ecco perché i musicisti non sono simpatici

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La recente intervista di Manuel Agnelli a Linkiesta, che trovate qui, ha riacceso l’annoso dibattito sulla simpatia delle mezze-popstar di casa nostra e, più in generale, di chi ha velleità di sfondare con la musica. Gli artisti sono affabili o interpretano forzosamente il ruolo delle persone burbere perché lo impone il cliché da seguire? Mostrarsi accondiscendenti con qualunque espressione del sistema come lo conosciamo significa scendere a compromessi e, conseguentemente, contaminare la nostra purezza intellettuale? Prestarsi al gioco delle convenzioni sociali aumenta o abbatte le vendite dei dischi o dei libelli di racconti autobiografici? In Italia il durismopurismo è un fenomeno diffuso almeno sin dai tempi di Gaio Muzio Scevola e ha avuto il suo culmine soprattutto nelle discipline della politica e della musica indie. Potremmo andare avanti mesi se non anni a parlare del fastidio che manifestiamo per i compromessi tra partiti – d’altronde non esiste una traduzione appropriata del termine Realpolitik in italiano e forse il motivo è che a noi non ci interessa – e ci vorrebbe altrettanto tempo a ricordare quello che succede quando una band underground qui da noi firma con una major o quando il Manuel Agnelli di turno va a fare il giudice a xFactor. Ma a difesa del cantante degli Afterhours va ricordata la spocchia di certo mezzo-giornalismo nostrano che non conosce mezze misure tra l’accondiscendenza totale globale e il voler giocare a chi ce l’ha più acuto con l’intervistato di turno. Per dire, Freddy Mercury e i Queen fanno altrettanto cagare a me, ma ora ditemi se questa vi sembra una domanda da fargli. E comunque non so come sia andata con il giornalista de Linkiesta, ma con uno come Agnelli davanti partire con una domanda sui Queen significa che o che sei disinformato o che sei stronzo e allora ti meriti la stronzaggine di chi stai intervistando. Se invece volete la mia sulla simpatia delle mezze-popstar di casa nostra, nella mia insignificante carriera ho raccolto qualche valore per farmi un’idea, e il mio verdetto è che no, in genere le mezze-popstar di casa nostra non sono molto simpatiche, con qualche eccezione. Tra i nomi più eccellenti di mezze-popstar con cui ho condiviso il palco ricordo comportamenti discutibili per esempio dei Tiromancino, dei Prozac+ e persino dei Verdena. Ma è tutta roba superata, chissà dove sarà oggi tutto quel mezzo-popstarsystem anni 90, ridotto come me alla mezza età. Io invece vi assicuro di essere molto simpatico, molto più della media, ma non faccio testo perché ho appeso i synth al chiodo in tempi insospettabili.

pazza idea

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Pierpaolo ha diciannove anni, è ancora in terza superiore e ha una passione sfrenata per Patty Pravo, cosa che non sarebbe un problema se non fosse il 1984 e fissarsi con certe celebrità così off è l’anticamera dell’emarginazione sociale, quando là fuori c’è gente che si dà persino ai Duran Duran pur di guadagnare briciole di popolarità. La sua, probabilmente, rientra più nei parametri dell’ossessione e, alla luce dell’esperienza di certe follie a danno di personaggi famosi che si manifesteranno più tardi, forse chi di dovere dovrebbe prendere provvedimenti. Ma i genitori di Pierpaolo sono già avanti con l’età, a loro preme più il lavoro e al limite il rendimento scolastico del ragazzo, che comunque è pessimo, e per il resto può fare quel che vuole. I suoi scaffali così traboccano di riviste e giornali con articoli e copertine dedicate alla ragazza del Piper lungo le diverse fasi della sua carriera, dagli esordi fino la presenza a Sanremo di quell’anno con un brano peraltro niente male, considerato il contesto. Pierpaolo mi invita a casa sua per dargli una mano negli studi. Lui, in cambio, mi passa gli esercizi che sa per certo compresi nel prossimo compito in classe di matematica. La seconda ossessione di Pierpaolo è infatti la prof di matematica, per la quale nutre un pericoloso sentimento paranoico. Come molti suoi coetanei Pierpaolo infatti interpreta i suoi voti bassi come ingiustificate prese di posizione personali negative nei suoi confronti che, elevate a potenza a proposito di matematica, secondo lui assumono le sembianze di vere e proprie vessazioni. Per questo ha adottato una tattica che ha dell’incredibile. Pierpaolo è riuscito a raccogliere e organizzare lo storico di anni e anni di prove date agli alunni in occasione delle verifiche scritte e ha costruito un vero e proprio algoritmo per calcolare la cadenza con cui la tali esercizi vengono riproposti in classe. Un criterio che tiene segreto, probabilmente per non dare adito a sospetti di follia nei compagni, ma io gli ispiro fiducia e così ha deciso di condividere con me la preparazione al prossimo compito secondo la sua strategia. La cosa poi funziona ma con esiti diversi, perché Pierpaolo riesce a sbagliare i calcoli persino quando deve solo copiarli. Io invece faccio tesoro dell’aiuto, porto al massimo la mia media e, allo stesso tempo, ho l’opportunità di dare un’occhiata ad alcune foto altrimenti non accessibili in cui Patty Pravo è poco vestita, comunque è un belvedere. Peccato che Pierpaolo poi non abbia messo a frutto questa sua passione, molto più profonda rispetto a quella per algebra e geometria, creando uno spazio su Internet fortemente verticale dedicato alla cantante e interprete. Non so se avete letto della tribute band dei Pooh a cui il gruppo ha regalato un vero e proprio magazzino di materiale e costumi da palcoscenico come riconoscimento della loro fedeltà. Chissà come sarebbe andata a Pierpaolo, con un blog su Patty Pravo.

i cantautori spiegati ai millennials

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Secondo i ricercatori del Centro Internazionale di Musicologia Applicata di Rotterdam tra qualche secolo il mondo sarà una gigantesca e totale camera anecoica in cui il genere umano si rifugerà per cercare il massimo silenzio dopo secoli di strumenti acustici prima – ed elettrici e elettronici in seguito – percossi, pizzicati e insufflati con l’obiettivo di produrre volontariamente suoni appaganti. Il che, poche parole, significa la ricerca del silenzio totale. Ammesso che crediate a quello che scrivo e che la ragione stia dalla parte di noi che amiamo la musica a tal punto da aver passato l’adolescenza conciati come i Cure, c’è un modo per guidare a ritroso un’intera specie animale verso l’autoconservazione onde evitare questo aberrante suicidio culturale collettivo? Come si può salvare l’uomo dal mal d’orecchie congenito causato dall’uso contronatura della forma canzone?

Lo studio portato a termine dal team di accademici olandesi ha previsto anche una serie di sperimentazioni su un focus group tutto italiano composto da under 18 con il quale è stato condotto un dibattito a seguito dell’ascolto collettivo dell’ellepi “Sotto il segno dei pesci” di Antonello Venditti, uno degli esponenti di punta della stagione cantautorale locale sviluppatasi verso la fine del ventesimo secolo. Le giovani cavie sono state propedeuticamente introdotte al background da cui sono nate esperienze artistiche di quel tipo e alla necessità di unire una componente orale melodicamente complementare al substrato armonico prodotto da strumenti suonati contemporaneamente, secondo regole accettate dagli strumentisti e principi in linea con la percezione dovuta a un comune universo sonoro collettivo (frutto di abitudini di ascolto e di studio stesso della musica diffuse e regolamentate). Il dato più significativo emerso però risulta dalla difficoltà dei ragazzi coinvolti nella ricerca di cogliere il senso compiuto del testo inteso come successione di parole volte a trasmettere concetti, emozioni, figure e significati tout court. Ho letto così questa notizia a mia moglie e ci è venuta voglia di ripetere l’esperimento, malgrado certe cose che fanno nei laboratori è meglio non riprodurle poi a casa, lo dicono spesso quando le fanno vedere alla tv e c’è persino un frase di avvertimento standard che si mette all’inizio dei video che, però, così sui due piedi mi sfugge. Ci siamo però fermati alla prima facciata del disco e anzi, dopo la titletrack e quando dice “Ed il rock passava lento sulle nostre discussioni, 18 anni son pochi per promettersi il futuro” perché l’emozione, oggettivamente, era troppo forte, come se qualcuno ci avesse rivelato una verità di cui ormai c’eravamo dimenticati anche se si tratta solo di Venditti che, davvero, sappiamo tutti la fine che ha fatto.

alla festa di compleanno di Robert Smith

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Lo scorso 21 aprile Robert Smith ha compiuto 58 anni e il mio consiglio è di non chiedergli come ci senta a un passo dai sessanta, considerato che alla soglia dei trenta era già preoccupato di diventare vecchio e, forte anzi debole di questo spirito, ha prodotto “Disintegration”, uno degli album più belli della storia dei The Cure. Lo so, più belli è una definizione puramente soggettiva, diciamo allora più famosi e più venduti. Secondo me è uno dei migliori e non mi metterò certo a fare una classifica perché, a parte gli ultimi che ho ingiustamente snobbato, non mi stuferò mai di ascoltarli finché i solchi dei loro vinili non si consumeranno, e quando si consumeranno continuerò a consumare gli mp3. Non tocchiamo infatti il tasto dei cd, perché tornerei indietro nel tempo solo per comprare “Wish” su vinile. Lasciatemi da solo a riflettere su questo dolore privato, grazie.

A Robert Smith possiamo anche ricondurre il miglior film dedicato a una star della musica. Lasciate perdere i film sui Doors, su Kurt Cobain e persino su Ian Curtis. Volete mettere tutta questa agiografia superficiale e sensazionalistica con “This must be the place”? Chi l’ha detto che una biografia debba essere per forza una biografia basata su dati e informazioni comprovate?

Robert Smith con i suoi The Cure rientra nella triade del mio olimpo musicale insieme a David Bowie e ai Genesis rigorosamente con Peter Gabriel, per questo mi permetto di parlarne in questi termini. Mi accompagna fedelmente dai tempi di “Pornography” (prima nemmeno lo conoscevo, che i fan della primissima ora mi perdonino) ma poi, come tutti voi, mi sono spinto a ritroso fino alla loro preistoria. Posso senza problemi identificare le pietre miliari della mia vita con alcuni dei loro album più blasonati, e mi riferisco a “The head on the door” e i sopracitati “Wish” e “Disintegration”, per il resto anche durante periodi di ascolti per certi aspetti agli antipodi mi sono sempre tenuto una fiammella accesa dentro pronta a ravvivare un incendio di emozioni nei momenti che me lo hanno permesso proprio con le loro canzoni. Il timbro di Robert Smith è inconfondibile e beato chi lo può ascoltare a cena a chiacchierare del più e del meno, al telefono per vendergli polizze assicurative, sul lettino nel corso delle sedute di analisi, ammesso che ne abbia bisogno, o tra i banchi scuola. La sua maestra avrà apprezzato la voce del futuro leader dei The Cure? Noi al massimo possiamo arrivare agli esordi delle sue demo, un Robert Smith più o meno post-adolescente ancora prima che post-punk, a cantare canzoncine come questa qui.

discowrong

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Del grande professionista del piccolo schermo Gianni Boncompagni ricorderemo soprattutto l’aver tradotto “Ça plane pour moi” con “questo aeroplano è per me” #purtroppoèlarai

Collin Gabriels, “Il cammino è chiaro”, ed. Charismatic

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Arthur ha cinquant’anni – che combinazione, io li compirò tra meno di un mese – e le dita arrugginite. Anni di studio e di pratica del pianoforte e degli strumenti a tastiera per poi sprecare un innato talento per l’indipendenza degli arti superiore su di un pc senza emettere alcun suono, peraltro, se non quello della delusione che accompagna ogni input di un data-entry qualunque. Arthur ha due grandi passioni. La prima sono i Genesis al completo, nel senso di quelli veri con Peter Gabriel e Steve Hackett, la seconda non è ancora comparsa sulla scena e ve la dico dopo anche se si chiama Rebecca.

Arthur ha studiato molto la musica classica da ragazzino e il rock progressivo dei Genesis con tutti i suoi rimandi alle sonorità colte è stato, oltre a un valido trait d’union tra i due mondi, l’unico espediente per convincere i suoi genitori e il suo insegnante di piano che il genere di cui si era invaghito non era certo il rock di certi ciarlatani capelloni drogati. Anzi, i pezzi dei Genesis sono così complessi che nemmeno uno con una buona tecnica pianistica come la sua e malgrado le ore di esercizio che spende ogni giorno per prepararsi agli esami del conservatorio è in grado di saperli riprodurre. L’informatica musicale non è ancora stata inventata, o almeno quella consumer, e non essendo disponibili gli spartiti delle parti delle canzoni l’unico modo è munirsi di cassetta, mangianastri, tanto orecchio e tanta pazienza per riuscire a impararli.

Firth of Fifth, poi, è la sua bestia nera. Ci prova e ci riprova in diverse fasi del suo percorso di studi, sperando che esercitarsi su Mozart, su Bach, su Chopin e su Beethoven gli permetta di carpire i segreti dell’intro di piano di Tony Banks ma senza successo. E il peggio subentra quando, ormai adolescente, inizia a bazzicare gli ambienti dei musicisti pop e rock locali e scopre che ci sono altri meno titolati di lui che, anche solo sfruttando un orecchio molto sviluppato, ci sono riusciti. Li sente riprodurre Firth of Fifth con una precisione che lo manda in bestia.

Ma non è questa la delusione che, con il tempo, lo induce ad allontanarsi dalla musica suonata. Intraprende altre strade che lo portano in altri settori professionali tanto che ritroviamo Arthur oramai più che adulto nel secondo capitolo della storia. Siamo abbondantemente nella seconda decade del nuovo secolo in un mondo dominato dalla rete e dai social media. Arthur ha appeso le tastiere al chiodo, per così dire, ma non si è mai stancato dei suoi ascolti, soprattutto grazie a quella miniera di contenuti video e audio che è Youtube. Setaccia i canali dedicati ai suoi gruppi preferiti, i Genesis in primis, fino a quando tra i contenuti suggeriti un algoritmo beffardo inizia a proporgli clip di cover band, tribute band, solisti, tutorial e quant’altro con gente che ripropone i brani di Collins e compagni.

Così viene a scoprire decine, centinaia, migliaia di emuli di Tony Banks che ripropongono in versioni impeccabili proprio l’intro di piano di Firth of Fifth. Ecco così che la frustrazione fino ad allora sopita riemerge e assume le sembianze della follia. Arthur vuole ancora una chance malgrado gli unici tasti che percuota siano quelli di un portatile Lenovo. Così inizia a documentarsi su tutti quei virtuosi della tastiera e da allora l’unico obiettivo che si pone è quello di sterminarli uno ad uno. Le polizie di tutto il mondo brancolano nel buio perché, almeno in apparenza, un motivo in grado di legare tutti quegli omicidi seriali non è così semplice da individuare.

La storia ha una svolta nel terzo e ultimo capitolo e non preoccupatevi, non ho intenzione di spoilerare il finale. Arthur si mette sulle tracce di Rebecca, una affascinante pianista che registra interpretazioni personalizzate dei brani dei Genesis in chiave gotica e in video struggenti. Arhtur riesce a conoscere Rebecca e lì, lungo alcune esecuzioni a quattro mani dei brani di “Selling England by the pound” nasce un amore da togliere il fiato a tutti, persino a Peter Gabriel se si unisse alle jam sessions tra i due. Non so ancora come vada a finire la storia. Arthur comunque ha lasciato dietro di sé una scia di sangue troppo ingombrante, e anche se Rebecca è disposta al perdono la giustizia deve fare il suo corso, lungo un fiume in costante cambiamento.

musica sopra, musica sotto, musica in mezzo

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La storia che gli alieni un giorno si manifesteranno sotto forma di onda sonora non me la sono inventata io, ma prima o poi potrebbe dare i frutti anche su queste pagine se solo io fossi uno scrittore di fantascienza o perlomeno un autore versatile, ma sapete che mi occupo di ben altro. Dall’ultima edizione del Festival di Sanremo, per dire, i casi di gente ricoverata che andava canticchiando l’aria di “lezioni di Nirvana da Buddha in fila indiana” (che io capivo “lezioni di Nirvana la mucca in fila indiana”) dentro e fuori della propria testa fino a impazzire sono cresciuti a dismisura. Io mi immagino la nostra mente con una porta in un lato che dà su una stanza insonorizzata, avete presente quando siete fuori dai club e dall’ingresso si sente solo un tu-nz tu-nz sommesso grazie ai potenti mezzi di isolamento acustico? Ecco, una cosa simile nel nostro cervello, dove vanno a finire tutte le cose che sentiamo che sono state composte intelligentemente con i dovuti criteri armonico-ritmico-melodici per non cavarceli più da dentro.

Le ascoltiamo, ci contagiano con la loro facilità a insinuarsi nei nostri processi intellettivi, quindi solo apparentemente ce ne liberiamo. Sono canzoni chimiche che permeano questa stanzetta e suonano senza soluzione di continuità solo che non le sentiamo fino a quando per qualche motivo – vuoi la debolezza, vuoi perché le sogniamo, vuoi la distrazione – la porta si spalanca e intossicano l’ambiente con i loro miasmi sonori, e io li definisco volutamente in modo spregiativo perché non è giusto che qualcuno o qualcosa scelga per noi che cosa possa andare in onda nella nostra testa, che cosa canticchiare per strada o sotto la doccia o quando siamo sovrappensiero.

Qualche giorno fa ho scritto di una canzone che trovo essere la più efficace esemplificazione musicale della tristezza. “Modena” di Venditti ma come “Venezia” di Guccini o “Quando la morte avrà” di Claudio Lolli, tanto per rimanere sui cantautori italiani, sono veri e propri monumenti alla depressione, così plateali ed evidenti che non serve nemmeno nominarli. Sono canzoni che sono sempre lì pronte a tornare in auge se occorre, con una loro identità, parole che hanno un significato, un insieme degno della sigla iniziale o finale di un film drammatico da premio oscar. Ma, a proposito di cinema o tv, film, telefilm e cartoni animati non sono solo questo, se parliamo di musica.

C’è tutto il commento sonoro durante le immagini e a corollario dei dialoghi che serve a dare man forte alla regia e agli attori per cogliere nel segno e dare vita alla sensazione che si vuole suscitare negli spettatori. A volte non ce ne accorgiamo perché la colonna sonora in certi punti è talmente negli interstizi di quello che vediamo che magari lì per lì non ce ne rendiamo conto ma poi, come un messaggio subliminale qualunque, anche tali composizioni finiscono in quella stanza maledetta di cui parlavo prima e la frittata è fatta. Il guaio è che poi quando ti si ripropongono può essere che non sai nemmeno da dove vengano. Poi ci arrivi e pensi a quanto sia stato bravo, chi le ha scelte o composte, a sceglierle o a comporle proprio per quel determinato momento del film.

C’è un brano strumentale che ormai convive con me da più di quarant’anni e che me lo ritrovo sempre a tutto volume ogni volta che mi sento un po’ giù, come se da qualche parte nel mio subconscio ci fosse un sound designer che lo fa partire proprio per sottolineare la fase di sconforto. Subito non me ne rendo conto, poi siccome sono uno del mestiere me ne accorgo, così mi fermo e lascio che questa riproduzione interna a me vada avanti fino alla fine perché, in fondo, è una bella musica. Lascio che si esaurisca fino all’ultima nota e penso che è davvero una fortuna associare i propri dispiaceri alla musica che, nel cartone animato di Heidi, sottolineava i passaggi più tristi come lo sgomento per la vita a Francoforte o certe delusioni proprie dell’infanzia di una orfanella. È una fortuna soprattutto perché la cosa mi fa ridere e così la tristezza, almeno un po’, mi passa.

quanto sei triste in una scala che va da uno a Modena di Antonello Venditti?

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Se chiudete gli occhi e immaginate fortissimamente che il Venditti che si vede e si sente in giro almeno da “Dimmelo tu cos’è” non sia mai esistito possiamo ricordarcelo com’era: sufficientemente impegnato, molto campanilistico, parzialmente smielato, decisamente di successo e comunque innegabile colonna sonora degli anni 70. Non conosco nessuno a cui non piacesse e noi ragazzini le sue canzoni le sapevamo a memoria, soprattutto quelle di quei due o tre album cruciali lì, e mi riferisco a “Lilly”, “Ullallà”, soprattutto “Sotto il segno dei pesci” e soprattuttissimo “Buona domenica” con quella copertina alla “Fruit of the loom” che ognuno ce l’aveva di colore diverso. La mia copia è rosso bordeaux e contiene una manciata di pezzi discretamente degni di nota e perdonate se non mi scompongo più di tanto, perché ripensare al Venditti di allora con il Venditti di oggi ti viene voglia di non non fargli passare nulla. Comunque pezzi tristi come i suoi ce ne sono pochi, al mondo, e questo dobbiamo concederglielo. Al primo posto di questa classifica intrisa di malinconia c’è questo resoconto di una drammatica crisi del grande amore che fu di tutti noi, il Partito Comunista Italiano. Il timbro strappalacrime di Venditti fa a gara con quello lancinante del sax di Gato Barbieri e, ancora oggi, ci fa scoprire le nostre facce idiote allo specchio, mentre ascoltiamo commossi “Modena” di nascosto, cercando di non farci scoprire da nessuno.

il futuro non è scritto perché se lo fosse ne leggeremmo solo il titolo

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In questo intervento-marchettone a un evento Konica Minolta tenutosi a fine marzo a Berlino, Douglas Coupland ha parlato della sua specialità, e cioè tecnologia in salsa di futuro, dicendo che fino a poco tempo fa il futuro era qualcosa che avevamo davanti e che abbiamo anticipato e anche temuto. Poi da qualche parte la linea del presente si è fusa con il futuro tanto che oggi stiamo vivendo all’interno del futuro, 24 ore al giorno per sette giorni su sette, quello che l’autore di JPod chiama il super-futuro.

La cosa sconcertante di questo che invece altri hanno chiamato “l’eterno presente che capire non sai”, il cui terreno di gioco è principalmente digitale, è che c’è troppo contenuto e non abbastanza persone che lo leggano. Un aspetto che ha dell’incredibile: nel super-futuro la presunzione di essere persone interessanti è a pieno regime ma è il contesto a essere illusorio. L’era digitale è una truffa fatta e finita, siamo gente da quattro soldi tanto quanto le comparse del Pinocchio di Comencini. L’hanno trasmesso qualche giorno fa su uno dei canali culturali di punta della RAI, quei pochi che ti rendono orgogliosi di pagare il canone, e l’universo immaginifico di quel grande regista rimane imbattuto in quanto a futuribilità al contrario, passatemi il termine. Se ai tempi in cui è vissuto il più celebre burattino animato di legno ci fosse stata la tv e i telegiornali probabilmente oggi youtube sarebbe piena di scorci di poveracci, gente vestita con stracci, contadini affamati, operai costretti a condizioni sub-umane, tanta ignoranza e cose così. La nostra miseria umana emerge soprattutto da quanto mettiamo in secondo piano le parole rispetto alla loro rappresentazione in immagine. In questo l’informatica fa da padrona. La tendenza a condividere testo reso immagine sui social è un’efficace metafora dei nostri tempi. Non ci prendiamo nemmeno la briga di esercitare il nostro diritto al copia-incolla sui post con sfondo colorato di Facebook, che oggi spopolano tra i creativi fai da te.

Ma il mio pessimismo cyber-cosmico ha avuto un ripensamento ieri sera. Guidavo e non so su quale stazione radio hanno messo “Il parco della luna” che è un pezzo di Lucio Dalla compreso in quell’album parzialmente omonimo che ad oggi è una delle cose più belle musicali mai realizzate nel nostro paese. Cose che non hanno eguali all’estero e non bisogna per forza essere fan di Dalla per ammettere certe superiorità. Nel super-futuro di Coupland non c’è tempo per leggere tutto. Ci si ferma ai titoli e, nella musica, ci si ferma ai tempi dei radio-edit, al ritmo, ai synth che ti proiettano negli anni 80 quando i cantautori come Dalla erano in crisi, a come suonano le parole ma al loro significato sembra non pensarci più nessuno. Non si spiegherebbero certi successi degli anni dieci, non si spiegherebbe Occidentali’s Karma e tante altre cose. Comunque, per farla breve, guidavo e non so su quale stazione radio hanno messo “Il parco della luna”. Avevo tempo, questo devo ammetterlo, avevo tempo come il genere umano poteva avere tempo prima dell’invenzione dell’Internet, e mi sono soffermato ad ascoltare la storia di Sonni Boi e della sua donna Fortuna. Così mi sono chiesto se valga veramente la pena che le cose cambino, che il genere umano si evolva o involva, e perché Lucio Dalla non sia più con noi a raccontarci storie che sono belle a partire dal titolo che, anzi, ti fanno venire voglia di sapere come vanno a finire, ti fanno venire voglia di sapere cosa c’è tra Ferrara e la luna.

il figlio del grunge oggi compie ventidue anni

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Non ho sbagliato nessun calcolo. La numerologia del rock venera principalmente il ventisette non in quanto giornata di stipendio perché, si sa, con il rock non ci si campa, ma perché la storia recente è zeppa di cantanti defunti a quell’età. Se volete però fare un terno sulla ruota di Seattle giocatelo insieme al cinque e al quattro, intesi come cinque di aprile. Il cinque aprile è la data da mettere sulla lapide del grunge perché a quasi un decennio di distanza è stato il giorno della morte sia di Kurt Cobain, e questo lo sappiamo tutti, ma anche di Layne Staley degli Alice in Chains. Se volete controllare anche quando è stato il momento di dire addio a Scott Weiland degli Stone Temple Pilots vi dico subito che siamo sotto ben altro segno zodiacale, forse perché è di San Diego e, si sa, la California è molto più a sud. Del cantante dei Nirvana ce lo aspettavamo prima o poi, abituati alla sua follia e memori del suo precedente tentativo. Di Layne Staley non saprei invece che dire se non che l’ho visto sul palco di un concerto indimenticabile con gli Screaming Trees, in cui ci sembrava davvero finalmente di essere nel posto giusto al momento giusto, se non fosse che anagraficamente eravamo già datati per quel tipo di cose, probabilmente già allora ero il più vecchio del locale ma avevo abbastanza esperienza per constatare il suo carisma e il suo timbro di voce che si intrecciava perfettamente con quello del chitarrista Jerry Cantrell. Non potete però ricordare Silvano che era praticamente il sosia di Layne Staley e quanto siamo rimasti sorpresi quando siamo venuti a sapere che aveva combinato un guaio con una ragazza minorenne come lui, conosciuta e amata una sera in gita scolastica. Trovarsi padre prima di terminare il liceo dev’essere stata un’esperienza significativa e la scelta comune di tenere il bambino, avulsa da qualunque giudizio etico o che altro per non aver preso provvedimenti drastici quanto sacrosanti, aveva messo Silvano sotto una luce ancora più forte di quella che illuminava Layne Staley sul palco dell’Alcatraz, addirittura su un palco più in alto da cui gettarsi sulla folla di ragazzi infinitamente meno coraggiosi di lui.