per chi ama bere solo champagne come una modella qualsiasi

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The model, o Das Model per i crucchi, è uno dei brani più conosciuti dei Kraftwerk perché ha una struttura/canzone piuttosto tradizionale (e molto poco Kraftwerk), motivo per cui la sua notorietà travalica l’impervio territorio dei tradizionali amanti della musica elettronica propria del quartetto di Düsseldorf. Si tratta di una ballata che chiunque, con una chitarra o un altro banale strumento acustico, potrebbe riprodurre e sicuramente da qualche parte nell’Internet c’è un Nouvelle Vague o un Senor Coconut o qualche omologo progetto che ha rivoltato Das Model come un calzino oltraggiando l’austero messaggio d’amore con cui è stata composta, se volete divertirvi fate pure, io mi accontento della versione dei Demolition Group che è l’unica che merita qualcosa.

In realtà The Model l’ho suonata anch’io, in uno dei miei innumerevoli e più remoti “act” musicali a cui ho prestato il mio mediocre estro elettronico, ma soprattutto l’ho ballata durante il capodanno 78/79 nel corso di una festa nella villa di una mia cugina ricca che aveva il fidanzato coi Ray Ban scuri (anche la sera dell’ultimo dell’anno) e che aveva portato il disco. Poi qualcuno degli adulti si era impadronito dello stereo e aveva messo uno dei soliti disco-samba qualunque per introdurre un duo di uomini già ubriachi e travestiti da donna che si erano esibiti in un numero di dubbio gusto. Forse è anche per questo motivo che The model, o Das Model per i crucchi, è uno dei brani che preferisco in assoluto, non solo dei Kraftwerk ma anche in generale.

il 2016, l'anno del corto circuito

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Ho da tempo pronta una lista di morti illustri del 2016 ma, come vedete, certe cose è meglio aspettare a pubblicarle. Ci sono diverse letture che si possono dare di questa mattanza di celebrità lunga 12 mesi ma se ne è parlato in lungo e in largo e ogni parola rischia di essere superflua. Vorrei solo porre l’accento sui due casi che costituiscono in sé una sorta di corto circuito per i particolari che li contraddistinguono e che hanno dell’incredibile.

Intanto programmare il proprio compleanno con la propria eutanasia è un colpo da maestro se poi, all’uscita di scena, ci aggiungi l’uscita di un album, l’ultimo, che poi è anche un capolavoro come “Blackstar” con l’aggiunta di tutti i segreti che cela la copertina della sua versione in vinile che si svelano un po’ per volta come una sorta di eredità. Bowie è geniale anche da morto.

Il secondo caso è storia recentissima: diventi famoso in tutto il mondo e fino alla fine dei tempi per una canzone sul Natale, l’ultimo per giunta, e qualcosa ti strappa da questo mondo proprio la sera di Natale, dopo che da trent’anni a questa parte ogni Natale ovunque si sente quella canzone lì come se dovesse essere l’ultimo dei natali, per giunta in un anno in cui si sono sprecate le battute su questo o quel cantante deceduto e quale avrebbe potuto essere il prossimo. Roba da matti. Vi prego veramente di svegliarmi prima di uscire uscire (questa è sottile, spero la capiate almeno in due).

Se poi ci aggiungete che il 2016 è stato un anno bisesto e che David Bowie e George Michael sono stati la prima e l’ultima star della musica a raggiungere le classifiche eterne dell’aldilà, l’alfa e l’omega, beh, un corto circuito del corto circuito così sarà impossibile da replicare, nei secoli dei secoli.

quarantasette morto che canta

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Quando ho letto la notizia ho scritto a mia cognata, che è l’unica della famiglia che insieme a me apprezza queste cose, che non si poteva mancare. Poi è andata come andata: il 2016 che va chiudendosi è stato uno dei soliti anni densi di concerti non visti, e quello in cui Eugenio Finardi ha celebrato i quarant’anni della musica più ribelle del cantautorato nostrano secondo me dev’essere stato proprio bello. Anzi, se lo avete visto scrivetemi due righe qui sotto, che mi fate piacere. Ma non è questo il punto. Quando ho letto la notizia, e ancora prima di scrivere a mia cognata, ho pensato che ormai, tra i vivi, di reunion non ne manca nemmeno una. Forse quella dei due liocorni ma non è di queste canzoni che si nutre un animo punk come il nostro. Anzi no. Ho pensato che poteva essere un’idea quella di rimettere insieme i Decibel, ormai che Ruggeri è alla frutta un bel rigurgito paleo-giovanilistico non ci starebbe male nemmeno per lui. E mi spiace non poter provare questa mia facoltà di prevedere il futuro – gli aneddoti di questo blog, come avrete ormai capito, sono per la maggior parte baggianate e il resto farneticazioni – perché proprio qualche giorno fa la mia collega Caterina mi ha sottoposto questo link. Quindi mentre di Finardi si può dire che, con l’operazione Musica Ribelle 2.0 abbia riunito se stesso, di Ruggeri come possiamo commentare? I Decibel hanno fatto un singolo così potente da essere incommensurabile, che è la celeberrima “Contessa”, un album che io volevo a tutti costi acquistare ma che mia sorella, fan degli Inti Illimani che tanto i Decibel schifavano da indurli a mettere su una band punk, mi aveva vietato di chiederne l’acquisto a mio papà, un disco precedente a quello dal titolo esplicito “Punk”, che poi con il punk non c’entra una mazza, e altro vario fighettume da Milano-bene che in confronto Jo Squillo è Mick Jones. Quindi non ci resta che aspettare l’uscita di questo nuovo fantomatico disco dei Decibel, che tanto, lo sappiamo, oramai il punk lo fanno solo i vecchi come loro e lo ascoltano solo i vecchi come me. Ma, se devo essere sincero, questa operazione un po’ di paura me la fa.

la chiave del successo

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La musica ha l’odore della muffa, anche la musica di più recente produzione che giace impilata nella vostra dispensa – fisica o virtuale che sia – da poco, perché la muffa delle cantine in cui vive chi compone ed esegue musica si appiccica poi tra i solchi dei dischi venduti o nelle cartelle degli mp3 scaricati. Se ce l’abbiamo ancora nelle narici noi che con la musica non abbiamo combinato nulla è facile spiegare l’odore che si riversa dalle casse dello stereo quando l’ascoltiamo. Quindi rivalutiamo la puzza di chiuso mista a umidità e mista a sudore, perché è di questo che sa il rock. La musica ha poi il tono della comprensione, e vorrei che rifletteste su questa affermazione. La musica sa capire chi l’ascolta perché dice le parole che chi ascolta vuole sentirsi dire e, allo stesso tempo, sa arrivare a destinazione utilizzando tutti i sistemi invisibili che ti stuzzicano la pancia, il cuore, le ghiandole delle lacrime, la testa e il collo, le gambe e i muscoli della faccia. Un pezzo a caso trasmesso alla radio, a cui chiedi qualcosa, ti dimostra con la sua armonia come sia facile trovare quello che cercavi, un accordo che risolve in un altro ti consente di tirare un sospiro di sollievo, ed è in grado anche solo di distrarti dall’ansia del momento, questo perché probabilmente chi ha scritto quella canzone era nelle tue stesse condizioni, per di più immerso nella puzza di cantina umida. Amici musicisti, continuate quindi a darvi delle risposte quando suonate i vostri pezzi e togliete i deodoranti da ambiente nei posti in cui le componete. Questa è la chiave del successo.

finiranno, prima o poi, i pezzi dei Coldplay

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Non sono molto informato su una delle band più famose e piacione di tutti i tempi e probabilmente non ho dato a Chris Martin e soci la giusta importanza che meritano non certo per fare lo snob – d’altronde su Wikipedia le canzonette melense dei Coldplay sono annoverate addirittura nell’alternative rock – ma perché è un genere che esula dai miei ascolti. O, meglio, esulerebbe se quello dei Coldplay non fosse uno dei rari casi di ascolto forzato. Intanto le canzoni dei Coldplay sembrano tantissime. Escono dalle fottute pareti. Ci sono milioni di brani dei Coldplay che vengono pubblicati ogni giorno ed è per questo che è pressoché impossibile non trovarsele in ogni cosa che facciamo. Sotto a questa pagina che state leggendo, per esempio, c’è un pezzo dei Coldplay che vi sta osservando e che è pronto a sprigionare tutto il suo volume appena muoverete la rotella del mouse o premerete una qualsiasi combinazione di tasti, o se siete connessi con un tablet state attenti alla rotazione automatica dello schermo. Ho fatto benzina, stamattina, e ho visto un’intera raccolta vivente dei loro singoli in un pulmino fermo all’Autogrill che consumava la colazione in attesa di rimettersi in marcia. Mia moglie ha calpestato per errore la versione salsa di Clocks macchiandosi le scarpe nuove di pomodoro, per giunta, e ho letto che non so dove centinaia di migliaia di canzoni dei Coldplay appena nate, nell’intento di portarsi per istinto verso il mare come fanno certe tartarughe facendo capolino da sotto la sabbia, hanno paralizzato il traffico di una città intera che si trovava a metà strada dalla meta. Per dire, io non avrei avuto nessun problema a schiacciarle, tanto mi sono ostici i Coldplay, ma poi sai che menate ti fa l’opinione pubblica. Senza contare il fatto che la vena creativa dei Coldplay è ancora più prolifica da quando fanno tutte quelle collaborazioni che hanno aumentato in modo esponenziale la loro produzione. Non c’è persona al mondo che non possa vantare una hit scritta a quattro mani con loro, questo comporta che l’esposizione mediatica dei Coldplay sia stra-maledettamente insopportabile. Pubblicità, documentari, servizi al tiggì, video amatoriali di vacanze, qualunque cosa possa essere spalmata su una musica dozzinale viene diluita in un motivetto dei Coldplay e a questo strapotere sonoro è impossibile trovare un’alternativa. Per questo mi chiedo, e invito voi a una analoga riflessione, se esista qualche chance per cui prima o poi i pezzi dei Coldplay possano finire. Perché non è escluso che il sistema abbia ordito un complotto per avere pronti alla pubblicazione altrettanti milioni di canzoni postume nel caso i quattro decidessero di interrompere l’attività. Che poi, a dirla tutta, Yellow sembrava anche un bel pezzo, ma se avessi saputo come sarebbe andata a finire mica l’avrei ascoltato così tante volte.

non so quello che voglio ma so come ottenerlo

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Tra gli undici e i tredici anni, in quel cataclisma di cose e sensazioni ed esperienze che prendono un bambino, gli esplodono dentro e fuori trasformandolo in un individuo pronto a diventare grande in autonomia, io e i miei amici (durante quindi i cosiddetti tempi delle medie) spendevamo quasi tutti i risparmi della paghetta mensile in dischi. Non eravamo ricchi e, quindi, più di uno ogni paio di mesi non ce ne potevamo permettere. Ma ce li ho ancora tutti, quegli ellepi, e sono sicuro che anche Stefano, Vincenzo, Luciano, Giorgio (Alberto no perché purtroppo è morto giovane) e tutti gli altri non se ne sono liberati. Mi è capitato di condividere questo ricordo con mia figlia. Né lei né i suoi amici fanno altrettanto, e non è certo perché non ci sono più i negozi di dischi o perché, a differenza della mia generazione, oggi i ragazzini in quella fase sono meno indipendenti in fatto di acquisti. L’abbiamo detto più volte: la musica non è più un fenomeno di identità, aggregazione o emancipazione, e nessuno mi convincerà che non c’entra, in questo processo, la dematerializzazione o, in generale, la digitalizzazione della musica tout court. La cosa che comunque mi lascia ancora oggi di stucco è che, poco più che bambini, ci interessavamo di cose piuttosto impegnative o comunque che risultano strane, rispetto agli ascolti che oggi si hanno in quella fase della crescita. Ho una copia in vinile del 33 giri di “Never Mind the Bollocks, Here’s the Sex Pistols” che ho comprato alla stessa età in cui gli amici di mia figlia non vanno oltre Alvaro Soler, e non lo dico perché mi sento superiore, ma solo perché non saprei descrivere il motivo per cui uno come Johnny Rotten potesse attirare mocciosi ancora presi dalle biglie e dal Subbuteo. Comunque non so se avete letto che “Anarchy In The UK” compie 40 anni proprio oggi, quindi tanti auguri a tutti. Il problema è che ora a cinquant’anni suonati quell’album mi tocca ascoltarlo quando sono da solo, qui in casa. Una volta avevo su “Holidays in the sun” a palla, mia figlia è rientrata dall’allenamento e mi ha chiesto se potevo per cortesia abbassare il volume.

p.s. questa non c’entra con quel disco stra-famoso ma comunque è il pezzo dei Sex Pistols che mi piace di più, anche se è una cover dei Monkees.

da che parte stai?

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Uno degli aspetti più interessanti della musica degli anni ottanta è che, a differenza di quanto accaduto nelle altre decadi, essa costituisce un macro-genere a sé, e tutti i generi nella loro accezione tradizionale vi si sono adattati. Questo dimostra quanto lo stile di quegli anni sia stato forte e condizionante su tutto il resto, e probabilmente il fatto che abbiamo iniziato a sentirne la mancanza già dal primo gennaio del novanta significa che – ci piaccia o no – gli ottanta comunque ci hanno influenzato pesantemente. Di esempi ne possiamo fare a tonnellate e vanno dall’hard rock e heavy metal (pensate agli Europe o a cose meno ibride come i Mötley Crüe), al reggae (senza tirare in ballo la deriva pop degli UB40 sentitevi “Steppin Out” degli Steel Pulse), per non parlare del soul-funk (mi viene in mente “Word up” dei Cameo), l’hip-hop e il rap (Afrika Bambaataa) fino al rock in generale e a tutta la musica elettronica, disco compresa, che negli 80 ha dato il meglio di sé. La riflessione che si apre è che la musica degli anni ottanta sia stata un unico e gigantesco polpettone pop e che artisti e cantanti di quegli anni fossero unicamente presi dalla smania di raggiungere il mercato, che nella storia della musica non è mai stato così ampio e sconfinato, anche per i numerosi sconvolgimenti politici e sociali dell’epoca. Come a dire che tutti, dal più impegnato al più scanzonato, abbiano fatto a gara a essere il più commerciale possibile, che poi non c’è niente di male, eh. Tutto questo perché ieri sera, quando ho sentito questo pezzo, ho pensato che non sentivo nominare i Matt Bianco credo dall’estate dell’esame di maturità, e in tutta onestà avrei tirato avanti ancora un po’ nello stesso stato di oblio.

un paio di dritte sulla mostra su Bowie a Bologna

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Intanto fate presto perché c’è tempo fino al 13 novembre e poi la mostra chiude, questo significa che dovreste andare tutti sia che lo amiate visceralmente sia che lo conosciate appena. Ci sono molte chicche a partire dall’abito azzurro del video di “Life on Mars” e alcuni testi scritti a penna, comprese le liriche di “Heroes”. Ho visto chitarre e synth purtroppo spenti, stivali e abiti di scena, bozzetti per allestimenti sul palcoscenico e copertine di dischi. Poche foto, purtroppo, e la cosa risalta considerando la copertura mediatica a cui è stato soggetto Bowie lungo la sua carriera. La parte più bella della mostra resta l’esperienza immersiva grazie a cuffie niente male e ai contenuti multimediali. C’è un sistema wireless che rileva la tua posizione e ti fa ascoltare musica e interviste a seconda di quello che hai davanti, a fare i precisini a volte il segnale arriva un po’ in ritardo o è sin troppo pignolo sulle tue coordinate, ma nel complesso il risultato è sorprendente. Preparatevi quindi a piangere davanti al video di “Starman” e ve lo dico perché siamo già in due ad aver provato la stessa sensazione, o a stazionare mezz’ora per seguire a ripetizione quello di “Ashes to Ashes” anche se l’avrò visto milioni di volte, alla tv prima e su Youtube da quando esiste l’Internet e poi a bivaccare nella sala tutta rivestita di display e schermi in cui assistere a una sequenza di brani tratti dai suoi live. Questo, secondo me, sta a significare che poi alla fine di una popstar (o rockstar o artista, chiamatelo come volete) quello che resta di più è un insieme di cose di cui fruire contemporaneamente. Il corpo che si agita sul palco, la voce che ti arriva dritta nel cuore, il basso e la batteria che colpiscono la pancia, tutto il vissuto che ci lega alla sua storia e che, per uno come Bowie, sembra un’era di cose successe lungo così tanti anni, così tanti generi musicali e tutta l’epopea della fine del secolo scorso e ciò che ha rappresentato per la nostra civiltà e per il legame tra le persone e la musica, che non credo nella storia dell’umanità sia stato mai così forte come dall’invenzione del rock in poi. Vi consiglio anche di entrare in maglietta perché la temperatura al MAMbo è torrida e se non ne siete provvisti ne potete comprare una lì al modico prezzo di 25 euro, e nel mio caso – da buon ligure – la parabola dell’entusiasmo per l’acquisto ha avuto davvero un corso rapidissimo. Infine, una rassicurazione che è anche un po’ spoiler ma credo sia dovuto: entrate nella stanza delle proiezioni degli spezzoni di film in cui Bowie è presente come attore sereni, perché non vi è traccia della sua apparizione al fianco di Pieraccioni nella pellicola “Il mio west”, a dimostrazione che l’oblio per gli errori che nella vita si possono commettere (anche Bowie non è stato infallibile), per i grandi personaggi come lui compie il suo corso molto più rapidamente.

la morte è dappertutto e ci sono mosche sul parabrezza, tanto per cominciare

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Il 27 giugno del prossimo anno i Depeche Mode suoneranno a San Siro e oggi, 17 ottobre dell’anno prima, già c’è penuria di biglietti. Restano gli anelli quelli in cui vedi Dave Gahan e Martin Gore grandi come giocatori di Subbuteo, mentre Andrew Fletcher come sapete, che lo vediate o meno è indifferente tanto lui, nei Depeche Mode, fa solo il contabile. Qualche giorno fa si è parlato molto dei Coldplay e dei concerti che terranno a luglio in Italia, e sapete in che termini. A me questa corsa all’evento, manco a dirlo, mi ha rotto il cazzo e la soddisfazione di stare a casa e risparmiare centinaia di euro non potete immaginare quanto mi riempa di orgoglio (disse la volpe a proposito dell’uva).

Anzi, per celebrare il doppio mancato evento mi sa che acquisterò gli ingressi al concerto dei Preoccupations, gli ex Viet Cong, del 29 al Magnolia, che quelli si che non se li incula nessuno. Ma per quanto riguarda i Depeche Mode, che ai tempi di “Construction time again” veneravo come nessuno nell’universo musicale, come già scritto più volte ho deciso che li snobberò finché non rientrerà Alan Wilder e, soprattutto, qualcuno non si deciderà a togliere quella cazzo di chitarra elettrica dalle mani di Martin Gore. Non vi sarà sfuggito però che mi sono lasciato sfuggire il trentennale dell’uscita di “Black Celebration”, che è caduto il 31 marzo. Peccato, perché “Black Celebration” è una pietra miliare della mia formazione, uno di quei dischi che ho acquistato, ascoltato, consumato, ballato, analizzato in ogni minimo suono rumore e parola, emulato, imparato a suonare ed eseguito e comprato una seconda volta perché la prima copia in vinile non ne poteva più.

Ma questo 2016 ha visto anche la ricorrenza dei trent’anni di uno dei più coinvolgenti concerti dei Depeche Mode a cui abbia mai assistito. Era il 5 agosto dell’86 e i Depeche hanno suonato al campo sportivo di Pietra Ligure (SV), che oggi è stato declassato a parcheggio per i turisti mordi e fuggi che bivaccano con tavolino e torta pasqualina al seguito in estate, in riviera. Di quel giorno ricordo soprattutto di essere arrivato con un anticipo mostruoso ai cancelli per conquistare i posti migliori ma di aver sbagliato ingresso, e questo è un aneddoto del mio passato che racconto spesso come metafora della mia vita.

Comunque se siete fan veri dei Depeche Mode, quindi più di me invece che mi fermo a Violator, non vi sarete lasciati scappare certo il biglietto multimilonario per la prossima tournée italiana e anzi, per farvi capire il livello di idolatria di cui siete circondati, c’è persino un sito dedicato alle scalette di ogni singola esibizione live di tutta la loro carriera. Compreso il concerto di Pietra Ligure con me in fondo al campo sportivo, in completo all black, venti centimetri di cresta e tanta inconsapevolezza di quanto gli ascolti di quel periodo mi avrebbero dato, nel bene e nel male, nel futuro prossimo che era davvero dietro l’angolo, così vicino che già non me lo ricordo più.

presidente onorario della terra dei synth

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Immaginate un pianeta pieno di sintetizzatori. Io non avrei dubbi, mi trasferirei subito e vi lascerei qui con le vostre chitarre elettriche e le vostre app per emulare i tastieristi che tanto non ci riuscirete mai a farlo bene. Un pianeta in cui gente come me probabilmente sarebbe senatore a vita con tutti i privilegi economici che questo comporta, e solo perché ho ospitato in casa mia – a noleggio o acquistati a carissime rate – esseri bisognosi di carezze con i polpastrelli del calibro del synth monofonico Yamaha CS-5. Poi il Poly 61, Polysix e Poly 800 I e II, tutti della famiglia Korg. E ancora Roland Jx3p, Jx8p, Juno 106 e Alpha Juno I. C’è stata anche la fase degli algoritmi con il DX 9 e il DX 7 della Yamaha, una vacanza studio poco alla pari ma proficua di un Korg MS20, persino un giurassico Crumar Stratus accompagnato da un Siel Opera 6, che aveva un registro con cui si imitavano perfettamente i cori del Mellotron del tema di Cinema Show dei Genesis. L’ultimo che mi è rimasto è un piccolo MicroKorg con tanto di vocoder, ingiustamente chiuso sul ripiano più alto dello sgabuzzino e soppiantato da altre passioni, questa del blog in primis. Ma purtroppo un pianeta pieno di sintetizzatori e di gente che li suona esiste solo nel mondo della fantasia o, al massimo, in quello dei cartoni animati. Grazie alla segnalazione della mia amica Tinapica, guardate qui se non ci credete:

https://dailymotion.com/video/x3v1bwv