finiranno prima o poi le cover di pezzi italiani riarrangiati con il ritmo di Clocks dei Coldplay

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Non so se ci sia un termine tecnico per definire il ritmo di “Clocks” dei Coldplay, ovvero questo qui:


Io lo chiamavo erroneamente “tre su quattro” ma il mio caro amico Roberto Gualdi, che è uno dei migliori batteristi in circolazione mi ha insegnato che è un ritmo popolare presente in tantissime culture (Africa, Brasile, Cuba, Medio Oriente) e siccome coincide con la prima metà della clave cubana, dai musicisti “latini” viene chiamato “One Bar Clave”. Praticamente consta nella scomposizione di una battuta di quattro quarti in due parti da tre ottavi ciascuna e una da due ottavi, e se il modo con cui la chiamo io fa storcere il naso ai sapientoni del web o ai musicisti professionisti chiamiamolo ta-tu-tu-ta-tu-tu-ta e non se ne parla più. No, scherzo, per ora continuiamo a definirlo il ritmo di “Clocks” dei Coldplay.

Il ritmo di “Clocks” dei Coldplay è vecchio quanto la musica rock ma raramente lo si trova come pattern di batteria per tutta una canzone intera. Io una risposta a questo ce l’ho. La peculiarità del ritmo di “Clocks” dei Coldplay è che fa considerare all’ascoltatore un elemento quadratissimo come il quattro quarti come la sommatoria di moduli dispari, quindi ci fa perdere l’equilibrio per ritrovarlo a ogni fine battuta e questo andamento ubriaca i sentimenti e ci confina nell’oblio estremo dell’ascolto della musica, che è il motivo per cui ci piace ascoltare la musica perché ci piace quando ci fa dimenticare le umane sofferenze. Ora, una spruzzata del ritmo di “Clocks” dei Coldplay qui e là in una canzone conferisce al pezzo qualche elemento destabilizzante ma per poi irregimentarsi subito dopo nel ritmo portante, come quando si fa finta di far cadere qualcuno per poi tirarlo saldamente su, non so se siete mai stati bambini o avete avuto genitori così. Ma quando il ritmo di “Clocks” dei Coldplay si protrae dall’inizio alla fine l’esperienza di ascolto si tramuta in una specie di derviscio sonoro rotante, qualcuno ti lascia cadere ma non ti sostiene più e ti perdi nel risucchio del vortice infinito che tale canzone ha innescato. D’altronde la musica è da sempre considerata una cosa che gira, no? I dischi ma anche i CD fanno proprio quel mestiere lì.

Ma si sa, il parossismo dopo un po’ diventa stucchevole, si arriva al punto che non se ne può più e che è meglio staccare un po’ da tutte queste emozioni forti anche perché l’assuefazione, soprattutto per noi che viviamo nei tempi moderni dell’internet, poi rovina tutto. Quindi l’industria della musica mondiale probabilmente ha elaborato una strategia per cui di pezzi con il ritmo di “Clocks” dei Coldplay ne pubblica uno ogni tot anni, così ogni volta qualcuno fa un successo della madonna grazie a quel ritmo travolgente e son contenti tutti.

Il problema è che da tempo ci sono cose che si mettono di traverso all’industria della musica mondiale e non stiamo qui ad elencarle. Il fatto è che si cerca di spremere il più possibile le emozioni e, conseguentemente, il portafoglio del pubblico perché le une e l’altro stanno dando fondo alle scorte. Con tutti gli stimoli che ci bombardano ci è sempre più difficile emozionarci e i soldi stanno per finire. Quindi si pompa l’udito della gente per arrivare al cuore e da lì ai dati della carta di credito. Le canzoni con il ritmo di “Clocks” dei Coldplay negli ultimi tempi sono sempre più frequenti perché i volponi dell’entertainment pensano di andare sul sicuro. Anche a Sanremo, con con il ritmo di “Clocks” dei Coldplay, ci danno dentro di brutto. Avete capito, vero? Nel 2015 Nek ha presentato una cover di “Se telefonando” che fa così:


E avete sentito, nell’edizione di quest’anno, che tempo di batteria c’è da 01:53 di “Un’emozione da poco” di Anna Oxa rifatta da Paola Turci? Roba da pelle d’oca, eh?

non mi ricordo come ma mi è entrata dentro e c’è restata

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Ascoltare le proprie canzoni del cuore alla radio quando meno te lo aspetti dà molte più soddisfazioni di un ascolto premeditato oppure no?

Diciamo che sono due cose diverse: scegliere con oculatezza la colonna sonora per un particolare momento ha un suo perché in quanto c’è tutta la costruzione attiva dell’esperienza di ascolto: mi sento in modalità x, e pensate lo stato d’animo come una variabile indipendente, ho bisogno di emozioni y=f(x), appunto secondo una variabile dipendente da x. La canzone che scelgo non ha nessun tipo di impatto in senso contrario ma anzi va a potenziare il sentimento provato perché esiste in sua funzione. Quanti giovani e meno giovani riempiono i social network di dichiarazioni d’amore alla musica in quanto musa e sposa che consola di tutto e non tradisce mai? Se siete tra questi non ditemelo nemmeno, potrei togliervi l’amicizia, e in questa casistica rientrano anche quelli che postano “Vivo per lei” di Bocelli, che è la madre di tutte le melense dichiarazioni d’amore alla musica, che poi se io fossi la musica col cavolo che la darei a uno che scrive una canzone così per me, ma a pensarci bene non la mollerei nemmeno a chi posta qualunque rimando a Bocelli o a chi posta Bocelli tout court.

Comunque questo legame stretto si consuma tra i solchi di un vinile o in qualunque altra fredda modalità voi ascoltiate i vostri pezzi preferiti, ed è bello perché è fortemente voluto. Invece sintonizzarsi su una stazione radio, accenderla così per caso e sentirsi tirati in ballo da una delle canzoni che hanno segnato la vostra lunga esistenza è un modo come dire hey, non sono solo all’universo, c’è qualcuno che soffre come me, mentre i meno umili arrivano a pensare che la cosa è tutt’altro che casuale ed è scritto pure da qualche parte.

Allora, se vogliamo fare una gara, sentite qui: ieri stavo lavorando a casa, su Lifegate hanno messo “Close to me”, che nella settimana di Sanremo vale doppio anzi triplo, e subito dopo ho ricevuto una e-mail di lavoro la cui intestazione diceva “Ciao Robert, come stai?”. La mittente non è inglese semmai è distratta, io mi chiamo Roberto, sono italianissimo ma non ho registrato le parti di voce in “The head on the door”, e niente, i The Cure a qualsiasi ora del giorno regalano sempre delle belle emozioni e quando il tutto accade all’improvviso ancora di più. Che cosa aspettate? Venite nell’armadio, c’è posto.

“50 anni e New Wave”, i protagonisti dell’episodio in onda questa sera

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Gianpaolo viaggia quasi per i sessanta e ha uno di quei mali che non si riescono nemmeno a pronunciare tanto fanno paura, figuriamoci a debellarli. È lui al centro del nuovo episodio che sarà trasmesso oggi del fortunato docu-reality “50 anni e New Wave”, che come avevamo già detto ai tempi è il sensazionale programma del momento che fa un po’ il verso a “16 anni e incinta” ma è dedicato a un gruppo di ex-giovani cresciuti ascoltando The Cure e Talking Heads che ora, alle soglie della terza età, proprio non se la sentono di mettere le Creeper in soffitta e appendere il chiodo al chiodo. Gianpaolo, nemmeno fossimo in un film di Isabel Coixet e non alla tv italiana, viene messo a conoscenza di avere al massimo un anno di vita e, ancora sotto la copertura wireless dell’ospedale, manda subito un Whatsapp a Salvatore. “devo parlarti, posso venire da te subito?”.

Gianpaolo e Salvatore erano rispettivamente chitarra solista e basso rigorosamente suonato col plettro di una band new wave attiva tra l’82 e l’87, prima che – vuoi l’università, vuoi il militare, vuoi il lavoro – ognuno andasse per la sua strada. Ma Gianpaolo ha avuto sempre quel gruppo nel cuore perché è stato lì che ha vissuto gli anni formativi della sua vita. Ha militato successivamente in decine di complessi di tutti i generi, ma con nessuno ha provato quello che ha provato con Salvatore e gli altri, con nessuno è riuscito a esprimere il vero suono new wave italiano alla stessa maniera.

Per farla breve, Gianpaolo convince Salvatore a rintracciare gli altri, compreso Mauro il batterista che da quando fa il geometra in Comune ha perso tutto il suo estro new wave, per rivivere anche solo per una sera, sul palco di un piccolo teatro di quella città di provincia, le sensazioni provate allora, tutto vestito di nero con la sua Telecaster graffiante.

Da lì parte tutta la macchina organizzativa. La moglie di Fede, l’addetto ai synth, è una PR oltreché una firma del quotidiano locale. È lei che lancia l’idea della serata di beneficenza. Coinvolge alcuni animatori del mondo no profit della zona e mette in pista una partnership con una popolarissima associazione che gravita intorno al presidio sanitario. La notizia fa il giro della città: un uomo dal destino segnato che invita tutti ad assistere a quello che sarà l’ultimo concerto della sua vita, una cosa che non farei mai già solo pensando a cosa si prova a suonare l’ultimo pezzo di un ultimo concerto. Morirei di crepacuore sul palco.

Il nuovo episodio di “50 anni e New Wave” si conclude però con una festa, e non con un Funeral Party. Gianpaolo, Salvatore, Fede, Gene, Mauro e Lino con la stessa strumentazione che imbracciavano nei primi anni 80, tra le luci e il fumo di un’esibizione live, la sala gremita, gli abiti di scena neri e grigi, molti di quelli che li seguivano quarant’anni prima in piedi a ballare con anfibi e capelli cotonati sotto il palco, in un tripudio di buon vecchio sano gusto new wave, che Gianpaolo porterà sempre con sé ovunque andrà. Mi raccomando, non perdetevi l’episodio. Merita davvero.

occasione: ogni due capi acquistati una canzone in regalo

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È un peccato incontrarsi durante i saldi. Troppa gente, troppe missioni di acquisti strategici da portare a termine nel minor tempo possibile, troppa merce da passare in rassegna mescolata alla rinfusa, troppe etichette in cui accertarsi di taglia, composizione e, soprattutto, provenienza. Max però, a differenza di me, riesce a concentrarsi sulla musica diffusa nel negozio mentre si cimenta in quella caccia al tesoro che ormai, dopo quasi un mese di occasioni per di più nelle misure più standard a partire dalla 48, difficilmente darà i suoi frutti. Nessuno si sogna di accendere la radio in un esercizio commerciale in franchising come quello. Probabilmente le direttive della proprietà sono chiare: la pubblicità altrui ci fa paura, perché se fosse un problema di quello che dicono gli speaker – che nella confusione delle maratone di acquisto a prezzi stracciati in effetti farebbero ancora più confusione – mi trovate pienamente d’accordo. Anche a me ascoltare tutte quelle baggianate inutili che raccontano nelle reti commerciali tra una canzone e un’altra dà fastidio. I negozi così preferiscono i canali aziendali fidati con tutta quella musica anonima che si ripete e, per l’ascolto reiterato della quale, commesse e buttafuori africani dovrebbero ricevere un’indennità o un rimborso almeno a chiedere scusa, mi spiace, ma ascoltare radio taldeitali o Spotify per non parlare di un dj che metta musica ad hoc non ce lo possiamo permettere.

Ricordo allora a Max, mentre mi passa una polo blu gigantesca, di quando a Roma in quel negozio in via del Corso c’era uno fisso residente al sabato pomeriggio che selezionava dischi niente male, da lì finiamo ai tempi delle radio libere locali che però, mi fa notare, i negozi trasmettevano in cambio di pubblicità durante i programmi. Do ut des. Così finisce che gli racconto che in un hotel della catena NH in cui ho trascorso un paio di giorni per lavoro, negli spazi comuni e nella reception si possono ascoltare senza soluzione di continuità solo brani stra-famosi ma tutti in versioni acustiche mai sentite. Dimenticatevi i Nouvelle Vague o le riduzioni chitarra e voce da MTV Unplugged o qualche prova strappalacrime da xFactor. Tutta roba introvabile persino in rete. Ho sentito le cose più varie, da “Strange Love” dei Depeche Mode a “What Makes You Beautiful” dei One Direction, una di seguito all’altra, alcune con voce maschile cantautorale altre femminile e nu-soul.

Ho chiesto a Max se è un sistema che fa risparmiare, in qualche modo. Togliendo l’anima alla canzone, gli autori e gli interpreti che l’hanno portata al successo, la si sgombera del principio attivo, della sua natura, del motivo per cui è stata messa al mondo e la sua riproduzione non più naturale e impoverita, di conseguenza, perde il valore originale. Questo forse mette gli esercizi commerciali nella posizione di poter chiedere uno sconto su quello che fanno ascoltare ai propri clienti. Non stanno proponendo infatti un prodotto originale ma un qualcosa di lontano che lo ricorda, almeno un po’. Un simulacro della creatività del compositore che quando lo senti aleggiare nell’aria ti richiama qualcosa che hai già sentito, un suono volutamente rarefatto così da renderne impossibile la cattura tantomeno è impossibile aggrapparvisi per fuggire altrove, in modo che il posto in cui ti trovi, con la sua proposta, gli acquisti da concludere, il motivo per cui se lì, ti sveglia subito dal momento in cui ti eri assorto per capire di che pezzo si trattava e ti riporta subito con i piedi per terra e le mani tra i maglioni al 50% che nessuno mette in discussione che è un vero affare.

gli anni che finiscono con il numero sette

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Gli anni che finiscono con il numero sette sono piuttosto importanti e non me ne vogliano i fan di quelli che finiscono in otto come il sessantotto, per i motivi che sappiamo, o il quarantotto che avete studiato a scuola. Per non parlare di quelli che finiscono con il nove, a partire dall’ottantanove e dal celebre muro che è stato buttato giù, o addirittura gli anni che terminano con lo zero che non sai mai se occorre considerarli conclusivi del decennio precedente o all’inizio di quello nuovo. Ma quelli che finiscono con il numero sette sono molto importanti a partire dal settantasette perché, quest’anno, fanno cifra tonda e fanno tanto ricorrenza, è sufficiente fare un giro per i socialcosi per capire cosa intendo. C’è solo un problema. Siamo tutti stra-felici che il settantasette quest’anno fa quarant’anni perché il settantasette deve la sua celebrità a un long playing fondamentale per la storia del novecento che è appunto l’omonimo dei Talking Heads, con quel Psycho Killer che, ancora adesso, quando lo senti, ti accorgi che pezzi più moderni di quello ce ne sono stati veramente pochi. Poi il settantasette è stato anche il settantasette della cultura e della politica, con tutto quello che ne è conseguito per la società italiana nel bene e nel male. Quindi se dal settantasette e da Psycho Killer ci separano ben quarant’anni, dal sessantasette, altro anno piuttosto importante, di anni ne sono passati cinquanta, e provate a indovinare chi, nel sessantasette, ci è nato.

DOLCE STILL NUOVO: "Solo dal cuore del mai"

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“Non mi importa niente/sono solo un codice cliente”, canta Teo, one man band del progetto Dolce Still Nuovo che è tutto un gioco di parole, oltre che un concept album. D’altronde, cose come i timelapse, le foto in HDR, le gif animate che ruotano lungo loop eterni davanti ai nostri occhi con il nuovo giochino tipo la roulette che li fermi e quello che ti capita ti capita, per non parlare – dato che stiamo discutendo di musica, anche se puramente di fantasia – di certi effetti audio elettronici e le stesse batterie campionate e poi imitate dai batteristi veri, poi ri-campionate suonate dai batteristi veri e chissà davvero dove andremo a finire, signora mia. Siamo persino qui a esprimerci laconicamente tra di noi e con quell’ironia che oggi è la protagonista dei social pronta a scatenarsi sul web, almeno a quanto dicono i quotidiani on line, e a fare i gesti con le dita quando vogliamo mettere delle virgolette al nostro discorso o persino il cancelletto dell’hastag incrociando le dita in un modo senza precedenti, come se questa o quella parola che ci sembra epocale potesse essere ripresa, ricercata, indicizzata e inclusa nella conversazione di qualcun altro. Il pollice alla Fonzarelli, poi, non ne parliamo. Se una cosa ci piace scatta l’erezione del dito che si oppone per eccellenza e diciamo persino “number one” o “delicious” se davvero siamo rimasti entusiasti. Nelle canzoni di “Solo dal cuore del mai” la stessa realtà virtuale prima e quella aumentata dopo ci viene raccontata come un accrocchio che non solo ha superato in completezza noi animali in carne e ossa ma ha persino depauperato le nostre potenzialità immaginifiche e ci ha trasmesso un’idea delle cose che non corrisponde a quanto i nostri avi devono aver visto sino ad ora e che ci hanno lasciato in eredità nel loro patrimonio esperienziale e genetico. Più che apocalittico, il progetto Dolce Still Nuovo è la musica definitiva, quella pronta per fare del collaborazionismo alla prossima invasione aliena e sperare che nel nuovo ordine mondiale ci sia riservato un posto da infame al tavolo del potere.

MINE: "Ignoranza passiva"

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Dicono che dietro alle esasperanti manie per l’igiene si nascondano temperamenti ai limiti della follia e che lavarsi all’eccesso sia un auto-infierirsi punizioni per aver mancato obiettivi senza rendersene conto, quando probabilmente non si aveva nemmeno l’età per dire una parola di senso compiuto ma già c’erano genitori, nonni e zii con il fiato sul collo per farci diventare presidenti degli Stati Uniti. Certo, poi volano scuse del calibro di “in giro c’è un’influenza che si va all’ospedale” e comunque, prima di mangiare, un salto in bagno lo si fa sempre. Poi, che cosa si faccia, nessuno lo sa. Dicono anche che sovente i luoghi occidentali apparentemente più incontaminati, prendete un centro medioevale qualsiasi – da noi c’è l’imbarazzo della scelta, terremoti permettendo – o un altopiano dalla vegetazione rigogliosa, mantengono il loro fascino da rivista di viaggi solo perché hanno un nodo autostradale a pochi chilometri di distanza che li rende comodi da essere raggiunti ma senza compromessi in fatto di bellezza del paesaggio. Negli altri posti, quelli che sono divisi in due dalle grandi arterie provinciali, per esempio, non è certo così e a vederli in un mattino qualunque sembrano campi di concentramento per individui improduttivi. Malati che sfidano la cabala delle visite fiscali, anziani sani, anziani malati che escono coraggiosamente con temperature rigide, quelle che una volta si chiamavano casalinghe e la massa dei disoccupati che difficilmente si distingue da chi, invece, lavora su turni e guarda caso, in quel momento lì, è di riposo. Dicono infine che il cantante dei Mine, che sono italianissimi – oltreché immaginari, come avrete capito – ma non si sa bene di dove, abbia chiesto di poter essere cremato con la faccia dipinta da Bowie di Aladdin Sane, in caso di morte. Il resto della band, che poi è un tastierista tuttofare che rende la band un duo ai minimi termini, invece non si è pronunciato ma crediamo che, in una situazione analoga, non rinuncerebbe certo al giubbotto di pelle striminzito che – ancora a proposito del Duca – sembra uscito da uno dei provini fotografici per l’album Heroes. Ma, per tornare alla musica di noi miseri mortali, “Ignoranza passiva” segna un nuova svolta verso i territori gelidi del decostruttivismo melodico. Strumentazione più che minimale a bordone della solita sovraesposizione sfarzosa alle paure del post-moderno che, non dimentichiamo, sono le stesse di noi che proviamo a recensire dischi invisibili come questo. Che poi, mine si pronuncia all’italiana o all’inglese?

YODA CAUSTICA: “Città uguale perdersi”

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Anticipato dalla titletrack pubblicata lo scorso novembre, ecco l’esordio di lunga durata per gli Yoda Caustica, quintetto inventato di electro-shoegaze con ingombranti riferimenti presi in prestito alla scena post-folk-vaporwave urbana locale. “Città uguale perdersi” è una slideshow di dodici istantanee virate da filtri fortemente emozionali nelle quali la band comprime lo smarrimento di chi vive tra milioni di persone indistinte e da cui è facile farsi confondere. Nessuno è indispensabile, dicono i manager spietati delle start-up mordi e fuggi nate nell’economia della disperazione. Siamo riflessi di noi stessi sui vetri dei finestrini sigillati della metro senza conducente che corre sotto di noi fuori dalle ore di punta, risponde con una voce che probabilmente è quella della fine del mondo Mosè, il giovane cantante/chitarrista, sfuggente come una snapchat di un nativo digitale compulsivo. Un insieme di canzoni rubate dalle espressioni di gente come me e voi incredula sul mondo, sulla vita, sulle non-relazioni del genere umano digitale. Dimenticatevi dell’hipsteria collettiva, delle pose dei giovani cantautori, delle creazioni derivative di tempi che nessuno conosce più e di cui quei pochi che li hanno vissuti non si ricordano nulla da tanto si sono bruciati il cervello. Gli Yoda Caustica sono logoranti come le sostanze chimiche più distruttive e giocano come pochi altri sul disturbo dei nostri sensi. Ascoltare musica sarà sempre più fastidioso, con dischi come questo, ci farà sempre più paura, ci indurrà a sentirci sporchi e inutili in una lunga agonia verso la fine. Dalle pulsazioni di “Troppo tardi per tutti” ai rimandi post-rock e chillwave di “Pazza Italia in acrilico”, “Città uguale perdersi” è un drammatico compendio del disagio di chi scende a compromessi con la propria coscienza virtuale, un allarme inutile di cui ci si è dimenticati la chiave di decodifica, un hard disk pieno fino all’orlo di cose vitali immerso in una pozza di acqua sporca. Un disco assolutamente imperdibile.

le venticinque canzoni di Bowie che metterei in repertorio se suonassi in una tribute band di Bowie

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Intanto sgomberiamo subito il campo da qualsiasi dubbio e mettiamo le cose in chiaro:

#1 Scary Monsters (and Super Creeps) (1980)
#2 Low (1977)
#3 Heroes (1977)
#4 Lodger (1979)
#5 Hunky Dory (1971)
#6 Station to Station (1976)
#7 Blackstar (2016)
#8 Aladdin Sane (1973)
#9 The Next Day (2013)
#10 Let’s Dance (1983)
#11 Heathen (2002)
#12 Outside (1995)
#13 Earthling (1997)
#14 Diamond Dogs (1974)
#15 Young Americans (1975)
#16 Hours (1999)
#17 Black Tie White Noise (1993)
#18 The Man Who Sold the World (1970)
#19 The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders From Mars (1972)
#20 Tonight (1984)
#21 Space Oddity (1969)
#22 Reality (2003)
#23 Pin Ups (1973)
#24 Never Let Me Down (1987)

una lista in ordine dell’affetto che provo per i suoi dischi e non me ne vogliate, tanto stiamo comunque parlando di cose dell’altro mondo quindi se il vostro beniamino si trova in coda si fa presto a dimostrarne, comunque, il valore.

Detto ciò, nell’ultimo anno – il primo senza di lui – mi sono chiesto quanto possa essere difficile scegliere dei suoi pezzi per metter su un repertorio, considerando la vastità della scelta, la varietà degli stili, la difficoltà stessa insita in certe sue canzoni, complice il fatto che con Bowie ha suonato il meglio dei musicisti di ogni epoca, da Rick Wakeman a Brian Eno fino ad Adrian Belew, che in studio e dal vivo hanno reso il suono di Bowie spesso impossibile da riprodurre per noi umani normali. L’aspetto che complica il tutto è anche il fatto che alcuni suoi pezzi sono stra-famosi e iconici e se non li metti in scaletta il pubblico potrebbe chiedersi ma che razza di tributo sia. E visto che siamo nel regno dei blog, e quindi ciascuno fa e dice quel cazzo che gli pare alla faccia delle giurie popolari grilliste che controllano la veridicità delle informazioni, ecco quale potrebbe essere la mia scelta, in ordine sparso, quindi ditemi se non vi piacerebbe vedere un concerto così:

1- It’s No Game

2- I Can’t Give Everything Away

3- Loving The Alien

4- Where Are We Now?

5- Boys Keep Swinging

6- Absolute Beginners

7- New Killer Star

8- The Speed of Life

9- D.J.

10- Valentine’s Day

11- Always Crashing In The Same Car

12- Look Back In Anger

13- Cat people (nella versione live)

14- TVC15

15- Sense of Doubt

16- Cactus (Pixies cover)

17- Thursday’s Child

18- Ashes to Ashes

19- Warszawa

20- Wild is the wind

21- Kooks

22- I’m afraid of americans

23- Sons Of The Silent Age

24- Be My Wife

25- Heroes (guardate come si diverte Belew a suonare in questa versione)

sapevo che prima o poi sarebbe tornato questo giorno

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Abbiamo avuto tempo un anno intero per riflettere su quello che ci manca da quando ci manca David Bowie, che è mancato appunto un anno fa domani. Ognuno di noi quindi può sfoggiare tutti i motivi sociali, culturali e anche personali per cui il mondo, le relazioni che abbiamo ma anche noi stessi, nel profondo, siamo diversi, oggi. Siamo debilitati dall’assenza ma anche forti perché sappiamo tutti come funziona con l’assenza: il ricordo si fortifica, si sublima, si fa presenza costante proprio perché la presenza della cosa o della persona che non c’è più non è più a nostra disposizione e quindi facciamo quadrato intorno ai nostri ricordi.

Dal 10 gennaio scorso ci siamo pitturati la faccia con le saette rosse e blu, abbiamo visto mostre a lui dedicate, abbiamo tolto i granelli di polvere dai solchi dei suoi vinili che era un po’ che non ascoltavamo, abbiamo scoperto inaspettati segreti dalle copertine dei suoi dischi. Ci sono stati tributi, riconoscimenti, giornate a tema, speciali sulle reti televisive, documentari. Giornalisti professionisti e blogger dilettanti si sono profusi in tonnellate di parole a colmare la narrazione di un artista sul quale non è stato detto abbastanza e mai lo sarà, anche se l’esposizione mediatica sembrerebbe provare il contrario.

Lo scorso 10 gennaio ero in Stazione Centrale a Milano, in attesa di un treno per Firenze, quando via Whatsapp ho appreso che Bowie era morto. Ho subito pensato alle tappe dell’evoluzione umana dal 1976 ad oggi, cioè dall’anno in cui più o meno sono venuto a conoscenza della sua musica e a come nel tempo Bowie ha espresso se stesso al meglio a seconda di cosa c’era intorno. Ho pensato ai dischi che ci siamo contesi io e mia sorella, alla raccolta “Rare” che ho prestato a un amico e non mi è mai stata più restituita, a certe sue canzoni smaccatamente glam che ancora oggi, con tutte quelle chitarre distorte e acute, faccio fatica ad ascoltare. Ho pensato alla corsa dei ragazzini strafatti nel film su Cristiana F., al video di Heroes visto a Odeon, alla parte di tastiere di “China Girl” per quante volte l’ho suonata. Alle sue collaborazioni con i Queen e con Mick Jagger, alla sua parte parlata nella versione extended di “Do they know it’s Christmas”, ad “Absolute Beginners” e alla ragazza che lo ascoltava piangendo perché era finito un amore che era nato proprio lì. Alla trilogia berlinese di cui in tanti si riempiono la bocca e hanno ragione, perché Low è il disco più bello anche se Scary Monster è quello a cui sono più affezionato. Alla tappa milanese del “A Reality Tour” nel 2003 o giù di lì che mi sono lasciato sfuggire ma chi poteva pensare che poi non ci sarebbe stata più occasione di vederlo live.

Insomma, in dodici mesi le occasioni per riflettere su quello che ci manca da quando ci manca David Bowie sono state tante, forse più di una al giorno. E l’ultima è di un paio di giorni fa, quando è uscito un suo pezzo nuovo. L’ho ascoltato e ho pensato se Bowie era ancora vivo quando l’ha scritto o davvero c’è un sistema per fare musica anche quando di noi non c’è più nulla, e in questo caso davvero non c’è motivo di preoccuparsi. Aspettiamo un nuovo album di suoi inediti, provenienti da chissà dove.