whiplash o saranno famosi o nessuno dei due

Standard

Apro al cospetto di Max il plico che ho appena raccolto dalla cassetta delle lettere, e anche se il commento giusto al contenuto potrebbe riguardare l’esagerazione che è tipica del modo di fare marketing per gli americani Max mi delude con una battuta sul fatto che non c’è stato alcun segnale premonitore sull’opportunità di trasferirsi all’estero. Nemmeno se la vita fosse un susseguirsi di sveglie impostate da un’entità superiore che ti avvisano che è il momento giusto di fare o non fare quella cosa, perché se fosse così ricorderei a Max che è meglio che si metta a studiare seriamente armonia se vuole fare il jazzista di mestiere. Max non azzecca neppure certi intervalli di sesta che riconoscono anche i bambini al primo anno di solfeggio, quando gli chiedi di accompagnare con il basso un pezzo reggae tira indietro che ti viene voglia di sfondargli l’ampli, va fuori sui ritmi dispari e, come se non bastasse, a gusti proprio non ci siamo. Resta indietro di un ciclo da sempre, si aspetta estetiche musicali di almeno un lustro prima quando ormai quel tempo è finito, fuori moda, già dimenticato, quindi occhio a chiedergli di curare gli arrangiamenti per voi. Io, almeno, non lo farei. Comunque il materiale informativo della Berklee che ci troviamo davanti è davvero sorprendente. Qualcuno tempo fa aveva recuperato l’indirizzo del più famoso college musicale del mondo da una delle varie riviste per musicisti jazz ossessionati dal jazz che ci scambiamo, quelle con i cd di terza o quarta scelta che allegano appunto per attirare maggiormente l’attenzione dei musicisti jazz ossessionati dal jazz. Nessuno si era ancora preoccupato di inventare la posta elettronica, quindi quello con l’inglese scritto più fluente – modestamente questo sono io – aveva richiesto informazioni su corsi, iscrizione e soprattutto tariffe. Tempo nemmeno dieci giorni e ricevo il pacchetto che ora ho davanti pieno di brochure patinate, un volume sulla storia della scuola con le foto di tutti i jazzisti più celebri che si sono diplomati lì e un ricco catalogo su Boston e sulle strutture ricettive per chi non vuole o non può soggiornare nel campus. Max, che dei due è quello che bada più agli aspetti materiali delle cose, d’altronde fa il consulente finanziario, si precipita sui moduli di registrazione e sulle indicazioni delle rette, me li mette sotto il naso ed è qui che anche senza dircelo capiamo che alla Berklee non ci andrà mai nessuno di noi. Tengo in mano ancora per un po’ il libretto principale, in cartone deluxe rilegato a spirale e con la foto di un trombettista che non vi sto a dire in copertina, con le guance che sembrano esplodere tanto sono gonfie, pronte a spararci nelle orecchie un nota acuta di disprezzo. Faccio notare a Max che tra noi e la celebrità in copertina la distanza è siderale, ma capisco troppo tardi che l’espressione è infelice perché è facile intuire chi, in quella metafora, è la stella e chi è terra terra.

menti sane e corpi di conseguenza

Standard

Il cantante biondino del gruppo cinge vittorioso con il braccio il collo del chitarrista biondino del gruppo nemmeno fossimo a Wembley e non sul palco della Festa dell’Unità, ma non ci sarebbe niente di strano se i due, che sono anche compagni di classe a ragioneria, la mattina dopo non dovessero sostenere l’orale della maturità. Un bella sfida alla vita che mi ricorda quella del mio compagno di liceo che la sera prima degli esami di riparazione – era stato rimandato in latino e scienze – aveva provato l’hashish per la prima volta nella sua vita. Ci aveva chiesto se ci potevano essere contro-indicazioni e noi per scherzo gli avevamo risposto che al massimo avrebbe risposto soltanto con un sorriso a tutte le domande. L’esame in effetti poi lo ha passato per un soffio perché la prof di scienze non era assolutamente soddisfatta della sua preparazione. Aveva preso ripetizioni durante l’estate da Casella, il tecnico di laboratorio della stessa scuola che frequentavamo. Fumava sigarette con un odore insopportabile, una dopo l’altra, e sua figlia, di poco più giovane di noi e malgrado ci fossero studenti di suo padre in casa, ascoltava “Stairway to heaven” con la stessa modalità in cui il papà ne spegneva una e ne accendeva un’altra. Ogni tanto Casella si lamentava, le chiedeva di smetterla, di abbassare il volume, di cosa ci trovasse in quel pezzo lì, mentre la figlia non approfittava mai dei rischi del fumo per controbattere. Malgrado si trattasse di una famiglia molto tradizionale, la figlia poi conseguita la maggiore età era scappata di casa per diventare una specie di punkabbestia e occupare spazi desueti secondo la moda dei centri sociali e dei giovani del tempo. Per un po’ si era messa con Umberto, che suonava con i due biondini di ragioneria di cui sopra e che qualche anno prima avevano appunto messo alla prova la loro concentrazione suonando dal vivo cover di Paul King proprio alla vigilia di uno degli appuntamenti più importanti della vita di un ragazzo. Uno pensa che chi suona abbia scarso rispetto della sua mente e del suo corpo e che passi il tempo a dedicarsi ai vizi, ma non è vero. C’è pieno di musicisti che sono anche degli sportivoni. Non avrei mai detto, per esempio, che uno come Andy dei Bluvertigo fosse in grado di fare quel tipo di affondi complessissimi con una gamba sola, lo si vede nel video di “Altre forme di vita”, se non ricordo male. Ne sollevi una e con l’altra ti accosci a terra e poi torni su. Un esercizio che personalmente trovo di un livello di una difficoltà mostruosa ma io non faccio testo, non sono granché da questo punto di vista. Addirittura la mia insegnante di ginnastica mi ha detto che una volta era una prova per essere ammessi all’Isef, ma oggi che non si chiama nemmeno più così magari le selezioni sono meno dure.

perché in musica il concetto di alta fedeltà è improprio

Standard

La letteratura e la cinematografia sono intrisi di luoghi comuni sui musicisti, ci avete mai fatto caso? Quando c’è da rappresentare un brutta persona, egoriferita e poco affidabile, si ricorre spesso al cliché del musicista, e ogni volta che vedo o leggo storie con protagonisti o personaggi che suonano e, di conseguenza, mandano all’aria la loro vita e quella delle persone che hanno accanto, mi incazzo perché nella realtà è molto peggio.

Non puoi contare su un musicista in nessuna occasione. Quando devi mettere su famiglia, quando sei malato, quando hai bisogno di un prestito. Se hai bisogno di qualcuno a cui lasciare le chiavi di casa per accudire il gatto o le piante mentre sei in ferie, se gli chiedi di prepararti una compilation per correre o giusto perché vuoi qualcosa di nuovo da ascoltare, se vuoi prendere lezioni di solfeggio e persino se devi trovare qualcuno per suonare al tuo matrimonio. Quando ti chiedono in prestito una vhs da digitalizzare, quando ti manca la cipolla per fare il sugo, se non è il tuo turno per fare gasolio nel furgone. Quando dai un appuntamento a una data ora nel tal posto, se ti mancano pochi bollini per completare la raccolta punti della Coop, quando sei sbronzo e hai bisogno di qualcuno che guidi la tua macchina per te. Se non ti ricordi le parti del cocktail che ti hanno chiesto di preparare, quando hai un problema con Windows, se hai bisogno di essere consolato perché c’è una ragazza con cui proprio non c’è storia. Se vuoi un consiglio su un regalo di compleanno, un consiglio su un libro da leggere, un consiglio su qualsiasi cosa.

E non è che se sei un musicista i musicisti a cui ti rivolgi, anche solo per puro cameratismo, si dimostrano migliori. Prova a chiedere a un musicista di esibirsi con te alla festa di fine anno della scuola. E il punto più alto di queste dinamiche i musicisti lo raggiungono infatti quando entrano a far parte di gruppi musicali, composti appunto da altri musicisti. I musicisti nei gruppi lavorano inconsciamente per il loro scioglimento, per aumentare i conflitti tra i componenti, per soverchiare gli altri con il proprio ego e per coprire con il proprio strumento i suoni altrui, per fidanzarsi con le/i partner degli altri musicisti. Per non parlare del fatto che i musicisti quando suonano non ascoltano gli altri musicisti, mentre ad amplificatori spenti li ascoltano ancora di meno, presi solo dalle proprie considerazioni sulla sessione di prove appena terminata.

Quindi se siete scrittori o registi e cercate ispirazione per rappresentare il protagonista musicista del vostro film o del vostro libro chiedete pure, ne so a tonnellate di aneddoti sulla scarsa affidabilità dei musicisti. E state tranquilli: ho smesso di suonare, quindi se vi occorre consulenza potete contare su di me.

la fine del mondo come lo conosciamo

Standard

Ci sarà qualcuno con il mal di testa perché si è abbuffato a dismisura e ha appena preso un’aspirina, d’altronde la fine del mondo come lo conosciamo non è che si possa prevedere. Se avessi mal di testa qualche ora prima – ammesso che si conosca l’istante in cui tutto il sistema viene spento – io una pastiglia la prenderei lo stesso. Si tratta di un istante come tutti gli altri, lo abbiamo visto a Pompei con la gente sorpresa nelle più elementari attività quotidiane dalla lava. Ci sarà qualcuno che osserva scorci famigliari di casa sua e pensa a quante volte si è soffermato su quei dettagli ignorando il fatto che da lì, da quella parte di spazio ora provvisoriamente chiuso all’interno di mura domestiche, non ci passeranno più altre migliaia di anni di storia. E pensate a quante volte ce lo siamo immaginato con una colonna sonora come “Shine on you crazy diamonds” solo perché era circolata quella musicassetta con la registrazione del terremoto del Friuli, ve la ricordate? Un registratore di una volta che, malgrado il collegamento via cavo con il giradischi con su la facciata A di “Wish you were here” dei Pink Floyd, mantiene attivo un microfono che registra l’audio dell’ambiente. La scossa tellurica, la gente che grida, si chiama, corre via fuori al riparo. A noi era successo una cosa simile ma con un disco di Venditti, “Sotto il segno dei pesci”, e sopra una crisi isterica tra le mie sorelle rimasta registrata a loro insaputa, sapete come sono le ragazze. Il registratore era un Philips grigio (di colore) e mono di qualità, un regalo di Natale forse dello stesso anno del terremoto. Come colonna sonora dell’apocalisse preferiremmo tutti qualcosa di meglio di Venditti o di Ligabue che fa certe cover in italiano dei REM a tema, quindi state sempre pronti con il vostro pezzo da mettere sui titoli di coda a portata di mano oppure lasciatevi guidare dalla casualità del vostro riproduttore di mp3 o da Spotify, che ha sempre la canzone giusta per il momento giusto. Se invece sapete l’ora esatta per l’appuntamento decisivo con la fine del mondo come lo conosciamo, magari avete qualche antenato Maya che vi ha tramandato il pronostico, saprete dirci esattamente in quell’istante che cosa staranno facendo i vostri gatti domestici, tanto sono abitudinari. Per noi umani è diverso anche se abbiamo tutti le nostre routine. Molto probabilmente quando succederà non sentiremo nulla perché staremo correndo con le cuffiette ad archetto piantate nelle orecchie, o ancora staremo scrivendo qualcosa a proposito e speriamo ci sia dato il tempo almeno per termin

i nostri figli del potere dirompente del rock non sanno che farsene

Standard

Le tragiche recenti vicende del Bataclan hanno riportato alla ribalta il tema del rock come espressione della rottura con la tradizione, anche se l’interpretazione che ne è stata data, dal mio punto di vista, è stata un po’ forzata. Il radicalismo religioso che fa a brandelli corpi di giovani solo perché rei di aver partecipato a un concerto. Sono certo che le religioni in genere non siano il massimo dal punto di vista dell’applicazione dei valori dell’illuminismo, mi sembra scontato però che oggi per trovare assembramenti numerosi di gente vulnerabile da far saltare in aria non ci sia molta scelta se non lo sport e, appunto, lo spettacolo.

Non nego però di essere in prima linea tra gli idealisti affascinati da questa visione romantica del rock, riassumibile in un celebre passaggio di un testo degli Area che dice “il mio mitra è un contrabbasso che ti spara sulla faccia ciò che penso della vita, con il suono delle dita si combatte una battaglia che ti porta sulle strade della gente che sa amare”. In poche parole ribellione, facciamo l’amore e non la guerra e con il rock le possibilità di fare l’amore aumentano a dismisura rispetto a qualunque altro mestiere ordinario come il ragioniere, suoniamo per combattere il sistema con la forza delle idee eccetera. Un testo e una visione molto anni settanta, e credo che nessuno dei ragazzi protagonisti involontari di quella carneficina, ma anche quelli protagonisti volontari che l’hanno generata, se ne facciano nulla delle encomiabili intenzioni di Demetrio Stratos.

È bello comunque sapere che in qualche cultura primitiva di ritorno (mi riferisco all’Islam visto dagli occhi di un occidentale abituato alla secolarizzazione e al laicismo) ci siano ancora giudizi latenti sulla musica giovane come una forma di trasgressione tout court verso la tradizione delle civiltà che l’hanno preceduta, che però i nostri nonni con i figli beat risolvevano a sganassoni, i nostri padri con i figli punk vergognandosene in pubblico (questo è capitato a me), quelli dell’ISIS con le cinture al tritolo e noi che invece saremmo pronti a comprendere le ragioni di una rottura abbiamo figli che del potere dirompente del rock non sanno che farsene.

È bene che chi vuole colpire i miscredenti peccatori sappia che imbracciare una chitarra elettrica collegata a un distorsore non ha più lo stesso valore sociologico e la portata di quando lo facevano Elvis, i Beatles e i Rolling Stones, gli Area, i Clash. Oggi siamo ampiamente più consapevoli di quanto sia innocuo il rock. Persino i messaggi satanici registrati al contrario è stato appurato essere privi di conseguenze in ottica di una redenzione, le creste ce li hanno cani e porci, nessuno crede più alla cattiveria del death metal, il punk lo ascoltano pure i cinquantenni come me, le parolacce sono il registro ordinario delle conversazioni sui social e in tv e tra i ragazzini delle elementari su whatsapp.

Pensate quindi a come ci risultano ingenui certi espedienti che si usavano una volta per dimostrare a tutti che il rock poteva scardinare il mondo, quando invece poi è stata sufficiente una manciata di bit per devitalizzarlo e ridicolizzarne la matrice combattiva. Ascoltavo uno dei pezzi di quelli che quando mi chiedono a bruciapelo di mettere una canzone trasgressiva, è costantemente compresa tra le prime cinque scelte, e mi riferisco a “California uber alles” dei Dead Kennedys. L’intervallo semitonale del riff era una matrice compositiva standard da utilizzare come dimostrazione che l’armonia classica o comunque tradizionale era una merda e che mettendo in sequenza accordi così ravvicinati il punk era pronto a destabilizzare le regole della musica come l’avevamo sempre intesa.

Ora, dopo decenni di canzoni sempre più sperimentali, di cultura dissacratoria, di nichilismo sociale, di cose che hanno distrutto tutto e il contrario di tutto senza più costruire nulla, ascolto California uber alles e mi rendo conto che in fondo quella sequenza di accordi al massimo ha la stessa portata tragressiva di “Espana Canì”, d’altronde gli intervalli di semitono nella musica non li ha certo inventati Jello Biafra. (Seguono rispettivamente i video di “California uber alles” ed “Espana Canì” e ditemi se non ho ragione)



vi va di salire a vedere la mia collezione di dischi del 2015?

Standard

Vi ho già detto, vero, che uno dei motivi per cui non suono più è perché c’è così tanta bella musica in giro da ascoltare che aggiungere la propria che invece è così così non ha alcun senso? E non mi riferisco solo alle cose nuove di gruppi di oggi, ma a tutto lo scibile sonoro che grazie a Internet abbiamo a disposizione e che ci consentirebbe di vivere almeno mille vite con un sottofondo audio costante senza mai ascoltare due volte la stessa canzone ripetuta.

Da qui, anche fare le classifiche di fine anno è una consuetudine ormai superata. Se metto insieme venti dei millemila siti di recensioni al cui feed sono registrato dovrei confrontare centinaia di dischi usciti quest’anno, ma chi ce l’ha il tempo per farlo? Purtroppo non mi pagano per questo, anche se sarebbe bello. Quindi anche io, come si usa in giro, senza nessun ordine di importanza, di ascolto o di bellezza, ho raccolto qui alcune delle cose più interessanti uscite nel 2015, con l’augurio che l’anno prossimo sia ancora meglio.

Intanto gli Algiers, che sono stati una delle sorprese più piacevoli dell’anno. Un mix di post punk, no wave e soul/black come non si era mai visto prima. Il disco è uscito per la Matador, tant’è che hanno aperto anche alcuni dei concerti degli Interpol. Se non li avete mai sentiti, dubito ma non si sa mai, correte subito che non c’è così tanto tempo. Speriamo si confermino con un nuovo lavoro il prima possibile.

Quest’anno ha visto anche un piacevole ritorno, quello dei Blur con The Magic Whip che non so voi, ma sarà che devono essere maturati di brutto e – la butto lì – mi piacciono ancora di più dei tempi d’oro. Dicono che Damon Albarn si sia divertito a rimettere insieme la band, speriamo allora perché c’è bisogno.

Ma è uscito anche un nuovo bellissimo album di una delle mie band preferite tra quelle in attività, che sono i The Foals, che peraltro a fine gennaio saranno in concerto a Milano, ho già i biglietti da almeno un mese. Un disco davvero di ottima qualità in perfetto stile Foals. What went down è forse tra tutti questi quello che ho amato di più, ma sono molto di parte.

Ne hanno parlato tutti e c’è stato molto hype sul monumentale The Epic di Kamasi Washington, e già il fatto che un disco anche con una certa complessità di jazz sia stato così chiacchierato è un fatto che non si vedeva forse dai tempi di Tutu. Da ascoltare e interpretare a piacimento.

Anche se devo dire che mi trovo più sul timbro trombettistico di Christian Scott Atunde che ha pubblicato secondo me il miglior disco di jazz dell’anno che è Stretch Music, sarà che davvero, come si dice di lui, unisce il jazz a un approccio hip hop ma con il nervosismo di un certo rock che piace a noi, e lasciate perdere che nel video qui sotto indossa la maglietta di Unknown Pleasures, visto che di questi tempi si vede anche nelle foto dei gruppi per ragazzini.

Sempre più o meno da queste latitudini musicali, ma da ben altre longitudini, c’è questo interessante gruppo di electro-fusion 2.0 che viene da una delle terre più sorprendenti dell’Europa, e non solo perché sembra ci sia pieno di aspiranti martiri dell’ISIS. I belgi Stuff, con il loro album omonimo, hanno per la prima volta scardinato i paradigmi del jazz elettrico. Se non ci credete sentite qui.

Ma torniamo a sonorità a me più congeniali. Sono del Texas ma vivono a New York e suonano un insieme tra Velvet Underground, Neil Young e post punk. Quest’anno dei Parquet Courts è uscito un disco secondo me inascoltabile che l’EP Monastic Living, che è stato però preceduto da questo gioiello di no wave in salsa country rock che è Content Nausea. Quello che segue è il pezzo più rappresentativo del disco.

Piuttosto interessante anche il disco Arms Around a Vision dei Girls Names, new-new-wave dall’Irlanda del Nord. Il video è una summa di editing retro.

Per ovvi motivi siamo molto affezionati ai New Order malgrado le loro vicissitudini e quella crescente voglia di alcuni di loro o ex di rifare i Joy Division, che insomma, anche i New Order hanno una loro identità ben lontana da quella di Ian Curtis. Quest’anno è uscito Music Complete che è un disco dei New Order che suonano musica dei New Order come non si sentiva da decenni. A parte un paio, forse tre, canzoni che boh, nell’insieme piena sufficienza, anzi direi un bel sette meritato.

Dei The National e dei progetti separati dei membri della band più importante del momento (insieme a Tv on The Radio, non mi stancherà mai di ripeterlo, e infatti quel che sto per dire vale anche per loro) si compra tutto a priori. El Vy è un duo composto da Matt Berninger e Brent Knopf dei Menomena. Tutto sommato un disco dignitoso, niente di eccezionale ma lo sapete, a proposito dei The National non riesco a essere lucido.

Chiudiamo con un pezzo che è uscito da poco e che anticipa quello che potrebbe essere una delle cose migliori del prossimo anno. Vi ricordate quanto abbiamo amato Silence Yourself delle Savages qualche anno fa? Bene, il singolo che precede il nuovo album in uscito a gennaio è superlativo e di buon auspicio. Buon ascolto.

PS: vi consiglio anche Water Dreams di Robin Bacior, Are you alone degli Majical Cloudz, A Paradise di Gwilym Gold e Have You In My Wilderness di Julia Holter. Se risultano tra le cose più ascoltate nel 2015 sul mio Spotify ci sarà pur un perché.

la musica, la gente

Standard

Una delle ragioni per cui non cambierei mai la mia data di nascita con quella di nessun altro è perché sono cresciuto ai tempi in cui la musica spostava le masse più di ogni altra cosa al mondo. La politica come l’avevamo conosciuta aveva ancora la sua influenza ma era la musica il vero motore che faceva girare tutto. Anche la droga tradizionale stava cedendo il passo a certe pasticche da assumere a ritmo pieno, gli scioperi si consumavano negli afterhours, l’amore era quello cantato nelle canzoni, la rabbia si misurava con le tacche di distorsione aggiunta alle chitarre, la violenza era tutta nei colpi di batteria. L’ingegneria si studiava con l’elettronica applicata agli strumenti a tastiera, per non parlare dell’informatica che era tutta nei computer che mettevano in synch ogni cosa. Le stagioni erano sempre quattro ma le riconoscevi nelle copertine dei trentatré giri e c’erano pure le mezze, che oggi tanto per fare un esempio mica esistono più, c’erano le mezze stagioni che contenevano solo due brani su due facciate e comunque era bello potersi immaginare al caldo o al freddo o al tiepido indipendentemente da quello che succedeva al di là della finestra.

I social network c’erano e generavano conversazioni urlate nelle orecchie sulla pista da ballo, altrimenti non era possibile sentirsi, per questo si parlava con il corpo, c’era il body language e ci si muoveva a tempo per sedurre o per allontanare, per flirtare o per farsi due risate, persino per trollare e per battere l’ignoranza con l’ironia proprio come si fa oggi. Le opinioni, poi, ce le influenzavano certi testi con certe parole in italiano e in inglese che oggi risultano incomprensibili.

Riflettevo, per fare un caso limite, sulle possibilità di penetrazione nella testa di un adolescente oggi di un testo di De André, o certe indignazioni che ti pigliavano ascoltando un Guccini o anche una cosa come il raggio di sole benvenuto di cui raccontava De Gregori. Si combatteva persino a colpi di musica, quelli coi vestiti neri contro quelli coi capelli lunghi contro quelli con i capelli rasati contro quelli con la cresta. E la moda? Vogliamo parlare del rapporto tra musica e modo di vestirsi e di conciarsi? La musica era un elemento semplice, il vero quinto elemento che però costituiva il nostro organismo con una percentuale superiore persino a quella dell’acqua, ci ferivamo e uscivano ritornelli con la melodia più appropriata. La musica certe volte faceva persino diventare ricchi e in casi più amari riduceva sul lastrico i fanatici della musica, che non si arrendevano mai ai colpi bassi che la musica tirava.

Certa musica sfamava, alcune voci dissetavano, c’erano persino ritmi che addormentavano, e i balli che facevano dimagrire e altre abitudini sonore che invece ti facevano mettere su chili. Con la musica leggevamo e si studiava, con la musica ci addormentavamo, lavoravamo, stiravamo, facevamo ginnastica, viaggiavamo in lungo e in largo, ci si sfogava e ci si tranquillizzava. La musica favoriva l’innamorarsi ma certe canzoni ti facevano venire voglia di sparire, andare lontano e, finita la cassetta, tornare indietro con il mal di testa. La musica radunava centomila persone a San Siro, una cinquantina ai concerti dei gruppi come il mio, in cinque ad ascoltare The Wall appena uscito, da solo con la cassetta consumata ad addormentarsi ogni sera, con lo stesso pezzo. C’erano le scene dei film in cui qualcuno ti metteva sulle orecchie le cuffie del walkman con quel pezzo lì e i tentativi di imitazione che venivano meglio perché la canzone da fare ascoltare la sceglievi tu. La musica e l’individuo, la musica e la gente. Ecco, la mia data di nascita non la cambierei con quella di nessun altro.

fate in modo che sui vostri figli non ricadano le conseguenze dei vostri errori

Standard

Qualche sera fa mi si rincorrevano nella mente certi versi in quel modo in cui capita che sovvengano i passaggi di cose imparate agli albori della giovinezza. Vi ricordate? Ei fu siccome immobile, sempre caro mi fu quest’ermo colle, vides ut alta stet nive candidus, dammi il tuo vino leggero che hai fatto quando non c’ero e qui immaginate uno di quegli effetti sonori tipo paperissima di freni e poi un fragoroso impatto di vetri e altre cose rumorose che si schiantano per terra. “Dammi il tuo vino leggero che hai fatto quando non c’ero” che lirica è?

Qui non c’entra nessun poeta italiano perché, lo avrete riconosciuto, è un passaggio tratto da “Ti amo” di Umberto Tozzi e a onor del merito, messo così tra un Saba e un Ungaretti non stona nemmeno tanto. Il problema è il contesto. “Fammi abbracciare una donna che stira cantando”, passaggio con cui fa il paio, è un’altra frase che non si può leggere e che ci fa vergognare per l’autore. Abbiamo scritto più volte come è difficile scrivere testi convincenti in italiano. Un esempio?

La descrizione di un attimo (mi piace)
le convinzioni che cambiano (ok dimmi di più)
e crolla la fortezza del mio debole per te (imbarazzante)

e qui è ancora peggio perché era il già il duemila e di acqua sotto i ponti di certe porcherie della più becera canzone italiana ne era già a passata a ettolitri. Posso capire un Umberto Balsamo che scioglieva le trecce ai cavalli nel 79, ma i Tiromancino, con quella smanceria lì, hanno dimostrato la veridicità del modo dire nomen omen giocandoci davvero un tiro mancino.

Quindi qual è il problema? Semplice: fino a un certo punto della canzone italiana gli autori avevano campo libero perché il nostro immaginario pop era tabula rasa e quindi potevano permettersi di scrivere e cantare quello che gli pareva e piaceva. Di esempi del genere, su youtube, ne trovate a milioni. Il nostro impegno potrebbe essere quello di fare di tutto affinché i nostri figli non entrino in contatto con certa merda che a noi non è mai stata risparmiata, a partire dall’Umberto Tozzi di Ti amo e tu dabadan dabadan.

Ma l’impresa è oltremodo impossibile. Abbiamo visto in famiglia Stella, il gradevolissimo film di Sylvie Verheyde del 2008 centrato su certe tematiche dell’adolescenza, e se volete ripetere l’esperienza anche voi – e qui faccio uno spoilerone – fate attenzione perché c’è una scena di una festa di ragazzini in cui il momento dei lenti è proprio girato sulle note terzinate di “Ti amo”. Pensavo di averla scampata e invece, poco tempo dopo, mia figlia mi ha chiesto informazioni su quella canzone. Da allora sono riemerse tutte le parole che come le preghiere a catechismo sono rimaste qui dentro latenti come una malattia esantematica. Io ce l’ho ancora davanti agli occhi Umberto Tozzi che la canta all’Arena di Verona fresco del titolo di vincitore del Festivalbar. Comunque siete ancora in tempo per proteggere i vostri, di figli. Anzi, correte a dare un’occhiata agli altri pezzi che hanno partecipato a quell’edizione in modo da mettervi al riparo da pericoli forse ancora più gravi.

10:15 tuesday morning, o l'ora del sold out del concerto dei The Cure

Standard

Non so se era esattamente quella l’ora che ho messo nel titolo quando il sito di Ticketone dava già sold out per il concerto dei The Cure al Forum di Assago, ma comunque più o meno il senso è quello e solo così comunque mi veniva il gioco di parole usando il titolo di una loro canzone. Vi interessa davvero sapere com’è andata? Sapevo che la vendita sarebbe iniziata proprio ieri l’altro, il 24 novembre, ed ero venuto a conoscenza del tour un paio di giorni prima, ma credo che la notizia fosse fresca fresca. Una bell’iniziativa di marketing: crei l’hype, getti la bomba e poi si salvi chi può. Questo per dire che non avevo ancora fatto mente locale sull’idea di andare o no. Che dite? pensavo. Mi si nota di più se vado all’ennesimo concerto di Robert Smith oggi cinquantasettenne o se lascio andare voi, tanto io ho ancora freschi nella memoria certi live risalenti all’84 e o all’85 ma anche ai tempi di Disintegration fino a una serata godibilissima del tour seguito all’uscita di Wish (i cui biglietti li aveva acquistati per me Fabio e ancora oggi non gli ho restituito i soldi e c’ero pure andato con una ragazza che voleva a tutti costi che ci amassimo in quel senso lì a un punto ben preciso di una determinata canzone, ma per fortuna che, forse il pezzo prima, c’è stato un accenno di pogo che non mi sono lasciato sfuggire per allontanarmi di un po’. Voglio dire, io ero lì per ascoltare i The Cure, mica per fare altro)?

Ma di questi tempi in cui non c’è niente di più importante dei capisaldi della musica della storia dell’umanità intera del mondo mondiale o, meglio, i consumatori di musica siamo sempre gli stessi perché i giovani hanno ben altro per la testa, non bisogna farsi troppe seghe mentali e cogliere l’occasione appena ti si presenta. Con questi mostri sacri di una certa età che non si sa quanto possano durare ancora non c’è da scherzare per nulla. La cosa è andata più o meno così: in orario d’ufficio vado sul sito a controllare quanto costano i biglietti, mi consulto con mia moglie via mail, torno sul sito e ciao. Tutto esaurito. Ci sono quindi migliaia di persone che hanno la certezza di impegnarsi e partecipare a una cosa che succederà tra esattamente un anno da qui. Io, al massimo, arrivo a pianificare fino ad agosto, proprio ieri ho prenotato il campeggio e acquistato il biglietto della nave per la Sardegna perché se ti metti a pensare che chissà dove sarai, con tutto sto tempo in mezzo, non vivi più.

Così, da quel momento, continuo a riflettere sul fatto che comunque non ci volevo andare, che dopo “This must be the place” vedo Robert Smith sotto una luce diversa, che comunque non avevo ancora perdonato ai The Cure quel tour fatto volontariamente senza tastierista e che, in linea con la mia convinzione che a una certa età è bene ritirarsi tutti e lasciare il palco ai giovani, tutto sommato è meglio così. D’altronde che cosa volete che rappresentino i The Cure per me, che sono solamente tra i miei tre punti di riferimento culturali di tutta la vita insieme a David Bowie e ai Genesis con Peter Gabriel? Ho deciso così che, per mettermi in pari con l’ordine delle cose e riportare il cosmo al suo equilibrio regolamentare, ogni giorno che mi separerà dal primo novembre del 2016 ascolterò un pezzo dei The Cure come prima cosa appena sveglio, in modo da accumulare punti karma validi per la prossima tournée che chissà quando sarà.

la vita è come una scaletta corta e senza nemmeno un bis

Standard

Giochiamo che io ero David Bowie e che facevo un tour mondiale toccando anche l’Italia (avevo scritto Milano ma poi mi sembrava di fare torto a tutti voi che vivete in periferia). Stava per uscire il nuovo disco e quindi i concerti che facevamo erano quelli promozionali che si fanno da sempre per divulgare il nuovo lavoro. C’erano quindi i nuovi brani da proporre al pubblico, magari non proprio tutto l’album però quasi ma a quel punto Bowie andava in crisi perché non sapeva quali classici del suo repertorio aggiungere in scaletta perché il pubblico, sicuramente desideroso di assistere alla presentazione dei nuovi, avrebbe pagato comunque per sentire anche qualcuno di quelli storici. E quando il gioco si fa duro sapete come va a finire. Pensate infatti alla difficoltà che deve avere uno come lui a mettere insieme la scaletta ogni volta. Dunque, secondo Wikipedia Bowie ha pubblicato 26 album in studio e si appresta a far uscire il ventisettesimo, che fa in tutto almeno 300 canzoni circa, di cui ipotizziamo un centinaio circa di quelle stra-conosciute. Come si fa? Da dove si inizia? Qualche preferenza ce l’avrei e immagino anche voi, ma se fosse per me già solo la presenza del periodo berlinese sarebbe importante almeno tanto quanto i primi anni settanta, diciamo tra Hunky Dory e Young Americans. E vogliamo parlare di Lodger – Scary Monsters (and Super Creeps) e Let’s Dance? E anche di “Loving the Aliens” tratto da Tonight che anche se l’album è forse quello più sotto tono è comunque un pezzone? Poi ci sono gli anni novanta, con produzioni di tutto rispetto, e i duemila fino a The Next Day che hanno un loro perché. Ecco, se giochiamo che io ero David Bowie e che facevo un tour mondiale, la scaletta durerebbe una giornata intera e chissà se lui, oggi e alla sua età, riuscirebbe a tenere botta. Pensate, al contrario, alla sfortuna di fare concerti quando sei al primo album. Una mia amica che negli anni ottanta era uscita di senno per Joey Tempest degli Europe, mi raccontò della delusione al concerto di Genova: una manciata di brani e l’esecuzione di The Final Countdown due volte, all’inizio e alla fine. Ma si può? Io avevo visto gli Interpol ai tempi del loro primissimo ellepi, e se non ricordo male tirare fino a quindici canzoni era già stata un’impresa. Addirittura avevo messo su una band con un tizio che aveva organizzato delle serate ancora prima che avessimo prodotto un repertorio quantitativamente dignitoso, e così per colpa della sua fretta ci siamo trovati a dividere i palco con altri gruppi e a presentare set vergognosi da quattro o cinque canzoni. Non so se Bowie agli esordi abbia fatto errori strategici del genere, ma non ce lo vedo proprio, considerando la sua infallibilità: avete sentito “Blackstar”, il primo estratto dal suo nuovo album, vero’?