non c’è nulla di più pop della primavera

Standard

“Due teste sono meglio di una”, oltre a essere la traduzione del titolo di una vecchia sigla italo-disco del programma Discoring, è una filosofia a cui si devono arrendere anche i più fermi sostenitori delle one-man band nella vita, i lupi solitari che preferiscono la condizione stand-alone a qualsiasi forma di menage di coppia, per non parlare di socialità. Prendere decisioni in autonomia è molto realizzante e fortificante, ma la pratica del secondo parere colma quella minima percentuale di dubbio che, per quanto si è testoni, rimane conficcata come un tarlo e, in caso di conferma, ci inietta una buona dose di autostima che ha poi sul carattere lo stesso effetto del silicone e, ritirata la coppa della ragionevolezza delle proprie convinzioni, possiamo eventualmente tornare nel nostro splendido isolamento. Un principio che vale anche nelle piccole cose. Metto su Spotify il disco di una band mai sentita – e non mi riferisco ai Cube di “Two heads are better than one” di cui sopra – perché vi ritrovo delle potenzialità e mia moglie subito chiede informazioni, un chiaro indice di apprezzamento perché altrimenti manifesterebbe il suo disappunto. Chi è il gruppo, da quale parte della Gran Bretagna o degli Stati Uniti sono originari e cose così. Attenzioni che mi piacciono e chi fanno sentire un vero talent scout o, come si dice oggi, un trend setter che però è un termine che mi piace così così perché ha un rimando a una razza canina che, appena ci penso, toglie tutto il valore sociale di quel ruolo. La mia attività costante di scopritore di talenti a cui prima o poi la massa tributerà il giusto successo è caratterizzata da un fattore stagionale che fa la differenza. La musica tiene caldo o tiene fresco come qualunque altra emozione che ci mettiamo addosso e questo fattore fa la differenza se volete ottenere impressioni da altre persone in linea con la vostra e incassare un nuovo esaltante risultato per il vostro ego. Certe canzoni sono appiccicose e fanno sudare, quindi occhio a quando le proponete. Per altre è sufficiente areare il locale adibito all’ascolto prima di soggiornarvi e vedrete l’effetto che fanno con la primavera. Non vi nascondo però che, con la bella stagione, sbagliare è molto più difficile. La primavera è la stagione pop per eccellenza, quindi sarà sufficiente lasciare le atmosfere cupe e le lagne che sussurrano i propri dolori da spleen chiuse nel vostri dispositivi di storage o, se proprio ci tenete, ascoltateveli da soli in cuffia e vedrete che nessuno si lamenterà di quanto siete fuori luogo.

raga il 21 maggio Ok Computer fa vent’anni. Che cosa gli regaliamo?

Standard

Non sono solo io a sostenere che il 1997 sia stato un anno decisivo, forse il vero anno zero di tutto e il vero punto di arrivo del primo millennio DC. D’altronde chi ce lo dice che i mille anni dall’anno zero sono stati calcolati a millimetro? Chissà quale complotto c’è dietro a questo calcolo per cui SVEJA!!1!!1 che già questa suddivisione del tempo è sufficientemente aleatoria e se esistesse davvero la democrazia diretta e fossimo noi laggente a decidere le cose e non i politici corrotti con i loro vitalizi e i loro vaccini per il morbillo l’anno zero lo decideremmo noi con una votazione sul blog di Grillo e quindi magari oggi è il tremilaquarantotto e noi siamo qui a calcolare i ventennali che non lo sono.

Allora mettiamola così: quello che, stando alla classificazione imposta dalla lobby dei calendari e del pidimenoelle, consideriamo il 1997 è stato un anno decisivo, e non solo perché io ho fatto trent’anni ma perché i dischi usciti nel 1997 sono stati dischi davvero insuperabili. Vi cito i primi che mi vengono in mente sia stranieri che italiani? “Ok Computer”, “Urban Hymns”, gli omonimi dei Portishead e dei Blur, “The Fat of the Land”, “Dig Your Own Hole”, “Von” dei Sigur Ros. E, dalle nostre parti, il primo dei Subsonica, “Hai paura del buio?” e persino “Tabula rasa elettrificata” che si era piazzato in testa alla classifica degli album più venduti in Italia per un po’ di settimane.

Quante volte ci è capitato di pensare che le cose si sarebbero dovute interrompere in questo o quel momento perché si era raggiunta una certa perfezione e la cristallizzazione della situazione avrebbe rappresentato una vera conquista per l’umanità alla faccia di quelli che la menano con il progresso e l’evoluzione?

Io per certe cose, per dire, mi sarei fermato lì ma poi penso che non avrei mai conosciuto mia moglie e mia figlia, quindi chi se ne importa, meglio così. Ci sono altri invece che questa cosa la prendono sul serio. Non deve stupirvi, quindi, la scoperta che ho fatto: in giro c’è una setta segreta che trama per girare all’indietro le lancette di tutti gli orologi a cucù esistenti al mondo, convinta che questo moto a ritroso sia la procedure in grado di far rilasciare a tutta la materia esistente l’energia per tornare daccapo al 1997, ovviamente a “Ok Computer” pubblicato. I membri di questa organizzazione cospiratrice è facile riconoscerli. Sono tutte quelle persone che si vedono in giro con quegli zainetti della North Pole che vanno tanto di moda oggi e che SVEJA!!!1!!1!!!! altro non sono che un modo per riconoscersi, oltre a contenere gli strumenti di scasso necessari a introdursi nelle vostre case per sabotare i vostri orologi a cucù.

Se volete la mia opinione, io che sono un moderato ribadisco che le cose è giusto che vadano avanti e anzi, se un giorno radicalizzerò la mia convinzione farò di tutto affinché si dia un taglio con il passato, tanto lo sappiamo che “Ok Computer” è di una perfezione insuperabile e quindi è meglio mettersi l’animo in pace e non pensarci più.

conoscere il passato non aiuta a interpretare il presente, almeno in musica

Standard

Il pop oggi è un terreno di scontro generazionale tanto quanto anni addietro lo sono stati le rivalità tra genitori democristiani e figli simpatizzanti di autonomia operaia, madri formate alla scuola gentiliana contro giovani seguaci del sei politico, padri rispettosi delle regole e adolescenti autoriduttori o, per fare un esempio più consono, fan della musica classica di mezza età intransigenti su tutto il resto contro chi portava il rock in casa. Ma, come vedete, si tratta di piani antitetici, si parla di reazionari contro giovani ribelli, temi con cui scornarsi perché frutto di posizioni opposte. Invece la nostra generazione cresciuta nel pop e che ha passato la vita a erigere monumenti al pop si è sorprendentemente trovata contro la generazione dei loro figli che non ne vogliono sapere delle nostre lezioni di musica pop, un’attitudine, la nostra, che fa parte dell’approccio generale per cui ci sentiamo giovani anche a cinquant’anni e pensiamo di saper insegnare ai giovani (quelli veri) come si fa ad essere giovani.

In pratica abbiamo occupato i luoghi in senso lato e traslato e i momenti culturali che per natura appartengono ai giovani, e ora loro, non trovando spazio, si sono spinti giustamente oltre e secondo me è per questo motivo che ascoltano della musica veramente di merda, sempre che l’ascoltino. Perché noi genitori pop ci troviamo di fronte sia i figli che ascoltano della musica veramente di merda che quelli che non ascoltano musica, il che per noi che siamo nati e cresciuti con la musica come fattore distintivo è inconcepibile. Come non mangiare. Come non bere. Come non respirare.

Eppure è così e, tra le due varianti di questo decorso della civiltà come la conosciamo, non so quale augurarvi e augurarmi. Mia figlia, per esempio, ascolta roba tutto sommato di qualità ma, in quanto perfettamente integrata nel suo tempo, ogni tanto mi fa sentire canzoni che giudico vergognose, quasi tutte riconducibili ai fenomeni rap e trap locali, o brani resi celebri perché usati nemmeno in spot tv ma come sottofondo a meme di youtube, cose condivise che si diffondono a macchia d’olio e di cui si è smarrita la paternità (altro aspetto per me inconcepibile) fino al pop del momento, che tutto sommato tra quello che offre il panorama commerciale è il meno peggio. Io che sono piuttosto rigido su queste tematiche cerco comunque di non esprimere giudizi (nel tempo qualcosa mi è scappato, con conseguenze peggiori rispetto alla causa scatenante) e faccio del mio meglio per capire. Ed è questo che fa riflettere: decenni degli ascolti più estremi, di Clock DVA, Einstürzende Neubauten, i Ministry (cazzo, i Ministry), Ornette Coleman, Drexciya ma anche moltissima musica di adesso e millemila altra roba complessissima per poi non riuscire a comprendere Ghali o Sfera Ebbasta. I loro pezzi si librano negli ambienti di casa nostra riprodotti su supporti di qualità pessima – smartphone e pc portatile, questo è l’Hi-Fi con cui i nostri ragazzi stanno crescendo – e non avete idea di come si infrangano in mille pezzi contro il mio universo sonoro. La musica è cambiata e probabilmente non è nemmeno più musica, il pop è morto ma per fortuna io mi sento in forma.

festeggia l’otto marzo acquistando il disco di una voce femminile

Standard

Ho o non ho ragione? Ciascuno di noi fa del suo meglio per riequilibrare le disuguaglianze tra i popoli, ristabilire i valori delle cose affinché la terra come la conosciamo noi sopravviva confortevole anche per i figli dei figli dei figli dei figli dei nostri figli, contribuire alla pace nel mondo, estendere i diritti civili su scala mondiale termonucleare globale, alleviare i dispiaceri di chi soffre, dare speranza a chi l’ha persa, sforzarsi affinché questo blog diventi sempre più seguito. Scherzo eh. Comunque capisco gli insofferenti alle social-ricorrenze e alla valanga di solidarietà calendarizzata. Davvero, che due coglioni.

Se siete del mestiere come me saprete che c’è gente pagata dalle aziende per postare sulla pagina Facebook uova di Pasqua a Pasqua, alberi di Natale a Natale, auguri alla mamma nel giorno della festa della mamma e così via. Appiccicato da qualche parte nell’ufficio di questi manovali del “social media engagement” c’è un foglio di Excel che ricorda loro che giorno è oggi in modo che riescano a grattare il fondo della banalità contenutistica e irrorare fuffa digitale nel web, nemmeno ce ne fosse il bisogno. La cosa succede anche in occasione della festa della donna, manco a dirlo, e attenzione: non ho nulla contro le vostre foto di mimosa, davvero, né mi sento superiore perché mi sottraggo alle celebrazioni precostituite, ve lo giuro.

Anzi, per dimostrarvi la mia sincerità vi dico come ho festeggiato io l’otto marzo, e lo farò confessandovi una mia vergognosa lacuna frutto di un’attitudine discriminatoria. Se guardo la mia collezione ormai quasi quarantennale di trentatré giri, la percentuale di voci femminili soliste o in gruppo è ridottissima. Ho un paio di dischi dei Matia Bazar nel periodo Mauro Sabbione, Siouxsie, M.I.A., i Portishead, i Cocteau Twins, This Mortal Coil. Stop. Anche estendendo il calcolo ai cd, non c’è molto di più: Lali Puna, Marisa Monte, Amalia Gré, Ani di Franco, Alanis Morrisette, i 99posse con Meg, i Daughter. E vi assicuro che nella tonnellata di musica che c’è a casa mia è veramente una goccia in un mare. Non so se sia un caso, una pregiudizio latente o chissà cosa. Così per una serie di coincidenze ho unito l’utile al dilettevole.

Tutto è nato da questo articolo su Repubblica comparso ieri e che mi ha riempito di gioia. Ho scoperto Valerie June per caso, e non mi ricordo nemmeno come, tanti anni fa, e se non ci credete e pensate che voglia fare quello che l’ascoltava “before it was cool” leggete qui questo mio post sui migliori dischi del 2013 e ditemi se non ci avevo visto giusto. Comunque proprio ieri è uscito il suo disco nuovo che si intitola “The Order of Time” e, anche se non l’ho ancora assimilato come il precedente “Pushin’ Against A Stone” che davvero, l’ho consumato su Spotify, merita senza ombra di dubbio. Mi sono innamorato del suo timbro, del suo modo di cantare, dell’andamento delle sue canzoni che suonano blues e folk ma che sono di una drammaticità senza tempo e, per questo, attualissime e sono certo che se la provate vi innamorerete come me.

Ecco, per farla breve, visto che il suo nuovo disco è uscito solo ieri, ieri l’altro ho voluto festeggiare l’otto marzo con un giorno di ritardo acquistando il disco di una voce femminile – e che voce, quella di Valerie June – cominciando proprio da quello precedente, rigorosamente su vinile, con l’idea di prendere quello nuovo alla prossima tornata. Mica posso comprarmi un disco al giorno, eh, con quello che costano.

l’insieme è la somma delle parti, e le parti non sono la frazione dell’insieme

Standard

Su VH1 che a quanto vedo da mia figlia dev’essere la Videomusic o, per non esagerare, la MTV dei millennials, ma come l’abbiamo conosciuta noi e non quella merda che trasmette sedici anni e incinta, è appena passato l’ultimo video di uno speciale sui Subsonica che è bene che sappiate che sono il mio punto debole, il mio tallone d’Achille, il mio Fabio Volo, il mio M5S, il mio Muccino. Mio padre a trentatré anni aveva già due figli, io a trentatré anni non mi perdevo una tappa del tour di Microchip Emozionale. Ho visto dozzine e dozzine di concerti, ma vi giuro che quanto mi sono divertito ai loro non riesco a spiegarlo. Ogni passione musicale ha il suo momento e la sua dimensione. Ebbene, i Subsonica vissuti in quella fase della mia vita sono stati una colonna sonora perfetta, che vi devo dire. E sia chiaro che non me ne vergogno nemmeno un po’.

Così mentre finiva l’ultimo video dello speciale su VH1 ho pensato al fatto che oggi i Subsonica sono un po’ obsoleti per l’approccio da band novecentesca che hanno alla musica e per la musica in sé che fanno, visto che certa d’n’b è finita da un pezzo. Non a caso ci stanno dando dentro separatamente con progetti più o meno individuali: Samuel lo avete visto tutti a Sanremo ma è già un po’ che è in giro con dei brani da solista, canzoncine peraltro niente male. Anche Boosta ha pubblicato un disco pieno di ospiti e, per di più, siede tra i giudici di Amici di Maria De Filippi e insomma, non mi stupirei tra qualche anno vederlo sull’Isola dei Famosi o un omologo programma per rilanciare starlette desuete. Anche il Ninja e Max Casacci sono fuori con un loro progetto, un disco elettronico particolarmente complesso. Vicio, il bassista, non pervenuto, almeno non mi risulta.

La cosa che però traspare da tutta questa verve indipendentista, e lo si capisce tra le righe del titolo di questo post, è che ne devono ancora fare di strada i subsonici per guadagnarsi una dignità di artisti indipendentisti. Se un marziano capitasse sulla terra nel 2017 e per la prima volta ascoltasse quei dischi senza sapere nulla, questo indipendentemente dall’assistere o meno a una puntata di Amici con Boosta che fa il giudice, non capirebbe mai che quei cinque fanno parte di una band affiatata da più di vent’anni. A me i Subsonica piacevano e piacciono perché sono un bell’insieme, si completano con i loro limiti e funzionano così, come funzionavano quando io di anni ne avevo trentatré e saltavo ancora sulla loro d’n’b. Ma lo so come funzionano le cose, oramai sono abbastanza disilluso: tutto cambia, le cose si evolvono, star sempre a piangere su come era prima non porta a nulla e che ci volete fare, probabilmente è giusto così e da qualche parte è un primo maggio a Roma e ci sono loro sul palco che suonano “Liberi tutti” con la strumentazione d’epoca.

domenica maledetta domenica

Standard

Tra gli oggetti di culto della mia generazione un posto d’onore è riservato ai bootleg, vinili e cassette ai limiti della legalità che circolavano in copie esclusive per i fan più accaniti e che raccoglievano, spesso con registrazioni di qualità imbarazzante, le testimonianze live dei nostri beniamini. I bootleg circolavano nelle zone grigie dei negozi di dischi più specializzati o nelle vendite per corrispondenza, l’antesignano dell’e-commerce, spesso avevano copertine anonime coni titoli scritti a pennarello, ma la passione per questa o quella band e l’emozione dell’esperienza live anche se in qualità discutibile facevano passare tutto in secondo piano. Non sono molto informato ma credo che oggi quella dei bootleg sia una pratica desueta, sostituita dai video ripresi con lo smartphone e condivisi su Youtube, e spero di essere smentito.

Ma se devo essere sincero a me i dischi dal vivo, bootleg o ufficiali, non sono mai piaciuti particolarmente. Il motivo? Intanto il concerto ha senso se vissuto di persona e quando sei lì e sei dentro la musica in tempo reale l’esibizione è un tutt’uno con i brani, che se sono diversi rispetto alla versione originale non è un problema. Nei dischi dal vivo invece l’esperienza concerto è in differita, e a me sentire le canzoni che suonano diverse dai dischi non sempre piace.

Ma è chiaro che non bisogna generalizzare. Ci sono dischi live in cui se i pezzi sono uguali o eseguiti in un altro modo non importa perché trasmettono tutta la potenza e la forza di chi è sul palco. Poco fa, per esempio, mi è venuta voglia di riascoltare “Under a Blood Red Sky” che è una cosa che non faccio spesso perché gli U2 mi hanno stufato sin dai tempi di “With or without you”, e a parte qualche episodio felice successivo come “Until the end of the world”, “Stay”, “Electrical Storm” o la colonna sonora di Batman di cui in questo momento mi sfugge il titolo, dopo non li ho mai seguiti più di tanto. Non vi dico invece quante volte ho visto il video di “Pride” nei miei programmi musicali preferiti, ma dopo “Unforgettable fire” Bono e soci e io abbiamo preso due strade diverse, punto e basta.

Comunque “Under a Blood Red Sky”, un po’ perché mi ricorda l’ottantatre e la videocassetta dello stesso album che con gli amici vedevamo cenando con farinata e vino da Stravinskij, inutile vi spieghi cos’era, un po’ perché in effetti rende molto l’idea di come erano gli U2 ai tempi, è uno dei pochissimi dischi dal vivo che vale davvero la pena, e attenzione perché non c’è una sola traccia che possa essere saltata.

il mondo ha bisogno di storie, fatevi sotto

Standard

Non fate troppe storie e dateci dentro. I grandi brand della socializzazione su Internet si rincorrono per indurvi a postare le vostre storie usa e getta, e non solo le più simpatiche svaniscono dopo ventiquattr’ore come l’inchiostro simpatico, o come tutte le più belle cose vivono solo un giorno, come le rose. Snapchat, Instagram, Facebook e pure Whatsapp hanno adottato tutti la stessa funzionalità in una efficace corsa al ribasso derivativo, sapete come vanno le cose nel commercio: se non puoi batterli, copiali. La ormai onnipresente ironia del web si è scatenata anche su questa tematica critica e davvero, sembra che tutto oggi debba mettervi a disposizione la possibilità di produrre storie volatili, in senso chimico e non dei pennuti. Avremo quindi le storie del microonde, quelle della lavastoviglie e persino quelle del Televideo, una tecnologia che solo al pensiero mi fa commuovere perché mi ricorda mio papà che, del Televideo, era un lettore compulsivo, con quei caratteri da informatica vintage.

Io resto fedele a questo canale, il mio blog intendo, per raccontarvi le mie. Volete sapere l’ultima? Ieri mi sono unito a un gruppo di amici (della categoria genitori della squadra di pallavolo in cui militano le rispettive figlie) per una serata all’insegna del southern rock. Un papà che suona (piuttosto bene) la batteria in una cover band (piuttosto brava), il tutto nel contesto di un locale di provincia ubicato all’uscita di una superstrada specializzato nell’iconografia rock. Avete presente? Chitarre appese ai muri, foto dei mostri sacri del rock, musica live rigorosamente schierata, cameriere tatuate e piuttosto aggressive e, cosa che mi ha piacevolmente sorpreso, oltre all’acustica finalmente rispettosa del gruppo sul palco, pubblico adeguato. Basettoni, portafogli con catene attaccate ai jeans, stivali, baffi e barbe, cappelli da cowboy, ragazze in tiro secondo i crismi del rock’n’roll, ma tutti con un preoccupante trait d’union: l’età avanzata.

A partire dai musicisti fino alla gente in sala non credo ci fosse nessuno sotto i trent’anni. Il rock diventa sempre più un passatempo per quaranta-cinquantenni ed è difficile capire come si concili con tutti gli aspetti collaterali propri del rock: le groupie, l’alcol, la droga, ma anche le mogli cagaminchia che, invece, sono le prime a saltare sui tavoli – malgrado gli acciacchi dell’età – per ballare il southern rock. Purtroppo non solo i ragazzi oggi non suonano più il rock ma credo nemmeno lo ascoltino più, e quando vedo un under 18 con i capelli lunghi e qualche rimando al rock (una maglietta, una scritta sullo zainetto) mi viene da fermarlo per fargli i complimenti. La morale è che ieri sera mi sono esposto a così tanto southern rock che stamattina ho dovuto a mio modo disintossicarmi con gli Smiths. Nessuno mi toglie comunque dalla testa che sia inutile pubblicare tutte queste storie, perché il mondo non ascolterà.

e adesso invece che cosa vuoi sentire?

Standard

Una delle cose che mi affascina di più della musica è che ci sono periodi, giorni, ore e persino momenti in cui si ha voglia di ascolti a sé, molto spesso differenti e persino antitetici, ed è per questo che sarebbe interessante produrre dei grafici dove su un piano cartesiano ci sono tutti i generi e loro infinite sfaccettature del mondo e poi tutti i punti in cui ci troviamo quotidianamente per poi unirli e capire cosa viene fuori. Oggi sono da Dawn Penn e qualche minuto dopo mi va di immergermi nelle registrazioni approssimative e approssimativamente digitalizzate di un gruppo dark in cui suonavo a vent’anni, ma solo ieri sera ho messo su De André e nella pila di dischi che ho ascoltato negli ultimi giorni – mi piace lasciarli fuori scaffale per un po’ e quando la torre raggiunge un’elevazione a rischio per il vinile sotto metto tutto in ordine – c’è “The lamb lies down on Broadway”, il primo omonimo lp dei Duran Duran e persino “Tango” dei Matia Bazar. Oppure pensavo a quanto certi pregiudizi da cui ci lasciamo erroneamente guidare ci precludono cose interessanti.

Mi spiace, per esempio, essermi sottratto per così tanti anni all’ascolto di 90125 degli Yes, che ai tempi non potevo certo aggiungere alla mia collezione che imponeva solo musica di un certo orientamento. A proposito, se ascoltate la stra-famosa “Owner of a lonely heart” provate a pensare a quante canzoni si possono comporre con tutte le parti di chitarra che ci sono. Il mio preferito è l’arpeggio dopo l’assolo, qui a 5:14.


Comunque, tornando ai grafici che definiscono i nostri posizionamenti musicali a seconda degli stati d’animo, sicuramente in rete da qualche parte qualcuno avrà inventato un sistema del genere. E il bello di tutto ciò è che non c’è una canzone che cada nel dimenticatoio. Questi corsi e ricorsi personali ci precedono e ci seguono senza soluzione di continuità ed è giusto così. Lasciate che il suono parli per voi, d’altronde ora non vorrei esagerare ma una grossa percentuale del nostro corpo è composta di quella materia lì, e a chi dice che è intoccabile lo invito a salire a vedere la mia collezione di 33 giri.

state alla larga dai musicisti

Standard

Secondo uno studio dell’International Bureau of Social Research almeno una persona su dieci è un musicista. Ieri sera ho visto per caso il nuovo video dei mille musicisti che suonano contemporaneamente, questa volta “Smells like teen spirit”



e, tra parentesi, chissà che la nuova iniziativa Rockin’ 1000 non convinca i membri dei Nirvana a ricostituire il gruppo per un concerto a Cesena come successo per i Foo Fighters, che ancora tra parentesi non so se lo sapete ma condividono un componente. Comunque questi mille secondo lo studio che ho citato in apertura concentrati nello stesso posto hanno lasciato temporaneamente diecimila persone non musiciste libere di muoversi nel mondo senza incontrare quel musicista ogni dieci che gli tocca, questo è il vero successo dell’iniziativa.

Mia moglie, nel vedere tutta quella gioventù rockettara ed entusiasta ostentare all’unisono il feeling del rock’n’roll ha detto a mia figlia che si augura per lei di fidanzarsi con un musicista, al che sono trasalito in quanto, unico musicista in famiglia, non augurerei una relazione con un o una musicista al mio peggior nemico. Quindi, figlia mia, andiamoci piano, perché i musicisti sono belli ma in giro c’è tutta una letteratura di contro-indicazioni:
– non portano a casa uno stipendio, non porteranno a casa una pensione, quel poco che guadagnano lo spendono in strumenti musicali o attrezzatura professionale
– impongono almeno un tre locali nella scelta della casa, con una stanza in più da adibire a studio/sala prove
– sono esposti alle groupie
– se lavorano, lavorano di sera, lavorano quando gli altri fanno festa, rientrano tardissimo svegliando tutti per rimettere a posto la loro strumentazione nella stanza adibita a studio/sala prove di cui sopra
– intorno ai quarant’anni iniziano a essere patetici con i loro look da ragazzini ma con la pancia, i rigonfiamenti in vita e i capelli bianchi
– intorno ai cinquanta manifestano sordità
– bevono birra e si fanno le canne (vedi post di ieri)

Lo so che è un peccato perché davvero certi musicisti sono davvero fascinosi. Riflettevo su questo guardando Gazebo, il programma di RaiTre condotto da Zoro alias Diego Bianchi che ospita una band i cui membri immagino che spopolino in quanto a bellezza, non so se ci avete mai fatto caso. Suonano seduti sui loro sgabelli alti e infondono la trasmissione del loro carisma che si mescola alle note e ai ritmi che producono.

La cosa dovrebbe convincervi sul fatto che un musicista non vi amerà mai: guardate come imbracciano i rispettivi strumenti. Nessuna persona al mondo può ricevere attenzioni più amorevoli della chitarra, del basso, della batteria e persino dei synth da parte di un musicista, quindi ragazze/ragazzi miei mettetevi il cuore in pace perché nessun musicista vi accarezzerà mai così per aiutarvi a sprigionare la vostra armonia (questa è bella, me la segno per tornarci su).
L’obiettivo è quindi, per noi genitori ex musicisti, tenere alla larga le nostre figlie da una persona su dieci. Meglio un dentista, un biologo marino, persino un ingegnere.

liberate la scimmia

Standard

Se non sapete chi gridava “Liberate la scimmia” passate pure al post successivo perché vi manca un tassello fondamentale della cultura cinematografica degli anni 80, ed è un peccato perché sono tantissimi i link che si possono tessere tra “Italian Boys” e il presente, tra Umberto Smaila e Francesco Gabbani che purtroppo fino alla settimana appena conclusa che, ricordiamo per chi non fosse italiano, qui da noi è considerata la più importante dell’anno molto più di qualunque festività laica o santa che sia, era con nostro rammarico un emerito sconosciuto. Francesco Gabbani ha così finalmente liberato la scimmia in cattività almeno dal 1982 – anno di uscita del film Italian Boys – e l’ha portata sul palco della nostra società a ballare tutti i luoghi comuni che ci confinano in uno zoo culturale. Sui social è già un proliferare di panta rei e singing in the rain ed è vero che tutto scorre e namastè e alè e certo che farvelo dire da uno come Francesco Gabbani è quasi peggio di Moretti che sbraitava peste e corna della sinistra, e sembra secoli fa. Liberate la scimmia nuda che balla e non perdiamo tempo a imparare i passi di danza giusti per guidarla a ritroso e riportarla in gabbia. A noi haters musicali resta la soddisfazione di aver riconosciuto, già alla prima strofa, il link tra la canzone che ha vinto Sanremo 2017 e gli anni 80, smascherando il generoso tributo di Francesco Gabbani a “Run to me” di Tracy Spencer. Liberate la scimmia!