cure e curve

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Tra la refurtiva recuperata, oltre alle solite cose che si rubano in un appartamento abitato da povera gente come me e voi, i Carabinieri hanno messo a inventario un macchinario all-in-one per fare palestra in casa, lo stesso di cui ho visto una televendita qualche giorno fa con tanto di energumeni e donne super-muscolose che facevano la dimostrazione. Mi sono sempre chiesto come siano fatte le persone che non resistono all’impulso di chiamare di punto in bianco il numero in sovrimpressione per approfittare di un’offerta, questo perché le cose commercializzate di questo tipo stanno ai beni normali di consumo come gli occhiali a raggi x stanno a un affetto da presbiopia senile. Eppure alla maglia elastica che contiene l’adipe, lo stomaco rilassato e l’imbarazzane grasso sulla schiena ci ho fatto un pensierino anch’io, ma poi mi è venuta subito in mente Ornella e il suo reggiseno imbottito, che quando gliel’ho sfilato e ho sentito quei cuscinetti sulle coppe e l’ho guardata sorpreso, mi sono molto imbarazzato per lei, per non parlare di quanto mi fosse calato il desiderio. Voglio dire, mascherare certi difetti oppure certe lacune non serve a nulla perché poi, al momento topico, il segreto viene svelato in tutta la sua crudele verità. Quindi mascherarsi con abbigliamento contenitivo o diciamo gonfiante può essere utile la prima volta, ma il partner può sentirsi truffato e non rilanciare con una seconda. Chi se ne importa, potrebbe obiettare qualcuno: chi se ne importa se non c’è un secondo incontro. Con una maglia modellante o un collant che ti tiene il sedere in alto si può collezionare una serie infinite di prime volte, magari qualcosina si conclude lo stesso. Poi si creano comunque opportunità di incontrare quello o quella che gli vai bene anche con il grasso sulla schiena o senza tette e quindi, una volta sistemato, puoi anche evitare di metterti addosso guaine e panciere. E se il fine giustifica i mezzi, l’importante è identificare il proprio fine ultimo. Siete persone sincere e genuine o badate ad apparire e il fatto di generare delusioni rispetto alle aspettative altrui non vi turba? A me tutto questo dibattito non interessa. Stasera ho seriamente considerato la possibilità che il fine ultimo delle cose siano i Cure. Magari l’umanità si è evoluta o involuta, secondo i diversi punti di vista, fino a qui proprio affinché beneficiassimo dell’esistenza di album come “Three imaginary boys”. Io ne ho una copia in vinile senza copertina perché la copertina l’ho lasciata a casa di Chiara, la sorella di Lucia. Chiara aveva una sesta pura tanto da farmi dimenticare una cosa preziosa come la copertina di “Three imaginary boys”, una sesta pura senza bisogno di reggiseni imbottiti, e chissà se oggi conserva ancora la mia copertina e la stessa linea di un tempo, oppure anche lei deve contenersi per non sembrare troppa. Alla fine arriva il giorno in cui la carne non conta più. I Cure invece si, anche se non sono proprio il vostro fine ultimo, oppure invece come me pensate che il genere umano non possa aspirare a niente di più significativo.

volete più bene ai Led Zeppelin o agli Spirit?

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La leggenda metropolitana del presunto plagio di “Stairway to Heaven” si propagava tramite passaparola tanto quanto le voci degli amici morti e poi tornati in vita o i cugini che dopo l’incidente in moto si allontanavano a piedi in tutta tranquillità e poi, togliendosi il casco, gli si apriva la testa in due come una mela. Già era difficile procurarsi un disco che ti piaceva, figuriamoci un disco solo per controllare che in un brano c’era una somiglianza come si diceva in giro e con l’aggravante che il disco vittima del plagio è di un gruppo sconosciutissimo. Nessuno aveva mai sentito nominare gli Spirit e nella ridotta cerchia dei super-espertoni preparatissimi soprattutto sui gruppi di nicchia come gli Spirit non militava certo gente come noi che già schifavamo l’hard rock dei Led Zeppelin, figuriamoci gli Spirit. Poi con la diffusione dell’informazione condivisa e dell’Internet, tutti i grandi complotti e misteri dell’uomo sono diventati tema principale della nostra cultura, pensate che oggi c’è pure un movimento politico che attinge da queste cose a mani basse, comprese le grandi domande quali chi ha copiato chi e, se ha copiato, quale debba essere l’espiazione. Ora, a così tanti decenni di distanza, non so se avete letto che l’annosa questione è tornata prepotentemente alla ribalta. E a prescindere dai due estremi del caso che sono da un lato che le note sono inevitabilmente dodici e dall’altro che la storia è piena di citazioni o scopiazzature e rimandi ad altre canzoni, il punto è che se fossi gli Spirit e gente del calibro di Robert Plant e Jimmy Page avesse preso otto battute di una mia composizione per farci un pezzo come “Starway to Heaven” farei i salti mortali dalla contentezza. Che poi da quei quattro arpeggi gli Spirit hanno composto “Taurus” mentre ai Led Zeppelin gli è venuta la canzone rock più famosa e forse venduta di tutti i tempi, per cui anche se ci fosse il plagio sarei onorato del fatto che da un semilavorato grezzo come il mio qualcuno ha tirato fuori un capolavoro. E ho pensato la stessa cosa per un’altra querelle, quella tra i Rolling Stones e i Verve per il loop di archi di “Bitter Sweet Symphony”, ricordate? La band di Jagger ha vinto persino una causa attribuendosi i diritti della (unica, peraltro) hit dei Verve, accusati di aver copiato da “The last time” nella versione della Andrew Oldham Orchestra. Anche in questo caso è fuori di dubbio che la parte di archi renda molto meglio in “Bitter Sweet Symphony”, è in più non credo che ai Rolling Stones cambi la vita un pezzo più o un pezzo in meno, quindi se fossero stati dei signori avrebbero chiuso un occhio a vantaggio della musica. Inoltre, non mi sembra che i Rolling Stones abbiano problemi di soldi. Ma tornando ai Led Zeppelin, noi cinquantenni siamo nell’età in cui ci commuovono versioni come quella qui sotto, e forse l’ho già scritto ma perdonatemi, ripeto, è sempre colpa dell’età.

ho qualcosa da dire anche su Moonlight Serenade di Glenn Miller

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Tra dieci anni, se esisteranno ancora i Social Network, si farà a gara a condividere il proprio pensiero su che cosa stavamo facendo il 14 aprile 2016, quando improvvisamente dopo Bowie, Casaleggio, Paolo Poli, l’aeroporto di Bruxelles e la leggera (per fortuna) ischemia di mia mamma si è consumata l’ennesima tragedia. A me ha avvisato la mia amica Paola che doveva inviarmi un Wetransfer con una marea di foto di una partita di pallavolo delle nostre figlie. In calce, nella mail, mi ha chiesto come mi sentivo per via del fatto che la musica era finita.

Sono andato subito sul sito di Repubblica e, avuta la conferma, il mio primo pensiero è stato che cosa scrivere qui. Per sicurezza ho riacceso l’unico synth che mi è rimasto, un Microkorg che tengo inscatolato nel ripiano dello sgabuzzino con altre cose che uso rarissimamente come la carta da regali – perché mai dovrei fare dei regali e, soprattutto, incartarli – e che non accendevo dall’ultima prova con il mio ultimo gruppo di almeno sei anni fa. Comunque l’ho riacceso e in effetti non è uscita nemmeno una nota. Ho provato pure a fischiare ma niente.

Avevo notato già qualche avvisaglia. Mi chiedevo per esempio che cosa ascoltare correndo (ah se vi interessa ho allestito persino una pagina Facebook in cui do consigli di musica non convenzionale per runners – o almeno li ho dati fino a ieri quando la musica non era ancora finita – e che trovate qui) ma le playlist risultavano sciape e vuote, al terzo o quarto pezzo già mi passava la voglia. Osservavo la mia nutrita collezione di vinili ma nessuno mi veniva incontro come succedeva qualche mese fa. Be’ che c’è da guardare così? Voi avete i cagnolini che vi fanno le feste quando rientrate dal lavoro? Io avevo queste centinati di trentatré giri in vinile, alcuni neri e altri colorati, che sgusciavano fuori saltellanti dalle loro copertine come i delfini quando gli istruttori gli fanno vedere il pesce al bordo della piscina.

Quindi niente, ora che la musica è finita – ho pensato prima – dobbiamo mettere a punto una strategia perché non so voi ma io senza musica non ci sto. E la prima cosa che mi è venuta in mente – agire di impulso a volte sorprende anche le persone più scettiche della fazione di quelli che valutano tutte le conseguenze – la prima cosa che mi è venuta in mente è, non ci crederete, una scena del film “Il partigiano Johnny” di Guido Chiesa. Ora, a parte il fatto che quel film è una merda e mi spiace che un capolavoro come l’omonimo libro di Fenoglio con uno dei temi a me più cari al mondo sia stato reso cinematograficamente in quella versione da mentecatti con un cast di braccia rubate ai call center.

Comunque nel film mi aveva colpito la scena in cui Johnny balla un lento su “Moonlight Serenade” di Glenn Miller. Non avrei mai pensato che il primo brano di cui avrei avuto voglia il giorno in cui la musica fosse venuta a mancare fosse proprio “Moonlight Serenade” di Glenn Miller che è anche uno dei temi preferiti da mia mamma e lo era anche di mio papà. E se sembra veramente fuori dal mondo, anche quello del cinema, che un partigiano sia riuscito a mettere su un disco in piena Resistenza su un grammofono e a ballare proprio quella canzone lì, vi assicuro che il mio disco incredibilmente ha funzionato e funziona ancora. Si sente. Non è un vinile, ma una raccolta da quattro soldi di pezzi di Glenn Miller su CD. Chissà se duplicandolo e diffondendolo in rete, in qualche modo, qualche piccolo rigurgito di musica torna a popolare il nostro pianeta? Magari la musica è nata proprio così, con qualcuno che all’inizio dei tempi ha diffuso in qualche modo una canzone che gli ricordava i suoi genitori e da lì è cominciato tutto.

l'universo che ci aspetta oltre lo svincolo

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Una delle interpretazioni più suggestive del capolavoro di Kubrick – mi riferisco alla sua Odissea nello spazio, e nello specifico al finale – è che non c’è tutta questa differenza tra l’universo infinito e la morte. Kubrick ha scoperto l’acqua calda, nel senso che da quando l’uomo ha iniziato a riflettere su queste cose, a inventarsi credenze e religioni e a struggersi sul suo destino, il fatto di disperdersi da qualche parte e di avere una componente fatta di ignoto ci ha indotti a pensare che alla fine dei programmi saremo tutt’uno con quello che non riusciamo a ridurre a trasformazione chimica o operazione matematica, e morte e universo infinito sono appunto le prime due cose che abbiamo a portata di mano per capire la nostra inutilità ai fini del tutto. Sempre che ci sia un tutto. Ma anche se non ci fosse la sostanza non cambia, anzi cambia perché per fortuna siamo biodegradabili. Ma che importa che cosa c’è a miliardi di milioni di miliardi di milioni di miliardi di anni luce da qui se tanto al massimo quando ci avanza mezz’ora di tempo libero il punto più distante a cui aneliamo è l’Ikea di Cesano Boscone? Un fenomeno che si spiega solo con il fatto che davvero non c’è più tempo ed è per questo che si confermano modelli già rodati che limitano il rischio di adottare procedure nuove e dall’esito ignoto. In questa visione escatologica, che almeno si ammetta l’ipocrisia di chiamare l’uscita numero 5 della Tangenziale Ovest direttamente “Ikea”, tanto tutti quelli che escono lì si sa già dove si stanno recando. Cesano Boscone in realtà non esiste, è un mistero tanto quanto la morte e l’universo infinito e le polpette di renna. E la prova di quell’ammasso di ignoto e incommensurabile che mai ci sarà dato conoscere è il fatto che da lì – dallo spazio/universo, non da Cesano Boscone – ci arriva credo per un’ultima volta la voce di David Bowie, una delle vittime più compiante di questo Annus Horribilis per giunta bisesto. Qualche giorno fa è stato pubblicato un nuovo video tratto dal suo album quasi postumo “Blackstar”, un brano che non si capisce appunto se venga da qualche parte remota dello spazio, luogo che Bowie ha frequentato più volte nella sua vita, o direttamente da quello che erroneamente chiamiamo oltretomba, il che è ancora più frustrante se appunto noi, nella nostra vita, abbiamo solo collezionato visite domenicali all’Ikea. Il collante di questo agglomerato nobile di ignoto è l’Internet, che non sappiamo se c’è o non c’è, se è visibile o no, se è concreta o è sfuggente ma che ci importa, basta che trasmetta dalla parte in cui abitiamo noi mortali e con chiarezza i messaggi che ci indicano la strada, quella che prosegue all’infinito oltre l’uscita 5 della Tangenziale Ovest.

del perché siamo pronti a sdegnarci per la musica

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C’è una legge non scritta secondo cui quando si sente della musica ad alto volume provenire da una fonte arbitrariamente condivisa con il pubblico circostante (comitiva di giovinastri in spiaggia, vicino di casa nei giorni di festa, automobile che passa in strada con i finestrini abbassati) nel 99 per cento dei casi si tratta di musica oggettivamente di merda. Una teoria che si basa sull’assunto che la musica oggettivamente di merda è quella che non piace a me, che a spanne costituisce un buon 75 per percento del prodotto sonoro usufruibile attraverso i canali più comuni. La restante fetta – e vi assicuro che a parte qualche eccezione io sono uno che ascolta davvero di tutto – per me costituisce ben più di un argomento di discussione o una materia di studio o un motivo sul quale a cinquant’anni sono ancora qui a cercare gente (che dall’età potrebbero essere miei figli) che pubblica cose nuove e per la quale sono pronto a sacrificare il mio tempo per partecipare a una loro esibizione dal vivo. Non si spiega infatti perché la musica sia una passione che investe le persone (almeno dagli anni cinquanta ad oggi, e mi riferisco al rock e ai suoi derivati) alla pari della politica e della religione, cioè di cose apparentemente ben più importanti e decisive per equilibri che vanno a influenzare l’economia, la società, lo sviluppo e, in genere, la vita di tutti noi. Se si fa eccezione per lo sport, che accende gli animi in modo ancora più primitivo (e anche qui ci sarà qualcuno che avrà studiato a fondo la questione) la musica tra le discipline culturali non ha eguali. Non ci sono infatti fenomeni giovanili e di costume che nascono e vivono per la letteratura, per esempio, o per l’architettura, anche se sarebbe bello, ve l’immaginate? In contrapposizione a punk o metallari gruppi di ragazzi vestiti in un certo modo perché fan del post-modernismo americano o del noir scandinavo. Oppure trucco e abbigliamento diverso per gli amanti della cucina giapponese o del kebab. I ragazzi si sentono molto più fighi se hanno una band rispetto a quando sanno disegnare da dio e dipingono persino. Malgrado ciò, non c’è niente di più svalutato al mondo che la musica, e qui in Italia siamo ai vertici per il modo in cui viene bistrattata. Pensate al motivo per cui, per esempio, una parte dei nostri soldi finisce nell’acquisto di libri che poi ci vengono messi a disposizione sotto forma di prestiti nelle biblioteche pubbliche. Un benefit per me assolutamente indispensabile, considerando il fatto che me ne servo a mani basse. Quello che voglio dire è che diamo per scontato che la lettura sia un’attività che debba essere garantita anche gratuitamente come servizio per la comunità (ed è giusto così) mentre lo studio di uno strumento musicale no. Se per questo anche lo sport o il cinema o il teatro. La riflessione che vi pongo è: quando abbiamo deciso che ci sono arti e discipline più nobili di altre? E in base a cosa è stata stilata questa classifica?

quel che la vita unisce la musica divide

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Se già le discussioni da bar sulla politica italiana sono una vera e propria trappola, parlare di questioni internazionali tra musicisti può rivelarsi una catastrofe. Ci sono amici che alla seconda birra si prendono a testate sulle preferenze calcistiche ed è facile immaginare il danno che con disinformazione, cialtronaggine, presunzione e alcol possono recare a se stessi, al prossimo e al futuro dei rapporti interpersonali. Ma a me rimanere amico di uno che già si chiama Romano e ha una foto su Facebook sotto al manifesto elettorale di Maroni non mi interessa anche se è il mio batterista, quindi quando si riferisce ai francesi come a un popolo di scorreggioni non mi curo nemmeno di rispondergli perché poi passo per quello più grande che vuole fare la paternale. Guido gli dà man forte sul fronte della situazione italiana e mi ricorda che il suo facoltoso collega avvocato è tra i redattori di una delle ultime leggi finanziarie ma, tanto per ridimensionare la sua statura morale, gli procura erba in quantità dubbie. Le riunioni di gruppo – nel senso di gruppo rock – a una certa età dovrebbero essere dichiarate fuorilegge e sciolte come certe adunanze sediziose dalla polizia. Si parla di musica solo nei primi cinque minuti e poi il resto del tempo che a sedici anni si dedicava a conversare di figa, da adulti si utilizza per ristabilire, in altri settori della conoscenza che non c’entrano con la musica, gli squilibri che si manifestano con gli strumenti in mano. Io potrei per esempio vendicarmi con Marco perché si vede che si è tagliato il pizzo perché la tipa che frequenta ora non sopporta le abrasioni sulla faccia quando limonano, e quella è una delle numerose forzature che si fanno per amore come diventare buddista o vegetariano per non creare impedimenti alla disponibilità altrui nel concedersi sessualmente. Ma tutti ormai sanno che la natura in un essere umano resta latente e, prima o poi, ritorna a galla risentita e pronta a prendere il sopravvento, tanto quanto è impossibile imporre a un batterista metallaro di non usare il doppio pedale perché quei colpi veloci e ravvicinati di cassa sono fuori luogo e obsoleti tanto quanto il basso suonato con lo slap. Alla fine è meglio, certe riunioni, non organizzarle nemmeno. Si litiga a tavolino soprattutto se si è a tavolino e ci si lascia tutti rancorosi e consapevoli che non è vero che la musica è un veicolo di pace.

al via, su Facebook, il musica di merda challenge

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In nessun altro settore come nella musica, il supporto attraverso il quale il prodotto viene commercializzato da sempre influisce sulla sua creazione. Artisti e gruppi si impegnano per aver materiale a sufficienza da riempire un cd, come un tempo avveniva per un 33 giri o una musicassetta, e venderlo il più possibile. Il supporto costituisce quindi un prodotto in sé, un punto di arrivo che giustifica il lavoro preparatorio svolto, e se ci pensate bene è così radicato nella nostra cultura da rendere meno autorevole tutto il resto. Magari un giorno il singolo brano acquistato su iTunes a 0,99 avrà la stessa dignità di un blocco da una dozzina di canzoni pensate per essere commercializzate in blocco sotto un titolo, una copertina e un recipiente virtuale o fisico che le raccolga, anzi forse è già così ma dovete dirmelo voi nativi digitali, ammesso che acquistiate musica e che il cosiddetto album per voi abbia ancora un senso. La randomizzazione dell’ascolto digitale e la casualità dell’approccio alla musica fa un parte di quel famoso discorso sulla svalutazione della stessa in generale, che prima o poi dovremmo deciderci a fare, almeno tra di noi.

Tutta questa premessa per proporvi qualcosa di più di una riflessione invece sul valore in particolare dell’album in sé, oggi che noi ancora lo leghiamo a recipiente in cui un artista o un gruppo confeziona un insieme di brani uniti da un’identità comune: un concept album, canzoni composte in un certo periodo della propria vita, al limite anche una raccolta del meglio del proprio meglio. Questo presuppone che, al di là dei generi e quindi dei gusti personali dell’ascoltatore e della macro-catalogazione che ciascuno di noi fa tra musica che ci piace e musica di merda, alla base della commercializzazione di un album ci sia appunto un valore artistico inteso come somma delle parti espresse da ciascun brano che compone l’album, altrimenti quello che prima ho chiamato recipiente diventa veramente uno scatolone da chiudere solo quando è colmo di cose, indipendentemente da quello che gli buttiamo dentro. Non so se mi sono spiegato ma spero tanto di si: non è che uno debba per forza fare ogni volta “Burattino senza fili” di Bennato, per farmi capire, in cui ogni canzone del disco è un capitolo di un’unica storia, ma ci si aspetta – o almeno io mi aspetto – un minimo di coerenza che ci faccia comprendere il filo del discorso, un inizio e una fine.

La mia impressione è che certi interpreti ma anche autori della cosiddetta canzonetta italiana, quel pop di lega infima che spopola a Sanremo, per intenderci, abbiano poca dimestichezza con questo modo di fare le cose. Forse il pubblico da loro non chiede un certo livello di raffinatezza perché è il pubblico, in primis, a essere di merda, per dirla alla Freak Antoni. Quello quindi che dovremmo fare tutti è provare ad ascoltare da cima a fondo un intero album di canzonette pop italiane da Sanremo per farci un’idea di come, usciti dai recinti della musica rock o indie ma anche pop come la intendiamo noi, vanno le cose.

Ho intenzione così di dare il via a una specie di challenge di quelli che spopolano su Facebook. Una catena digitale di Sant’Antonio in cui uno ascolta per intero un cd di pop canzonettaro italiano, scrive quanto gli faccia schifo, e poi nomina tizio o caio invitandolo a fare lo stesso e a perpetuare la catena. E dal momento che tutto sommato mi voglio bene, mi sono riservato un disco di una cantante che probabilmente è anche la meno peggio di tutto questo sommerso di musica di merda, che è Francesca Michielin, perché tutto sommato è una ragazza che mi è anche simpatica e sono convinto che ascolti musica molto più bella di quella che è costretta a commercializzare dall’industria musicale. Il suo nuovo album “di20are” è stato persino recensito su Ondarock, per dire. Cosa si può dire, di questo disco? Contiene un paio di canzoni di quelle che mentre sei all’Esselunga possono colpirti per certe soluzioni armoniche costruite a tavolino per distrarti qualche secondo dalla spesa, ma niente di più. Attraverso il “musica di merda challenge” possiamo davvero renderci conto di quanto la materializzazione della musica, il supporto per intenderci, sia davvero superfluo, che il concetto di “recipiente” sia superato, che sia molto meglio stemperare l’inutilità di certo pop come questo lungo singoli acquisti a 0,99 su iTunes, e che davvero c’è tanta tanta musica di merda in giro.

la vera storia del patto di Varsavia

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Tra le reliquie dell’ex Unione Sovietica che noi occidentali comunisti e post-tali abbiamo fatto a gara per accaparrarci prima e dopo l’89, oltre agli obiettivi e le lenti per macchine fotografiche leggendarie, telescopi, cianfrusaglie varie, prodotti di un dubbio artigianato locale, matrioske e orologi con il quadrante a ventiquattr’ore o recanti l’effigie dei padri della rivoluzione russa, il tutto acquistato a cifre già da mercatino dell’antiquariato alle bancarelle abusive nelle piazzole delle strade provinciali, spiccano certi sintetizzatori autoctoni con tanto di scritte in cirillico che nulla hanno da invidiare ai più blasonati Moog o ai vari strumenti analogici dell’industria musicale oltre-cortina. Almeno questa è l’idea che mi sono fatto io leggendo qua e là nei forum dedicati ai tastieristi e dopo aver seguito alcuni tutorial di pessima qualità video ma dai contenuti convincenti su Youtube. So solo che quello che Salvatore ha nel suo studio di registrazione casalingo se lo è procurato molto prima che Internet cominciasse a dettare l’agenda dei gusti della gente e diventasse un vero e proprio trendsetter.

Salvatore era in pianta stabile all’ARCI, e attraverso canali di contatto ovest-est nati prima che cadesse il muro, si era organizzato un mini-tour su misura per il suo quartetto fusion in Polonia. Una manciata di date in posti sconosciuti della capitale in forma di prestazione gratuita, se non qualche contatto per dormire la notte e scroccare i pasti in una terra di conquista nuova e pullulante di affamati di scambi culturali con l’Europa del Patto Atlantico. Il synth si chiama Polivoks e l’aveva pagato due lire da un tizio che con la roba sovietica, invece, non voleva più avere a che fare e chissà come rosica del fatto di aver praticamente regalato a un italiano una rarità che oggi, su e-bay, non la trovi a meno di mille euro.

Ma Salvatore era tornato da Varsavia con ben altri cimeli di quel passato comunista che stava andando in pezzi. Con Felicia o Felizia come credo si pronunci, che si era lasciata abbordare dopo il concerto d’esordio e che aveva poi seguito il gruppo per il resto di quella specie di vacanza polacca facendo a Salvatore e ai suoi compari anche un po’ da guida, non aveva pensato di rimanere in contatto ma comunque, in cambio della cortesia e di quanto consumato tra le lenzuola, si era sentito in dovere di lasciarle il suo recapito. Così, qualche mese dopo, Felicia o Felizia come credo si pronunci gli si era presentata in casa (Salvatore viveva ancora con mamma e papà) e per fortuna non era nulla di grave come si potrebbe pensare. Non c’era alcun danno a cui riparare o promesse da mantenere, se non la voglia di vedere l’Italia anche se in uno dei posti più sfigati della penisola.

In realtà poi Felicia, o Felizia come credo si pronunci, in quella settimana della riviera ligure non ha visto nulla. A nemmeno ventiquattr’ore dall’arrivo e dopo aver disfatto la valigia nella camera degli ospiti di Salvatore si era beccata un’influenza di quelle con febbre a quaranta che ha imposto un cambio di programma per entrambi. Niente stemperamento della sua presenza grazie alla compagnia, che poi magari sarebbe riuscito anche a smollare Felicia o Felizia come si pronuncia a qualcun altro. Niente visite guidate alla zona in modo da aver qualcosa da fare e di cui parlare (in inglese, of course). Niente di niente se non stare in casa con una malata, guardare la tv in italiano, ascoltare musica e dedicarsi alla conversazione forzata. Niente sesso. Questo il primo giorno. Il secondo. Il terzo. Poi Salvatore ha iniziato a lasciarla sola in casa con i suoi genitori, la febbre ci ha messo un po’ a scendere ma la barriera linguistica aveva accelerato la fine degli argomenti di conversazione già dopo qualche ora.

Di tutta questa storia resta solo la mia invidia per il Polivoks, anche se so che quando si guasta poi trovare ricambi o farlo aggiustare è quasi impossibile. I miei cimeli dell’URSS si riducono a un paio di spillette di Lenin e vario materiale di propaganda raccolto durante la visita a un mercantile sovietico ai tempi delle elementari, con i marinai che guardavano a noi bambini con quell’appetito che è diventato proverbiale e con lo stesso con cui Felicia o Felizia come si pronuncia aveva osservato quel poco di Italia prima di ammalarsi. Allo stesso modo sono convinto che l’odore dell’Unione Sovietica fosse lo stesso che ho sentito lungo gli stretti corridoi di quella nave, mentre in un linguaggio di una difficoltà che non ha confronti qualcuno che non ricordo bene mi stringeva la mano e mi appuntava una stella rossa sul bavero della giacca blu.

la vera rottamazione la fa il tempo, mica il primo quaquaraquà che passa

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Un tempo morivano statisti, padri della Patria, intellettuali e filosofi, persino scrittori, drammaturghi, attori del calibro di Mastroianni e poeti come Montale. Poi, esaurite non si sa bene il perché le scorte di personaggi di valore novecenteschi, siamo passati alle grandi star del rock e del pop e non lo dico perché ci sono cadaveri di serie A e di un girone cadetto ma semplicemente perché le cose di cui il genere umano ha iniziato a occuparsi si sono involute, cioè volevo dire evolute, va be’, diciamo cambiate per non fare torto a nessuno. Seguendo questo processo, un giorno ci toccherà addolorarci per youtubers o i grandi influencer di Twitter passati a miglior vita ma forse no perché, a pensarci bene, in quella categoria ci siamo anche noi quindi, se posso esprimere un desiderio, facciamo che le personalità dell’Internet saranno le prime a beneficiare delle grandi scoperte della scienza del nuovo millennio a partire dalla pillola per l’eterna giovinezza, anche se in senso metaforico possiamo dire che si tratta di un placebo che in parte abbiamo già assunto in abbondanza.

Così la vita ci sta insegnando a fare a meno di numerosi eroi della nostra adolescenza e questo duemilasedici – forse per la sua peculiarità di essere bisesto – ci sta dando dentro. Ci ha lasciato, a quando pare sua sponte, il caro vecchio Keith Emerson che per quelli come me sempre in bilico tra rigore e trasgressione rappresentava l’incarnazione della sintesi perfetta tra tecnica dello strumento e studi classici – Emerson era in effetti un “manico” a suonare, come si diceva dalla mie parti quando ero ragazzo – e gli eccessi del rock. La prima cosa che mi è venuta in mente alla sua morte è stato il suo approccio all’esecuzione piuttosto eccentrico. Ricordate tutti vero le pugnalate che infieriva ai poveri Organi Hammond sul palcoscenico?

Il buon Keith, prima di conquistare il pubblico più mainstream con le sigle di Odeon e le colonne sonore per Dario Argento, era una delle punte di diamante del rock progressivo, anche se ai tempi non ricordo si chiamasse così, era più in auge l’appellativo di rock sinfonico, un genere che comunque era un buon compromesso tra i matusa della classica e giovani d’oggi (ma di allora) capelloni e contestatori. Questo per dire che dai genitori dei giovani votati al pianoforte classico tutto sommato Keith era visto come la tentazione meno grave in grado di distogliere i loro talenti accademici dalla musica seria.

Resta il fatto che la storia più recente ci sta insegnando che la vera rottamazione la fa il tempo, non certo gente dai pessimi gusti musicali come Renzi, quindi mettiamoci sulla riva del fiume e aspettiamo di veder passare i cadaveri di certi bellimbusti che sappiamo noi sperando che qualcuno lassù la finisca con questa strage di musicisti. Se hanno tradito qualcosa è stata al massimo una linea a cui – vuoi per vecchiaia, vuoi per mettersi da parte qualche euro in più – da un certo punto in poi hanno smesso di essere fedeli.

vietate per legge finalmente le cover disco di brani composti con ben altri intenti

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Il rischio di plagio incombe continuamente su noi musicisti e più si va avanti e più aumenta. Le combinazioni melodia – armonia – ritmo si esauriranno prima o poi, considerando anche il fattore del tempo che passa e della mole di composizioni prodotte, un processo insomma accelerato anch’esso dalla tecnologia. Se c’è un matematico in sala prego favorisca il valore alla ennemilesima di quanto margine ci resta per scrivere pezzi originali senza avere la SIAE alle calcagna. Ma da musicista o ex-tale posso capire la facilità con cui la creatività attinge al già sentito che ti rimane nelle corde o anche quanto sia comune mettere in fila note e accordi su standard culturali ben radicati. Chi dice che la musica è matematica non ha tutti i torti, se vivi in Europa certe soluzioni armoniche sono inevitabili perché i calcoli inconsapevoli che facciamo sommando le vibrazioni di una manciata di note ci portano inevitabilmente a risolvere in sequenze complementari per arrivare a una somma appagante dal punto di vista dell’ascolto. Lo so, non ci ho capito molto nemmeno io. Resta il fatto che le vie dello scopiazzamento sono infinite e vanno dal copia e incolla alla citazione e all’ispirazione presa di sana pianta dall’artista di riferimento. Per farvi un esempio, avevo un amico compositore che scriveva pezzi che avevano i titoli di canzoni già famose. Gli stessi. Brani di U2, Lou Reed, Bowie per di più inglese. Quindi leggevi la scaletta prima dei concerti e pensavi di trovarti al cospetto di una cover band. Poi invece i vari “Perfect day” o “Stay” erano canzoni che non c’entravano per niente con quelle più celebri. A me piacerebbe invece che fossero messe all’indice le versioni dance di pezzi che dance non lo sono. Il problema è che la musica si divide in due macro-categorie: ballabile e non ballabile. Ci sono poi i puntacazzisti che vanno sostenendo che qualunque musica è a suo modo ballabile e hanno anche ragione ma vi sfido allora a muovervi al ritmo di “Generale” della PFM, cosa che facevamo da ragazzini per scherzo e per prendere in giro i nerd che ascoltavano progressive dall’alto delle nostre casse in quattro molto pop ma che comunque ci consentivano un canale di comunicazione preferenziale con le ragazze sul dancefloor del nostro club preferito la domenica pomeriggio al ritmo delle ultime novità del post punk mondiale. Ma per far ballare anche il pubblico più esigente l’industria musicale a un certo punto – quando era ancora un’industria – ha immesso sul mercato le versioni tun za tun za di canzoni nate con altri intenti. Si tratta si una considerazione latente di cui uno prende consapevolezza quando alla radio passano cose come la trasposizione dance di “The sound of silence” o altre versioni assurde di pezzi come la cover di “Fast Car” di Tracy Chapman che gira adesso su MTV che è così brutta, ma talmente brutta, ma talmente brutta che mi sono sentito in dovere di andare subito ad ascoltare la versione originale per ripristinare l’equilibrio dell’universo.