale che si è aperto ha consentito la tracimazione e la distribuzione di massa di questi beni virtuali, ma il pubblico non ha percepito davvero la reale ricchezza che l’accesso indistinto a questi beni poteva generare. Di fronte all’abbondanza i più si sono domandati quale poteva essere l’utilità di riempirsi l’esistenza di canzoni in grado di suscitare l’entusiasmo così soggettivamente, considerando la proliferazione di materia prima. Data la sovraesposizione alla musica oggi sono finiti i tempi dell’identificazione di gruppi sociali con i generi musicali. Non voglio dire che non esista più il fanatismo delle pop star, anzi esso è amplificato dalla tv e dai media ma indipendentemente dalla componente musicale, oggi assolutamente secondaria. Se prima band e cantanti riuscivano a costituire il motivo scatenante per intere generazioni, oggi sono state sostituite nell’immaginario pop da altre icone, e se fate una chiacchierata – rigorosamente via messaggistica istantanea – con qualche adolescente di oggi capirete che cosa vi sto dicendo. Quindi visti da qui, tutti noi per i quali il genere musicale preferito costituiva orgogliosamente un motivo di appartenenza, oggi in cui l’appartenenza non esiste più (o se esiste può far solo che tenerezza) a causa della parcellizzazione causata dai social network, facciamo abbastanza ridere, e considerando che già allora facevamo ridere i nostri fratelli più grandi per i quali invece l’elemento solidificante era la politica, insomma nell’insieme possiamo considerare la nostra generazione fatta di punk, di dark, di metallari eccetera un vero e proprio fallimento storico.
ecco cosa succede ogni volta in cui qualcuno sceglie un pezzo di Bowie come colonna sonora di un film di fantascienza
StandardI due momenti che nel film “Sopravvissuto” o “The Martian” costituiscono il punto massimo e quello più scarso dal punto di vista del coinvolgimento dello spettatore sono quando parte “Starman” di David Bowie e proprio alla fine quando lo schermo si fa buio e inizia “I will survive”. Il perché lo capite da soli: quando viene scelta una colonna sonora composta da canzoni provenienti da altre epoche o comunque pubblicate con altri intenti a fare da sottofondo a un film del 2015 con Matt Damon è il segnale che nemmeno a Hollywood o da quelle parti è sopravvissuto qualcuno con un gusto sufficiente a non farcire le storie per il grande schermo con canzoni così didascaliche e invece sono passati tutti ai prodotti per il piccolo schermo, le sempre più numerose serie tv che probabilmente rendono profitti più interessanti, in questo momento storico. Per il resto la storia di un uomo solo su un pianeta ostile ci lascia porre tutte le domande senza risposta che ci vengono in mente di fronte all’incommensurabile. C’è stato anche un momento in cui la terra è stata abitata da un solo esponente del genere umano oppure davvero una specie si evoluta non si sa bene come a tal punto dall’assumere sembianze come le nostre? Nel primo caso, a meno che non fosse uno come il protagonista del film di Ridley Scott che, forte della sua laurea in biologia, si è arrangiato con una coltivazione di patate marziane, ci sarà stato il momento in cui l’uomo – o la donna, certo – n. 1 ha provato tutte le cose che costituiscono la quotidianità tipica della nostra specie per la prima volta. Provate immaginare alla prima volta in cui ha avuto sonno. Magari credeva di morire soggiogato da questa forza sconosciuta che cercava in ogni modo di sottrarlo alla vita, temendo di spegnersi per non risvegliarsi più. A noi sembra una cosa normale perché ci siamo abituati e anzi, non vediamo l’ora che sia il weekend per esercitare questo che resta comunque uno dei migliori passatempi il più possibile, sul divano e con un paio di gatti sulla pancia. O anche, e scusate la bassezza dell’argomento, la prima volta che al primo uomo o donna è scappata la cacca. Lo so che fa ridere, ma se ci pensate è una cosa seria. Il nostro archetipo avrà patito le pene dell’inferno preoccupato per quello stimolo sconosciuto con cui una parte di sé faceva di tutto per abbandonare il suo corpo. Se vi sembra una cosa stupida allora vi riporto su temi di più alto livello: se è comparso di botto l’uomo sulla terra perché è stato creato d’emblée, è stato appunto messo qui già adulto o neonato? Se era neonato era da solo? Come ha fatto a soppravvivere? Se era adulto era un uomo primitivo o già evoluto come per esempio i fenici o gli ittiti? Facile dire che l’uomo è caduto sulla terra, perché tiriamo di nuovo in ballo David Bowie e meno male che come pezzo di Matt Demon che si sa se verrà salvato non è stato scelto “Space Oddity”, che invece poteva funzionare nella sua versione in italiano “Ragazzo solo, ragazza sola”, più solo di così.
generatore random di coppie di cantanti anziani italiani abbinati per puro scopo commerciale
StandardVi giuro che del concerto di Baglioni e Morandi trasmesso alla tele qualche sera fa non ho visto nemmeno una canzone, tanto mi schifava l’idea. Claudio Baglioni è il mio incubo, me lo porto appresso da quando ho avuto un sistema uditivo sufficientemente sviluppato da percepire suoni perché negli anni 70 ha fatto piazza pulita della concorrenza sulle ragazzine. Il mondo era pieno di preadolescenti con il poster che qualcuno ha già scarabocchiato e dice vieni in Tunisia appeso sul letto, compresa mia sorella con cui condividevo la cameretta. Per non parlare di anni di pianobar in cui includere qualcuna delle sue hit era inevitabile se volevi lavorare e compiacere il pubblico. E che cosa dire di Gianni Morandi, sempre sulla cresta dell’onda prima come cantante, poi pure come attore, quindi come presentatore televisivo e oggi come asso pigliatutto dei Social Network? Quel gufo con gli occhiali che sguardo che ha, me lo prendi papà? Sì. E non ci sarebbe niente di male a mettere insieme, anche per puro scopo commerciale, questi due talenti se, appunto, non avessero 134 (centotrentaquattro) anni in due. Non ho niente contro i vecchietti, essendo da poco parte della categoria, ma che ci siano cantanti pop forzati a monopolizzare l’offerta culturale per cinquant’anni lo trovo eticamente aberrante. E ribadisco forzati, perché sono certe istituzioni – e non prendetemi per un complottaro grillista qualunque – che brandiscono queste armi di ammorbamento di massa proprio contro il progresso delle idee e le novità, per il terrore di andare a scardinare certi meccanismi consolidati che garantiscono poteri economici e controllo sociale. Sto esagerando? Chiaro che Gianni e Claudio non ne hanno colpa, probabilmente, perché con la recente operazioni che li ha riportati per l’ennesima volta alla ribalta chissà quanto grano – giustamente perché è il loro lavoro e lo fanno pure bene, ci mancherebbe – si sono fatti. Così ieri ho lanciato su alcuni socialcosi di cui sono un assiduo frequentatore proprio questa specie di contest: indicare le più improbabili coppie di cantanti anziani italiani abbinati per puro scopo commerciale. Seguono i risultati più esilaranti, ovviamente sentitevi liberi di ingrossare le fila degli spunti a favore dell’estremismo reazionario dell’imprenditoria culturale italiana (ringrazio a pioggia tutti gli autori delle proposte qui sotto).
Antonello Venditti e Renato Zero
Giovanna e Rita Forte
Giovanni Lindo Ferretti e Antonio e Marcello (anche se è un trio)
Marina Occhiena e Donatella Milani
Wilma Goich e Mara Redeghieri
Edoardo Vianello e Garbo
Tiziana Rivale e Francesco Guccini
De Gregori e Cocciante
Adamo e Gino Paoli
Giovanna Marini e Marcella Bella
Michele Zarrillo e Vinicio Capossela
Mal e Gianna Nannini
Biagio Antonacci e Paolo Conte
Dario Baldan Bembo e Marco Ferradini
Edoardo Bennato e Toto Cutugno
Alberto Camerini e Alan Sorrenti
Gianni Nazzaro e Christina Moser
ora vi spiego xFactor
StandardOra vi spiego xFactor, il mondo ha bisogno di un’opinione definitiva in materia. Qualche settimana fa su MTV hanno trasmesso alcuni estratti dalle selezioni di XFactor UK e chi ha visto il programma ha compreso quanto il divario qualitativo tra i candidati inglesi e quelli che si presentano a xFactor Italia sia fin troppo evidente. La ragione? In Gran Bretagna c’è un’industria del pop e del rock talmente sviluppata che non ha certo bisogno di un canale come xFactor. C’è tutta un’economia con il suo indotto e non si tratta, naturalmente, solo di roba commerciale. Pensate a tutto il sommerso – nel senso di underground – che comunque consente a un sacco di giovani di campare o sbarcare il lunario con la musica, a partire dai locali dove si può suonare ed essere pagati. A xFactor UK ho visto gente che in Italia la vedi solo esaltarsi nei bar karaoke di provincia. In Italia, dove a nessuno gliene fotte della cultura e della musica, tantomeno di fare impresa in questo settore, xFactor e i talent sono l’unica possibilità di avere visibilità e, forse, un seguito. Un po’ di successo.
Ma qui viene il bello. Avete mai letto che fine hanno fatto finalisti e vincitori? A parte Mengoni e Giusy Ferreri, quanti ve ne ricordate? Eppure, a vedere i Bootcamp della nuova edizione – ho seguito eccezionalmente la prima parte del girone eliminatorio su Sky ieri, eccezionalmente perché ero da mia mamma che è abbonata mentre io no – quasi tutti gli artisti e i gruppi non erano niente male. Ma al di là della bravura e della tecnica, si tratta di gente con un proprio stile che può piacere o no, ma la personalità che è unica per un cantante o una band è quello che poi – in un paese ideale in cui c’è un mercato, un pubblico e soprattutto un’educazione all’ascolto e alla musica in genere – li fa emergere, gli fa vendere i dischi, gli riempie i palazzetti ai concerti. Ma poi, una volta scelti e triturati nell’ingranaggio dell’icsFactor che altro non è che una fabbrica per l’industrializzazione delle pop-star, escono tutti appiattiti nelle banalità di ciò che un sistema tipicamente italiano e che è composto da SIAE, tv di stato, reti commerciali radiotelevisive e annessi e connessi impone, al massimo per un introito nell’immediato che ingrassa quelle poche entità che ho elencato qui sopra.
Risulta evidente che a xFactor i talenti hanno valore per il programma in sé e la sua audience, mentre il programma per i talenti non fa nulla. Anzi. Gli succhia via la loro essenza e gli innesta un blobbone di tutto quello che vedete durante la trasmissione per lasciarli poi orfani di tutto e della loro individualità alla fine, sedotti dal successo e abbandonati all’oblio, sia che i partecipanti siano stati eliminati nel corso della stagione o che abbiano vinto. xFactor trasforma artisti interpreti di se stessi in prodotti interpreti del’xFactorismo, che è una trasmissione televisiva che può piacere o no ma nulla ha a che vedere con una festa della musica. E poi i cosiddetti giudici che competenza hanno, a parte l’essere del settore o musicisti di successo, che non c’entra con il riconoscere i talenti? Nel 2015 non sapere che cos’è una loop station – quel marchingegno che Sara Loreni, la cantante che si è ritirata, utilizza per creare basi in tempo reale per i pezzi che canta – quando c’è gente che smanetta con i campionatori dagli anni 90 è disarmante. Solo Skin, che non è italiana, è riuscita a dare un giudizio sulla cantante avulso dalla situazione in sé (una ragazza con un coso soprannaturale che registra i suoni e li mette a tempo!!11!!).
Però in Italia funziona così e un’occasione come xFactor è tutto grasso che cola. Come per tutte le professionalità di cui il mercato italiano non sa che farsene e che costringe menti sopraffine a fare gli operatori nei call center o i cassieri al supermercato (con tutto il rispetto eccetera eccetera), così anche i bravi musicisti devono scendere a patti e prendere la qualità entry level della vita. E se tutto questo era latente nelle precedenti edizioni con i cantanti singoli, l’evidenza è esplosa quest’anno con le band, o almeno ci sono arrivato io solo ora perché ho fatto parte di band in passato e ho visto una puntata intera di xFactor solo ieri per la prima volta. Troppo poco per spiegarvi xFactor?
se qualcuno ha ancora dei dubbi su chi è vincente e chi invece no
StandardIl rito che seguiamo prevede tre tiri a testa. Il numero perfetto, l’azione che si velocizza e soprattutto entrambi dobbiamo impegnarci a rispettare il turno dell’altro. Non so se a iniziare sia stata io o Paolo, forse lui per un retaggio scaramantico legato alla superiorità dei numeri dispari, ma in questo momento sono piuttosto cotta e abbastanza fuori, quindi non chiedetemi troppi sforzi di memoria. La domanda invece me la rivolge a sorpresa Paolo. “Buono questo fumo, dove l’hai preso?”. So dove vuole arrivare perché una delle sue strane convinzioni è che le ragazze non siano così scaltre da riconoscere i pusher e combinare acquisti vantaggiosi. E Paolo, almeno con me, ha ragione. Gli dico che non ricordo e che probabilmente l’ha lasciato qualcuno alla coinquilina enfatizzando il mio accento da napoletana che so così Paolo mi perdona tutto. La verità è che me l’ha regalato quel tipo che si mette sempre a fianco a me a Statistica, quello che mi ha idealizzata a tal punto che si è fatto tutto un suo quadro di me che non risponde alla realtà. Intellettuale, sofisticata, con certi gusti musicali e letterari. Flirta persino raccontandomi che mi vede con una specie di luce, un’aureola, ma davvero non so come sia riuscito a farsi questa versione di me che mi sembra non mi assomigli per nulla. Forse perché vesto così e lui associa il mio abbigliamento a un tipo di persone che frequenta, non capisco e nemmeno mi va di capire. Comunque è simpatico e lo lascio fare. Vi dicevo del fumo. Ieri arriva con una cassetta di un gruppo mai sentito, mi prende il blocco degli appunti e mi scrive che devo assolutamente ascoltare quella musica, un vero e proprio viaggio per il quale però serve un accompagnamento adeguato. Lo ha incastrato nelle rotelline delle bobine della cassetta e mi ha chiesto di dirgli poi come è andata. A me la musica non piace ma fumare sì, così eccomi qui con Paolo che non è il mio ragazzo anche se Paolo pensa il contrario perché ci vediamo con una certa regolarità, fumiamo e poi ci mettiamo a letto. O se abbiamo voglia ci mettiamo a letto e poi fumiamo dopo. Che poi adesso che fa ancora caldo nemmeno tiriamo su le lenzuola. Oggi però ho chiuso le tende per ripararci dal sole ma un po’ me ne sono pentita perché viene subito sera, a settembre, e il sole che abbiamo nascosto può esser stato l’ultimo. Invece la cassetta sentitevela voi e poi ditemi che roba è così, dopodomani a lezione di Statistica, racconto al tipo che me l’ha data insieme al fumo che cosa avrei dovuto provare, mica posso dirgli come è andata veramente.
devono essere popolarissime a scuola, le vostre figlie
StandardC’era un libro che è transitato in casa dalla biblioteca tra gli ennemila che ho letto a mia figlia prima che cominciasse a trascorrere il tempo a dedicarcisi in autonomia che trattava proprio di questo. Di questo cosa, chiederete voi. Leggete tra le righe delle righe sopra. Detta così ho concentrato in un passaggio alcuni concetti che ci tenevo a trasferirvi, ovvero: ho portato spesso mia figlia in biblioteca, ho passato pomeriggi interi a raccontarle storie con i libri al contrario in modo che potesse vedere sia le illustrazioni che abituarsi a riconoscere le lettere e le parole, a mia figlia piace leggere e ha cominciato molto presto. Quindi alla fine quando si tratta di figli anche ai più moderati come me parte l’embolo della competizione e non ce n’è per nessuno, perché la competitività a cui ci induce la prole altro non è che compiacersi di quanto siamo stati bravi a passar loro i geni giusti e poi a instradarli verso le cose che danno più soddisfazioni per cui il merito è tutto nostro. E questo desiderio di redenzione che mi ha improvvisamente colpito, questa voglia di espiare il peccato che sto per raccontare è forse a sua volta una manifestazione di orgoglio paterno, e forse anticipare una fuoriuscita di orgoglio paterno è a sua volta un modo per mettere le mani avanti e dichiarare la consapevolezza delle potenzialità di mia figlia, e forse ammettere è a un livello superiore un modo per comunicare di sentirsi fortunati e se però vado ancora indietro arrivo nell’iperuranio quindi basta e procediamo con i nudi fatti. Secondo voi un padre ex musicista, oggettivamente competente e dagli ottimi gusti in materia che soddisfazione può trarre se la sua amata undicenne gli chiede di mettere i Nirvana? Il mio ego è tracimato fin su Facebook in cui ho raccontato con una battuta l’aneddoto in questione mettendola però su un piano auto-ironico. Ma sapete come sono i genitori. Al mio status “le parole più belle non sono ti amo ma papà metti i Nirvana” si è scatenata una gara tra padri a chi ha il figlio con i gusti più affini a quelli dei genitori, senza contare che avrei preferito se avesse chiesto un disco di David Bowie o dei Cure ma comunque con i Nirvana, considerando la musica di merda che ascolta, è tutto grasso che cola. Bene. Il primo è uscito commentando che sua figlia gli chiede i Kraftwerk (certo virgola certo) mentre l’altro ha tirato in ballo il solito Mozart che i luoghi più comunissimi sulla psicologia infantile vogliono come fondamentale per sviluppare l’intelligenza dei piccoli addirittura sin dalla pancia. Quindi a fare la gara con la mia piccola fan del grunge c’è una che ascolta un quartetto di ingegneri di Dusseldorf ormai in pensione che salgono sul palco con altrettanti laptop, schiacciano play e poi stanno lì davanti a migliaia di persone che hanno pagato fior di quattrini per sentire della musica registrata, e una che alle medie chiede un compositore di musica classica. Io volevo scrivere in calce a questo contest che la dice lunga sulla genitorialità alle nostre latitudini una cosa tipo “devono essere popolarissime a scuola, le vostre figlie”, ma mia moglie non ha voluto.
mettevi comodi perché ora vi spiego che cos’è l’arte
StandardQuello che ci accomuna a Isabella è che siamo privilegiati nel lavoro che facciamo. Noi ci mettiamo in posa con il cantante al centro e lei pure, di fronte a noi con la sua reflex puntata mentre ci chiede di metterci così e cosà, guarda qui o guardate là, più sciolti o meno sorridenti perché comunque dovremmo lasciar intendere che siamo dei tipi tutt’altro che semplici. Il tutto in un orario in cui quelli della nostra età sono in ufficio a prendere ordini da tutti, sono in pochi i privilegiati che al lavoro si godono la luce in tarda mattinata come noi. Isabella è davvero bella come dice il suffisso del suo nome, e qualcuno viene ripreso perché anziché seguire le sue direttive si fissa su alcuni dettagli del suo viso o del suo corpo e non ci facciamo certo una figura decorosa. Il set è manco a dirlo una fabbrica abbandonata e semi-distrutta ma ci è stato detto di vestirci come ci pare, l’archeologia industriale tira di brutto e noi mica siamo una boyband. Anzi, siamo l’ultima ruota del carro di una major e spesso ci diciamo che preferiremmo essere invece il gruppo di punta di una etichetta indipendente, tanto non ci sarebbero soldi ugualmente ma almeno conteremmo qualcosa. Anche Isabella, se è stata mandata fino qui da noi, non dev’essere la fotografa ufficiale della rivista di lifestyle su cui finirà l’articolo che ci riguarda. A pranzo fa un po’ di storie così capiamo che dovremo pagare noi anche la sua parte e in un frangente come quello la cavalleria o comunque la buona educazione subentra su qualsiasi dinamica aziendale. I maschi pagano alle femmine e, considerando che già sappiamo che a nessuno verrà rimborsata nemmeno una lira, dividiamo il conto per cinque anziché per sei. Quello che dovrebbe essere il nostro manager se l’è svignata in tempo in modo da non dover metter mano al portafogli ma chi se ne importa, siamo privilegiati nel lavoro che facciamo. Io non ho molta fame, mentre mi recavo sul set ci ho dato dentro con due etti di focaccia, anche quella me la sono pagata io. E quando la produzione ci fa avere i provini delle foto di Isabella, che hanno anche previsto dei primi piani a tutti, vedo un residuo di quella colazione sulla barba sotto il mento. Una briciola di focaccia bella grossa incastrata tra i peli neri tendenti al rossiccio. Isabella prima di scattarmi quella foto non mi ha detto niente o non l’ha notata, del resto nessuno si è specchiato prima o mica c’è stata una sessione di make-up, oltre a essere superfluo per un gruppo di base non c’era abbastanza budget ma non fa nulla, siamo privilegiati nel lavoro che facciamo. Ma il problema è proprio nella definizione della nostra attività perché, a pensarci bene, né noi né Isabella abbiamo una busta paga, nessuno ci versa i contributi, dipendiamo in continuazione dagli umori di altre persone che nel nostro ambiente sono pessime. Qualcuno ti può estromettere dal lavoro a proprio piacimento, quindi alla fine anche se crediamo di essere privilegiati nel lavoro che facciamo non si tratta di un lavoro ma di una passione qualsiasi, come assemblare modellini in legno di navi o coltivare bonsai o, come si diceva un tempo, si tratta di “una forma di esistenza illecita e lesiva della pubblica morale e produttività, in cui si creano le condizioni per un assenteismo che sottrae energie preziose all’economia”.
i 10 vantaggi più comuni che si ottengono se a cinquant’anni finalmente decidete di smettere di suonare
StandardIl giovanilismo ad libitum di chi gravita sin da ragazzo nel mondo nella musica confluito nella fama illusoria da social network è uno dei problemi più urgenti della società contemporanea soprattutto se, come me, siete di mezza età e avete coltivato nella vita relazioni principalmente con questa categoria evergreen dei casi umani. Se già l’onda lunga della personalità a perenne registro adolescenziale si protraeva molto spesso fino a cinquant’anni e rotti, potete immaginare cosa può causare la nuova linfa data da Facebook ai malati di ego che hanno sacrificato tutto il loro tempo a convincersi che nello spettacolo il successo – che è quello che consente di compiere l’upgrade da passione a fonte di reddito per mettere qualcosa sotto i denti – dopotutto non è importante e si può continuare a provarci fino allo sfinimento dei propri congiunti, amici, semplici conoscenti e gente mai vista raccattata online.
So che parlare ai diretti interessati non serve a nulla e si corre il rischio di guastare rapporti che magari sono in piedi da una vita. Così mi rifugio ancora una volta con tutta l’ipocrisia necessaria dietro questo baluardo di anonimato per raccogliere un piccolo elenco di tutti i vantaggi che può ottenere chi, alle soglie dell’andropausa, si crede ancora un animale da rock’n’roll e rompe i maroni pubblicando composizioni a valanga su Facebook, costringendo la propria rete di contatti a bloccare, nascondere, cancellare tag e tutti i sotterfugi del caso per non affogare nell’imbarazzo e nella compassione altrui.
1. Intanto dopo una vita passata ad ascoltare solo voi stessi, smettendo di suonare potreste finalmente dedicarvi al prossimo. In giro ci sono un sacco di gruppi ottimi e di musica di qualità sicuramente meglio della vostra, considerando che siete ancora lì rintanati in quella patina di oblio spacciata (a voi stessi) come undergound
2. Diceva un mio sassofonista che la musica, da un punto di vista dei costi che richiede, è un hobby secondo solo alla Formula 1. Smettete di suonare, vendete i vostri strumenti e vedrete decuplicare i vostri risparmi nell’immediato e nel lungo periodo.
3. Ampli e casse spaccano la schiena e non siete più i robusti virgulti dei tempi dell’okkupazione, occhio quindi quando vi esibite, anche se è vero che oggi è tutto diverso e la strumentazione – batteria a parte – è decisamente più light.
4. Smettendo di comporre parole per la musica, poi, guadagnereste in credibilità. Come pensate di affrontare i temi che erano i vostri cavalli di battaglia oggi che fisicamente lasciate a desiderare, non potete garantire più certe prestazioni come allora, le muse che riempivano le vostre liriche non sono messe certo meglio, la rivoluzione non si fa più, il nichilismo è un comportamento di massa e non più una nicchia per gli alternativi, cani e porci hanno la cresta e voi a capelli siete messi che è meglio non parlarne?
5. Astenendovi in tempo eviterete di appellativi come “vecchia gloria”, “dinosauro” e tutti gli altri epiteti che vi relegano in un tempo che non tornerà più, mentre l’oggi con tutte le sue complessità vi fa sembrare solo patetici
6. La linea che contraddistingue la vita di una rockstar la conosciamo tutti: ci si atteggia da maledetti e da distruttori del sé e del prossimo fino a cinquant’anni, poi alle prime canizie ci si scopre vulnerabili e si vira sull’unplugged, sullo zen e persino alla vocazione religiosa. Ma dieci anni più tardi ci si accorge che non è cambiato nulla e così ci si prodiga a dare gli ultimi colpi di cattiveria con risultati quasi sempre imbarazzanti. Ecco, smettendo di suonare in tempo è possibile evitare anche un decorso di questo tipo.
7. Il mio amico Fabrizio, per esempio, ha capito che era giunto il tempo di smettere mentre suonava l’assolo di chitarra di “Ordinary World” dei Duran Duran davanti a una manciata di alcolizzati di provincia, in un bar dall’atmosfera dozzinale, accompagnato da un computer portatile che riproduceva una base con suoni orribili e per di più vestito con abiti attillati malgrado l’età. Se seguite il mio consiglio potrete evitarvi folgorazioni sul palco di questo tipo che lasciano un segno indelebile e aumentano i rischi di depressione senile.
8. Ci sono poi passatempi molto più adatti alla vostra età che non generano le aspettative e le velleità che la musica comporta. Fare pezzi nuovi, divulgare in ogni modo e su ogni canale quelli pronti, cercare serate, accettare condizioni vergognose, sopportare i finti apprezzamenti sulla vostra arte di chi vi vuole bene. Provate con qualche attività fisica, il modellismo, i viaggi, la lettura, trascorrete più tempo all’aria aperta.
9. Per chi suona e non è un nativo digitale, Internet e social media sono una trappola perché trasmettono un senso di invulnerabilità emotiva senza confronti. Per chi viene dalle cassette registrate a cazzo in cantina, dalla difficoltà di reperire contatti, dalla fatica di farsi ascoltare, la rete sembra la risposta a tutti i problemi. Mi spiace deludervi ma proprio perché in rete ci sono cani e porci, gli stessi cani e porci della vita reale, nessuno vi caga di striscio nemmeno lì.
10. Perché non ammettete di aver fatto il vostro tempo? Già i futuri adulti sono quelli che saranno costretti a pagarvi una pensione che, pensando a quello che avete portato di valido nel mondo con la vostra musica, non meritate affatto. Quindi lasciategli spazio, cancellate i vostri mp3, risparmiateci le vostre lamentele canore sulla vita che passa e la morte che si avvicina, e se proprio vi fa piacere provate a fare i nonni rock, dando consigli e suggerimenti a proposito. Anche se, detto tra noi, se vi siete ridotti così è meglio che le nuove leve facciano di testa propria. Anzi, che facciano proprio altro.