red old chili peppers

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Se non fosse per alcune ripercussioni sul corpo, sulla mente e sul morale, diventare anziani ha un suo perché soprattutto per le persone normali. I musicisti invece invecchiano male e lo abbiamo detto più volte, per cui ci tengo a sottolineare ancora che la migliore exit strategy è smettere di suonare prima, in modo da presentarsi all’appuntamento con la terza età belli, puliti e disintossicati ed evitare di mettersi in ridicolo con il prossimo. Ma di fronte a certi casi patetici – pensate a uno come Giuliano Lindo Ferrara – ci sono anche artisti la cui giovinezza è stata talmente strampalata che seguirne la canizie o quel che ne rimane è interessante e altamente educativo. Osservavo per esempio Flea (i cui capelli al momento sembrano invece essere viola) dimenarsi come un bassista dei Red Hot Chili Peppers del 92 qualsiasi nel video di “Dark Necessities”, ma tutti e quattro, a parte Frusciante che esce e entra dal gruppo in modo compulsivo, fanno molta tenerezza nel loro essere fuori come dei balconi ancora nel 2016. Flea è del 62, probabilmente si è fatto di tutto ma esprime se stesso con il resto della band contestualizzato all’anno in corso e alla data di nascita che inevitabilmente campeggia veritiera anche sulla sua carta d’identità. Era un trentenne particolare quando suonava “Suck my kiss”, resta un cinquantaquattrenne particolare mentre esegue i pezzi del nuovo album “The Getaway” che comunque non è per niente male. Anzi.

E oggi, che è il compleanno di Ian Curtis, ci chiediamo: 1. come sarebbe stato il front man dei Joy Division a sessant’anni; 2. se la band di Manchester sarebbe sopravvissuta a tutte le complessità dei giorni d’oggi come i New Order, che hanno pubblicato proprio nemmeno un anno fa uno dei loro album più belli, fermo restando che se Ian non si fosse impiccato probabilmente dei New Order non ci sarebbe stata così tanta necessità. L’ultima riflessione riguarda Garbo, quello di “A Berlino va bene”, a cui va il primato indiscusso di figura più innovativa della canzone italiana, considerando che i suoi innesti new wave nel mortorio poppettoso dei primi anni 80 hanno riportato parzialmente l’attenzione di noi esterofili entro i confini nazionali. Garbo è del 58 ed è attivissimo, io lo seguo sui social. Il suo problema è che non si scrolla di dosso i nostalgici che lo vorrebbero solo ed esclusivamente con l’impermeabile a cantare come Bowie o come gli Ultravox. Questo è un po’ il limite di noi ascoltatori provinciali che certi artisti di respiro internazionale non ce li meritiamo. Ah ecco, dimenticavo: a differenza di tutti, il merito di Bowie è stato quello di non invecchiare, non ci è riuscito ma non perché ha programmato perfettamente la sua morte. Peccato, perché l’avrei voluto volentieri al mio fianco – in senso traslato – nella mia, di terza età. Mi accontenterò della sua musica, almeno fino a quando non sarò completamente sordo.

novantuno, l'assolo di sax soprano

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Peggio di un pezzo fusion c’è solo un assolo di sax soprano su un pezzo fusion, con quegli acuti irritanti che già hai la testa divisa in porzioni quanti sono gli strumenti che suonano perché, si sa, nella fusion è di rigore andare ognuno per i fatti propri, per non parlare dei batteristi che a furia di scomposizioni ci vorrebbe un canale intellettivo per ogni elemento del set di cui si compone la loro batteria e se considerate che i batteristi fusion non lesinano in quanto a tamburi e piatti uno, dopo un pezzo, ci esce pazzo, e se poi ci metti uno dei timbri più estremi dell’arco acustico del mondo mondiale (il sax soprano, appunto) la musica diventa una vera sofferenza.

Ma se resistete all’esperienza di ascolto vi troverete sicuramente migliori alla fine del brano anche se abbandonati dalle vostre mogli o più single di prima, perché se già le donne odiano il progressive è facile definire il sentimento che provano verso la fusion. In questo mi sento femminista anch’io perché certa fusion è un mero esercizio di stile o masturbazione strumentale e già vi vedo pronti con le vostre eccezioni e così vi fermo subito dicendo che fatta eccezione per i Weather Report e gli Steps Ahead mi dispiace ma non mi convincerete mai.

Il fatto poi che la fusion sia un genere prettamente da uomini (le donne in questo sanno molto meglio di noi prendere decisioni in grado di migliorare la loro qualità della vita) lo si evince anche dalle espressioni che i nostri visi mascolini assumono seguendo emotivamente le traiettorie impazzite che gli strumenti solisti fanno, a partire proprio dal sax soprano, durante le esecuzioni.

Una delle cose più divertenti osservando il pubblico della fusion e del jazz, che ricordiamo è composto per i tre quarti da gente che suona fusion e jazz e per un quarto da veri e propri casi umani e un altro quarto dalle compagne di vita di tutti questi e lo so che in tutto fa cinque quarti ma se siete addentro alla fusion saprete che i tempi dispari vanno per la maggiore, dicevo che una delle cose più divertenti osservando il pubblico della fusion e del jazz sono le smorfie che la gente fa ascoltando le improvvisazioni e gli assoli dei musicisti.

Avete presente quello spot che si vede alla tv in cui si mettono alla berlina le nostre facce allo specchio quando ci facciamo la barba? Ecco. Se frequentate i concerti fusion ci si diverte molto di più a dare le spalle al palco e osservare le smorfie che fanno gli ascoltatori, il modo in cui serrano le labbra, corrugano la fronte, spalancano gli occhi alle aperture improvvise, inclinano la testa nei passaggi più intricati, la chiudono tra le spalle nei momenti di disorientamento armonico, alzano il mento nei casi di incomprensione melodica, si rasserenano a valle delle risoluzioni più rassicuranti, ondeggiano il capo quando ritrovano il ritmo, arricciano il naso quando l’uno, il battito che è l’inizio e la fine, l’alfa e l’omega, viene volontariamente occultato per aumentare il senso di fuggi fuggi generale tra i musicisti.

E questa volta, visto che siamo in tema di codici comunicazionali strampalati e linguaggi che generano incomprensione, vediamo se avete capito il titolo che ho dato a questo post, che è un titolo veramente fusion.

sei come un juke-box?

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Era tanto che non si sentiva un motivetto famoso con il testo cambiato e adattato ad hoc per una pubblicità. Almeno dai tempi di “Road to nowhere” dei Talking Heads rifatta per lo yogurt Yomi della Yomo, spot che a sua volta riprendeva lo stile del video di Take on me degli A-ha, vi ricordate?

Un altro remake clamoroso è stato “One step beyond” dei Madness in italiano utilizzata per una reclame di patatine ma non ho trovato nulla in rete. Se non ricordo male si trattava delle Cipster Saiwa, nel testo della canzone addirittura definite “patatose” ma, probabilmente, ai tempi l’Accademia della Crusca non si era mobilitata a sufficienza. Fino a ieri, quando invece in sottofondo alla pubblicità televisiva di un unguento da trauma dal nome di Fastum Gel ho sentito “Sei come un juke-box” di Bennato che era un pezzo che mi piaceva un casino come tutto l’album. Il mantra “muoviti muoviti” ripetuto per tutto il tempo della canzone si presta, in effetti, a una pomata. So che morite dalla voglia di sentirlo quindi vi suggerisco di stare incollati alla tv per ore senza muovervi, a differenza di quello a cui vi esorta il cantautore napoletano mettendovi così a rischio di strappi e contusioni per comprare e usare, di conseguenza, il gel pubblicizzato. In alternativa, se vi sentite in forma potete pogare al ritmo della title track di quel disco – già in piena atmosfera grillista ante-litteram – che è passato in sordina solo perché uscito a ridosso del ben più famoso “Sono solo canzonette”. Il bello di “Uffà Uffà”, la canzone, è che è suonata dai Gaznevada.

come da copioni

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Il problema non è aver composto un pezzo che è un palese plagio, ma è piuttosto aver composto un pezzo che è un palese plagio di una canzonetta di Claudia Mori. Che smacco. Meglio mollare subito il colpo, non oso pensare a quello che potrebbe succedere se una band di sprovveduti di provincia decidesse di mettersi contro una rodata industria dell’entertainment come il clan di Celentano e il suo sabba di avvocati. E poi come la spieghiamo, soprattutto, ai nostri amici una debacle ispirazionale di così basso livello? Ci riempiamo la bocca con i nomi più raffinati del roster della 4AD e poi si scopre che i nostri punti di riferimento artistici principali vengono da manifestazioni del calibro del Cantagiro? Non è la prima volta che succede nell’ambiente, comunque. E se la percentuale dei casi smascherati in un posto di poche decine di migliaia di abitanti è così elevata, non oso pensare cosa possa succedere nelle grandi città. O forse è un fenomeno tipico dei piccoli posti come il nostro: c’è talmente poco da assimilare dall’esterno per tradurlo in musica – o in arte in genere – che alla fine appena arriva qualche input da lontano ti si appiccica addosso come la puzza al ristorante cinese. Il gruppo di Fabio, per esempio, quando ha pubblicato il CD alla fine ha dovuto includere tra gli autori del loro singolo anche Alberto Fortis perché la melodia del ritornello ricalcava perfettamente le note del refrain di “Svegliati amore con me”. A Marco invece era successo il contrario: aveva dato a suo zio che faceva il manager di Francesco Salvi un po’ di materiale inedito da piazzare nello show business e si era trovato alcuni vaghi richiami di un suo brano addirittura a Sanremo e cantato con versi incomprensibili da Mietta e Amedeo Mimghi e come si dice le note sono sette o al massimo dodici se ci metti anche i tasti neri. Ma la situazione tipo può essere esemplificata perfettamente dal caso di Carlo. Si precipita la mattina in sala prove con la hit sognata la notte precedente che ci farà diventare tutti ricchi. Il guaio è che Carlo si addormenta sempre con la radio accesa e, durante le trasmissioni notturne, chissà un pezzo come Careless Whispers di George Michael quante volte deve passare per rimanerti così impresso da credere che sia una melodia che ti viene da dentro.

il caso rovazzi

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Che la musica non sia più la musica come la intendiamo noi è un dato di fatto e ormai consolidato almeno dai tempi di Napster. Non è la prima volta che succede. Non dico che non sia un danno, ma le cose cambiano perché ci sono miliardi di persone che lo vogliono o sono indotte in qualche modo a volerlo o le cambiano e non se ne accorgono ma funziona così e quando le generazioni che hanno visto la musica come la intendiamo noi saranno cenere nessuno vi farà più caso e, finalmente, l’annosa diatriba sulla qualità, sulla dematerializzazione e sulla svalutazione dell’arte farà compagnia a noi nell’urna come una eco di felici momenti passati sul web a difendere il primato dei Led Zeppelin (il primo nome che mi è venuto in mente, giusto perché ho appena rivisto per la milionesima volta Jimmy Page con gli occhi lucidi alla loro celebrazione al cospetto di Obama di qualche anno fa) e degli ascoltatori dei Led Zeppelin su Rovazzi e gli ascoltatori di Rovazzi.

Punto primo: la musica non è più la musica come la intendiamo noi già dai tempi dei video. I video musicali hanno aggiunto uno strato visivo alla musica che ne ha depauperato il valore immaginifico. E anzi, vi dirò: probabilmente i grandi happening live avevano già strizzato un po’ via dalla musica le emozioni che il solo ascolto ci dava. Con i live di massa abbiamo iniziato a dare un volto alle voci e ai suoni, con il video oltre al volto anche un’interpretazione visiva del contenuto di una canzone. Mi seguite?

Pensate poi anche a cosa è successo dopo: si sono messi a fare musica quelli che non sapevano suonare e cantare e hanno venduto milioni di copie, e via un altro strato. La musica specifica per ballare? Via ancora un pezzo. Poi quelli che mettono i dischi per far ballare si sono persino arrogati il diritto di dire che suonano, e giù un’altra mazzata (attenzione: i miei non sono giudizi etici). Poi come un gigante schiacciatutto si è presentato il digitale con diverse conseguenze: la totale disponibilità della musica sempre e ovunque (che per me è una manna dal cielo), nuovi modi di suonare, comporre, arrangiare, eseguire, interpretare, mescolare. Sedicenti musicisti che prima dell’avvento dei campionatori avrebbero perseguito altri passatempi ingegneristici e che invece sono diventati musicisti digitali e, anche loro, artefici del cambiamento.

Punto secondo: Rovazzi, dicevamo. Cerchiamo di dare il giusto peso alle cose. Le impressioni dell’utente che il web registra con i suoi sistemi di raccolta e analisi dei dati sono intanto approssimate (direi anche approssimative) e poi lo sapete come funziona su Internet, che è un sistema talmente liquido (per dirla come coso là Bauman) e talmente effimero (il ciclo di vita di un qualsiasi fenomeno digitale a partire dalla mio status su Facebook sino al meme del momento è inferiore a quello di un qualsiasi insetto comune) che è fondamentale attaccarsi a tutto per dimostrare il proprio valore e, conseguentemente, farsi pagare il giusto da chi pensa che quell’Internet dell’effimero sia un buon investimento. Vi faccio un paio di esempi veloci: se siete iscritti a quella palla che è LinkedIn, avrete sicuramente ricevuto quegli spassosissimi avvisi del tipo hei amico il tuo profilo sta avendo successo! È stato visitato da 1 persona. La nostra soglia critica è talmente messa male che non ci fa nemmeno più ridere la cosa, ma se qualcuno venti anni fa vi avesse preso per il culo in questo modo non gli avreste dato una testata sul naso? L’altro esempio è il valore di influenza attribuito a gente con decine di migliaia di follower su Twitter o milioni di visualizzazioni su Youtube. Ora, stiamo tutti al gioco dei Social Network per scucire soldi a chi ne ha ancora e va bene. Ma le decine di migliaia di follower su Twitter o i milioni di visualizzazioni su Youtube di uno che indipendentemente da Twitter aveva già un certo peso sull’opinione pubblica rispetto alle migliaia di follower su Twitter o i milioni di visualizzazioni su Youtube di uno che le ha chieste di porta in porta come un piazzista di altri tempi, c’è una bella differenza, non credete?

Punto terzo: oggi la musica io la vedo dello spessore di un foglio di carta velina, anche quella dei gruppi nuovi che mi piacciono di brutto, ma perché della musica in sé senza una pubblicità, senza un tormentone sociale, senza un coro da stadio, senza un radio edit trasmesso tra una gag e l’altra su una radio commerciale a tutto volume in un’auto da guidare in tangenziale, senza un auricolare nello smartphone con cui dividere con un amico il canale destro dal sinistro e chi se ne importa della stereofonia, senza l’evento che riempie di centinaia di migliaia di persone gli stadi a costi che un tempo gli autoriduttori altro che molotov, senza le parole da scrivere sull’asfalto per fare la corte a qualcuno, senza il cantante ormai vecchio che muore, insomma l’esperienza di ascolto, come si dice oggi che tutto – anche fare la cacca al cesso – è un’esperienza di qualcosa, non esiste più.

E in questa complessità che noi non possiamo nemmeno immaginare perché siamo ancora lì con i dischi in vinile e con David Bowie, c’è chi ci sfrangia i coglioni con il senso e il perché e il percome di uno come Rovazzi, quello di “Andiamo a comandare”, quello delle 30.151.781 visualizzazioni su Youtube (dati aggiornati al 9 luglio) che in confronto “Vamos a la playa” è un esercizio compositivo da cameretta, quello che non è musica perché ha fatto solo un pezzo e lo distribuisce solo in streaming, quello che tutti si chiedono ma come è possibile, la musica è morta, quella non è musica, aiuto, aiuto. Certo, quella non è la musica come la intendiamo noi. È semmai il gelato appena uscito, lo slogan che si diffonde come una reazione nucleare tra i giovani, è il nuovo modello di iPhone, il gel per divertirsi a letto, la notizia sulla colonna delle stronzate dei quotidiani online che va avanti per mesi, il trend del momento, la serie americana che bisogna guardare, il caldo che per non collassare bisogna bere molta acqua e non uscire nelle prime ore del pomeriggio, il viaggio a Miami e la pettinatura a cresta. Sono tutti prodotti ma nemmeno del mercato. Sono cose che nascono senza che nemmeno ci facciamo caso e che funzionano così da sempre. Non è musica, ma chi se ne importa, è Rovazzi. È un’evoluzione e che poi sia una merda perché non è un long playing rock con la copertina dei Led Zeppelin chi siamo noi per dirlo?

Conclusione: – Hei che figata cosa è quella cosa lì che scotta? – Boh, me la sono trovata davanti alla grotta stamattina dopo il temporale, ho visto che gli animali feroci scappano, tiene caldo e se ci metto la carne sopra diventa più buona, provala anche tu.

che cosa ci insegnano le metafore degli anni 90

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Ieri pomeriggio mi sentivo così:

certo, un po’ meno figo, ma l’approccio alla vita da seguire ogni tanto è che qualcuno a spallate fa piacere anche prenderlo. Un metodo un po’ fascista perché il buon Richard Ashcroft in quel video non risparmia nessuno. Vecchiette, ragazze, afroamericani, e sapete come vanno le cose di questi tempi. Un tempo ci sarebbe bastata quella giacca di pelle e quella densità di capigliatura, e con così tanta sfrontatezza di certo ce ne saremmo fottuti dei passanti e ci saremmo dedicati a ben altri tipi di scontri tra corpi umani. E se ci riflettete “Bitter Sweet Symphony” è un brano che è ricco di ben altri rimandi e allegorie. Intanto, se vi ricordate, i The Verve hanno avuto una vita lunghissima ma molto travagliata per varie storie come si può leggere qui, ma con pochi riscontri senza contare che poi, raggiunto il successo mondiale con Urban Hymns che li ha resi celebri in lungo e in largo, sono più o meno spariti dalle classifiche. Quindi il buon Richard c’ha poco da fare il gasato per Hoxton Street.

Poi c’è la faccenda dei diritti d’autore. La sviolinata in loop che si sente per tutto il pezzo – che ricordiamo è un unico perpetuo ritornello – è un campionamento della canzone dei Rolling Stones The Last Time nella versione della The Andrew Oldham Orchestra (trovate tutta la storia qui). La morale è che fai un pezzo della madonna e poi per un capriccio estetico decidi di metterci un sample di un brano dei Rolling Stones e finisce che tutti i diritti vanno a loro e anche se balzi in cima alle classifiche e conquisti la fama imperitura e mondiale di soldi ne becchi una misera parte rispetto a quelli che meriteresti. La metafora è che quindi nella vita è meglio fare meno i cazzoni e portare a termine le cose come si deve. Finisce che fuori dal video il primo che spintoni e che si è svegliato male ti prende a sganassoni su quella faccia da inglese che ti ritrovi.

Così, alla fine, se le expectations sono quelle di vivere in un brano dei The Verve, la reality – sempre anni 90 – è apparire al prossimo come un balletto su un pezzo di Fatboy Slim.

se la chitarra è una spada il mio mitra è un contrabbasso che ti spara sulla faccia

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La colpa non è delle canzonette, loro poverine non ne possono nulla. La colpa è tutta nostra che siamo messi così male a valori e a cose che accendono la nostra passione che vediamo poesia dappertutto e, con il senno di poi, aveva ragione chi andava sostenendo che era meglio se ci fermavamo un po’ prima a guardare i nostri generi musicali preferiti qualche passo indietro e ricavarne un’impressione più oggettiva e corrispondente alla realtà. Da questo punto di vista per me non ci sono cantanti di serie A o di serie B perché le parole del pop o del rock messe nero su bianco sulla carta un po’ si sviliscono ma anche se scritte sul diario con i pennarelli colorati non sono da meno, anzi da più, indipendentemente dall’autorevolezza di chi ha inventato quei testi. Dalla mia generazione in poi abbiamo assistito alla comparsa delle liriche di certi cantautori italiani sulle antologie di letteratura, per farvi un esempio. I poeti moderni sono stati anche loro, così dicono. Uno sguardo cinico però consente di contemplare quei versi come ci si sofferma sulle meduse spiaggiate, che fuori dall’acqua sembrano poco meno che involucri di nylon accatastati a secco dalle correnti e dalle maree. Le parole scevre dalla musica che le contiene sono un po’ così, è difficile leggere tra le righe per trovare qualche rimando melodico, armonico o ritmico. Non avete la stessa impressione? La prova del nove di questo l’ho avuta ieri sera seguendo distrattamente un documentario sui Doors, e spero di non urtare la vostra sensibilità ribadendo che si tratta di una delle band più sopravvalutate della storia. Il tastierista Ray Manzarek raccontava le sue impressioni sul celebre brano “The End” e sulla parte di improvvisazione musicale con cui, nelle esibizioni live, il gruppo accompagnava Jim Morrison mentre recitava poesie sul palco. Ora non ricordo bene i passaggi riportati nel documentario, ma l’impressione che ho avuto è stata di un qualcosa di funzionante unicamente con il supporto di additivi chimici e allucinogeni, quindi un ulteriore terzo componente oltre a testo e musica e complementare all’insieme per consentire un’esperienza di ascolto completa. Al contrario, le poesiole non passano attraverso le porte della percezione ma danno l’impressione davvero di un esercizio emotivo da adolescente in cerca di visibilità amorosa. Lasciamo così i testi sul palco e nei dischi e impariamo a goderne per quello che sono, uno strato stilistico a cui la nostra smania dissezionatrice non fa certo bene e anzi, spesso reca vilipendio.

ecco l'estate

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La storia ci insegna a essere molto rigorosi con gli anni 80 musicali, per questo non dovreste dare retta a quelli che fanno pasticci mettendo nelle stesse compilation i Cure con i Thompson Twins o, forse ancora peggio, la roba dell’81 con la musica dell’89. Dovendo seguire fedelmente il filone new wave e post-punk abbiamo schifato ben più di un lustro di cose collaterali, ai tempi, e non sono pochi quelli che più o meno all’altezza di “Music for the masses” – era l’87 – sono rimassi perplessi da come si mettevano le cose. Tutta la roba che avevamo ascoltato vestiti di nero oramai non esisteva più o si stava raschiando il fondo del barile. C’era chi tramava per mettere fuori moda i sintetizzatori e le creeper, per di più l’estetica azzimata degli animi più gotici stava diventando la caricatura di se stessa. Per farla breve c’è stato un fuggi fuggi generale dal punto di vista degli ascolti grazie anche a link artistici che dalle cose chiuse di cui eravamo devoti sostenitori, prendete per esempio un David Sylvian, ci portavano a generi che mai ci saremmo sognati di ascoltare ai tempi di Bela Lugosi’s Dead, per esempio certe incursioni nella fusion e nel jazz o persino nella musica etnica. In molti ci siamo tagliati i capelli superando l’obsolescenza delle chiome cotonate di Robert Smith e abbiamo iniziato ad aggiungere colori inusitati al nostro guardaroba. Io ricordo di aver avuto una sorta di rigetto che è stato fondamentale perché mi ha consentito di sperimentare tutte le cose nuove che tutti i colpiti dallo stesso rigetto stavano producendo. Nel 1988, per dire, è uscito un album che se non mi ha salvato la vita siamo lì. Non avrei mai detto che una nuova speranza potesse venire dalla Francia e avesse il timbro scanzonato della fisarmonica e del melting pot. Spero che Mlah dei Les Négresses Vertes abbia un posto di rilievo anche nella vostra discografia di tutti i tempi.

la grande fuffa del rock'n'roll

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Ieri pomeriggio non so se siete passati alla Galleria Sozzani e avete visto quel tizio con i capelli sale e pepe mentre spiegava a sua figlia dodicenne la differenza sostanziale tra il punk modaiolo, mediatico e commerciale (nel senso che ha fatto fare un sacco di soldi a un bel po’ di gente) dei Sex Pistols rispetto a quello impegnato e struggente dei Clash rispetto ancora a quello più complesso e già post-se stesso dei Damned di Dave Vanian. Una sorta di conferenza uno a uno che poi ha riguardato la spinosa e controversa questione del punk italiano. C’è stato? Non c’è stato? Se si, stiamo parlando del punk dei figli dei ricchi milanesi come le Kandeggina Gang o quello turbolento e di strada che però qui identifichiamo con l’hardcore? Dobbiamo festeggiarne anche in Italia i quarant’anni?

Comunque quel ciarlatano borioso che vaneggiava di cose sentite dire e indicava Siouxsie di qua e Billy Idol di là ero io e se volete visitare la mostra Punk in Britain prima che il Brexit sia retroattivo e si prendano tutto anche i nostri ricordi avete tempo sino al 28 agosto. E ancora il fatto che una mostra fotografica sul punk sia ospitata in uno dei posti meno punk del mondo come 10 Corso Como la dice lunga, non a caso ampio spazio è dedicato alla coppia Malcom Mc Laren/Vivienne Westwood, che stanno al punk di This is England (il film ma anche il pezzo dei Clash) come Bertinotti al comunismo. I salotti culturali è bene comunque frequentarli così ci si rende conto che cosa possiamo permetterci e cosa no, resta il fatto che essere miliardari e intellettuali e fare shopping in posto così c’è da prendersi un bel po’ di soddisfazioni. Non so cosa sia rimasto a mia figlia della mia lectio magistralis, nell’insieme mi sembra esser stata un’esperienza fruttuosa per entrambi. So invece cosa è rimasto al guest book della mostra di me: se cercate con cura troverete una rudimentale riproduzione del logo della Alternative Tentacles che, a mio giudizio, rappresenta una delle eredità migliori di tutta l’esperienza punk, guarda caso a San Francisco dove il Brexit a Jello Biafra non gli può fare nulla.

vincere il rigore a calci

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In questi tempi di Europei e non solo, non avete idea di quanto sia difficile trovare qualcosa ancora in grado di stupirci. L’Internet ha ridotto ai minimi termini le soglie della sorpresa e della scoperta, ma in questa eterna calma piatta digitale sopravvivono ancora, per fortuna, margini di incursioni nell’umanità in carne, ossa, spirito e, soprattutto, arte. Sacche di resistenza all’omologazione imposta dalla socialmediocrità. Ho trovato, per esempio, della bontà in Beyoncé. Bello sforzo, mi direte, nel senso che in effetti per essere bona è bona. Ma non avrei mai detto che, a cinquant’anni, avrei apprezzato un suo disco. E invece vi assicuro che “Lemonade” è davvero un ottimo lavoro agli antipodi di quello che uno si potrebbe aspettare da un disco di Beyoncé. Questa rece di Ondarock gli rende giustizia. Se vi aspettate il solito poppettone polpettone avete preso una cantonata: certo, siamo sempre all’interno dei parametri della musica black, ma dimenticatevi le cosce e il sudore, le tette e i bicipiti degli afroamericani. Preparatevi a una raffinatezza rara, pensando al tipo di prodotto, e schiodatevi quel rigore indie-rock che vi preclude paesaggi sonori evoluti. Io, per dire, mi ci sono addentrato e mi sono perso ma vi giuro che non mi sono minimamente preoccupato. Anzi, ho approfittato della quiete per scartabellare con calma in alcune cose che facevo difficoltà a collocare. Era un po’ di giorni che pensavo a Loredana Bertè e alla sua tecnica di scavalcare il pubblico delle trasmissioni televisive in bianco e nero in abiti scollacciati che alimentava corposamente la mia fantasia da ragazzino. Appassionato di reggae, “E la luna bussò” rappresentava una costante proibita per due motivi: era cantata da una ragazza avvenente e sconfinava oltre i territori della musica imposti dal rigore dell’impegno stilistico ed estetico della nicchia imperante. Incuriosito anche dalla sua nuova riaffermazione televisiva grazie ai talent canori ho pensato così di rinfrescarmi la memoria con la sua discografia e, come per Beyoncé, ho dovuto ammettere che c’è del buono, oltre a essere stata una bonazza (e perdonatemi l’espressione ma se no il gioco di parole non funzionava). A me piaceva molto “In alto mare”. Benché il mio cuore in quegli anni appartenesse alla Alice di “Per Elisa”, dovevo in qualche modo appagare il mio lato tamarro.