vi siete mai chiesti perché Steven Spielberg non ha pensato a un chitarrista per dialogare con gli alieni?

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Ieri sera su RAI4 si è celebrata per l’ennesima volta la superiorità dei tastieristi su tutto il resto dei musicisti del mondo mondiale, se non dell’universo, con la messa in onda della replica di “Incontri ravvicinati del terzo tipo”. Se non l’avete visto vi rinfresco la memoria su alcuni passaggi. Intanto non dovete fermarvi alla prima banale interpretazione del film, un melenso volemosebbene della gente di fronte all’invasione dei marziani tanto che persino organismi tradizionalmente ostili al cittadino come CIA e FBI e Marines da un certo punto in poi stanno dalla parte della popolazione ormai in sollucchero per la visita. La dicotomia tra la confusione nella vita e nell’appartamento di Richard Dreyfuss versus l’appagamento trascendentale dell’ignoto sia escatologico che personale con la bionda single madre del bambino che scappa sull’astronave, un comportamento per certi aspetti precursore del grillismo. La simbologia della silhouette della montagna come reminiscenza biblica della manifestazione divina. L’ingenuità e la curiosità infantile come metodo empirico efficace per la scoperta scientifica. Tutte balle.

Il vero significato della pellicola è che Steven Spielberg ha voluto dimostrare che un giorno i tastieristi domineranno il mondo perché saranno gli unici a conoscere il linguaggio degli dei o degli extraterrestri o di chiunque giungerà su questa nostra terra tanto bistrattata e l’unico modo di comunicare sarà con un synth. E poi che synth: come dice Mauro Sabbione, il vero artefice della svolta new wave dei Matia Bazar, “il dialogo musicale con gli alieni avviene tramite un ALPHA SYNTAURI. Nel film venne usato fisicamente un organo Yamaha per convenienza con gli sponsor, ma il software di gestione è proprio della Mountain Computer, che ha progettato l’Alpha Syntauri nato nel 1976 come programma per non udenti, ed era a fianco della Apple di Jobs nella Silicon Valley. Il sistema, infatti utilizzava un Apple II Europlus di ben 48k di memoria, che allora costava una fortuna, circa 5 milioni di lire.”

Vedete? I tastieristi sono sempre stati avanti. I tastieristi sono spaziali e il loro linguaggio è universale. Se non ci credete proviamo a procedere per assurdo. Se a dialogare con gli alieni Steven Spielberg avesse messo un chitarrista, il chitarrista – dopo un’ora per allestire tutti quei pedali che non si capisce mai a cosa servano visto che poi il suono esce comunque sempre distorto e altrettanto di sound check per evitare fischi e larsen, considerando quel popò di amplificazione – avrebbe suonato al massimo un riff di merda tipo “Smoke on the water” e gli alieni, di fronte a un pianeta metallaro e tamarro, avrebbero messo la retro e sarebbero di certo tornati a casa loro senza pensarci due volte e tutti i loro ostaggi raccolti durante le incursioni delle astronavi nella nostra storia avrebbero preferito rimanere in un luogo incontaminato da capelloni di vario genere. Vi dirò di più. “Incontri ravvicinati del terzo tipo” è del 1977 e risale probabilmente a un’epoca dominata dai sintetizzatori analogici, ovvero l’elettronica plasmata dall’estro umano poi depauperata dall’avvento della digitalizzazione e dei campionamenti. Ecco: non c’è nulla di più futuribile e di più fantascientifico di un muro di suono emesso da un synth, questa è la morale del film. I tastieristi, secondo Spielberg, avrebbero potuto salvare il mondo e possono farlo ancora adesso, sempre che non finiscano assoggettati da uno di quei gruppi prog-metal che anzi, si meritano un meteorite sulla sala prove e tanti saluti.

sto pensando a una nuova stagione di Quantum Leap in cui Sam Beckett torna indietro nel tempo solo per impedire che certe canzoni brutte vengano composte

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Nel primo episodio della terza serie del telefilm “Quantum Leap” lo scenziato Sam Beckett in uno dei suoi più riusciti viaggi nel tempo riesce a convincere la sorellina del ragazzo che impersona temporaneamente di venire dal futuro eseguendo una struggente versione di “Imagine” di John Lennon chitarra e voce. La ragazzina ovviamente scoppia in lacrime perché capisce ma vorrebbe non aver capito perché avere qualcuno davanti che viene da un altro tempo non ti mette proprio a tuo agio (se volete vederlo l’episodio lo trovate qui).

Si tratta di un superpotere a cui penso spesso sia per poter comporre hit di successo già famose nel futuro e proporle nel passato e fare così i miliardi, ma anche per un effetto contrario, ovvero far qualcosa per spaventare a morte nel passato chi sta per comporre una canzone che sta per essere composta per diventare una hit di successo, in modo da farlo desistere e poi tornare nel futuro per godermi il presente senza quella canzone lì. Pensate a quanti tormentoni ci risparmieremmo. Che ne sarebbe stato dell’estate del 1979 se avessimo distratto con uno stratagemma qualsiasi Alan Sorrenti in procinto di scrivere “Tu sei l’unica donna per me”? Come sarebbe andata la storia della nostra canzonetta italiana se ogni volta in cui Lucio Battisti si fosse messo di buzzo buono per comporre qualcosa qualcuno di noi nei panni di un’avvenente fan, o di un venditore di enciclopedie, o nelle sembianze di un disturbatore della quiete pubblica lo avessimo interrotto? Ma pensate all’utilità che avrebbe una cosa simile al giorno d’oggi: immaginate a come si starebbe bene, nel 2017, senza “Despacito” o se a Francesco Gabbani qualcuno gli avesse dato da fare qualcos’altro e l’ispirazione per “Occidentali’s Karma” gli si fosse svanita nel nulla. Chiedo troppo? Magari poi a Francesco Gabbani gli sarebbe venuto fuori un brano diverso, oppure la stessa canzone vincitrice del Festival e incubo assoluto dei motivetti che ti rimangono in mente ma scritta in sette quarti. E se volete sapere come potrebbe rendere “Occidentali’s Karma” in sette quarti, ecco, l’ho fatto io in esclusiva per voi.

180 grammi, il peso dell’anima su vinile

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L’ultima traccia del lato B sfuma, il secco clic della puntina che batte sul solco più interno del disco, il braccio si solleva e rientra in posizione di fermo. Il piatto rallenta fino ad arrestarsi, nemmeno un giro dopo. La stanza ripiomba nel silenzio, le casse restano mute, l’immaginazione gioca con qualche rimasuglio di eco che non c’è, i rumori della strada riemergono dopo essersi messi da parte prima, nel rispetto del nostro ascolto. Questa più o meno è la vita, che come un long-playing ha due facce. Ci sono i primi due o tre brani con tutta la loro freschezza, una parte centrale che corrisponde alla massima intensità ma poi arrivi a metà e devi girare sull’altro lato per continuare e riprendere dal punto in cui ti sei interrotto, le ultime registrazioni fino alla traccia conclusiva che ti accompagna scemando fino agli ultimi battiti del cuore. I gruppi e i cantanti di un certo tipo scelgono come brano d’addio quello che somiglia di più a una richiesta di aiuto. Pensate a “Sinking” dei The Cure e a come chiude “The head on the door”. L’ingegno umano però è riuscito a prolungare il tempo e per certi versi a rovinare un po’ la questione con un accanimento terapeutico della vita media di un 33 giri. Le versioni su CD possono infatti contenere fino a ottanta minuti di musica, essere remastered o de-luxe. Si sono persino inventati le ghost track, le tracce nascoste. Lasci, anzi, lasciavi – oggi chi li compra più? – il CD nel lettore dopo l’ultima canzone pensando che si spegnesse automaticamente e invece, trascorsa una manciata di minuti, il tuo gruppo preferito faceva nuovamente capolino dal nulla mettendo a rischio l’incolumità dei più deboli di cuore. Proprio come il fantasma di un tuo caro che appare quando meno te lo aspetti e non sai se essere felice o sconvolto per la visita che non ha nulla di naturale. Una musica dall’oltretomba, un saluto estremo dopo i tempi regolamentari della durata stabilita nero su bianco e in minuti e secondi sul leaflet. Io a questi rimedi escatologici contro la paura della fine – e della morte – non ci credo, come non credo ai fantasmi e alle canzoni nascoste. Giocateci pure voi con le vostre trovate digitali. Io mi tengo stretti i miei cerchi a spirale e mi faccio guidare fino all’ultimo solco, e chi se ne importa dei granelli di polvere.

la musica, spiegata bene

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La musica è uno dei più incomprensibili misteri dell’umanità e forse è per questo che siamo in molti ad averci sbattuto la testa contro. La musica ci ha fatto innamorare e ci ha spezzato il cuore. Ci fa vivere e ci fa morire. Chissà se la musica è un elemento comune a ogni essere vivente. Tutti producono suoni, ma forse chi li ha regolamentati secondo armonie, melodie e ritmo siamo stati solo noi, il genere umano che vive sul pianeta terra, in tutto l’universo. Il che non significa che il nostro metodo sia quello giusto, cerchiamo di mantenere la calma e i piedi per terra. Forse sul pianeta Zxsxzyyz le entità autoctone esprimono la loro insoddisfazione non con il post-punk ma con il Xzxzxssxzxz, che è un wzxzxzx che si ottiene emettendo dei fgfgfgfg attraverso dei khxkhxkhxkh. Avete capito cosa intendo, spero.

Limitiamoci così a quello che conosciamo, ai canoni di suono a cui siamo abituati e che abbiamo imparato sin da quando occupavamo il ventre di nostra madre improvvisando chissà quali hit, cercando di andare a tempo con il suo cuore. Già lì c’era chi si vedeva se era portato o meno e infatti, ci avrete fatto caso chissà quante volte, la musica non è mica per tutti e persino ogni musicista la vive a suo modo. C’è chi si fa condurre dallo strumento che suona. Chi lo ha in pugno con una tecnica eccelsa e sa tradurre tutto in musica ma, in realtà, non dice nulla. Chi anche suonando due note una di seguito all’altra produce sequenze che riflettono perfettamente quello che ha dentro ed è come se parlasse e tu, che non ci riesci perché ti bombardi di sovrastrutture, non capisci dove sta la magia. Chi segue degli schemi come i bambini che copiano i disegni dai modelli quadrettati per imparare la scala (non quella musicale, eh, qui siamo in piena metafora) e chi a mano libera riproduce i capolavori dei maestri. Chi interpreta la realtà e chi se la inventa, chi è perfetto per lo strumento che ha scelto e chi lo strumento che ha scelto gli sta stretto o largo.

Io che cerco pericolosamente di attraversare con le ruote dell’auto le giunte sui cavalcavia in modo da farlo a tempo, che ogni volta in cui suona il segnale in ascensore composto da tre note il cui intervallo le rende simili all’incipit del tema di “Jesus Christ Superstar” mi viene sempre da continuarlo fischiettando e mia figlia mi odia per questo, che sbatto il filtro della caffettiera contro il bidone della spazzatura per svuotarlo riproducendo l’inizio di “No no no you don’t know me” di Dawn Penn, che in macchina armonizzo qualunque cosa esca dall’autoradio compromettendo il mio matrimonio ogni volta, che faccio le scale in salita da quando ho sette anni canticchiando mentalmente lo stesso studio per pianoforte imparato appunto a sette anni, che scelgo le amicizie in base ai gruppi che ascoltano, che appena vedo una tastiera non resisto dal suonare almeno una volta il tema di “So what?”, nemmeno io che tutto sommato sono uno che se ne capisce, il mistero della musica non lo saprei spiegare. So solo che a un certo punto ho venduto tutta la strumentazione che avevo come atto di crudeltà verso me stesso, perché non ero soddisfatto di quello che facevo, non vedevo sbocchi e nemmeno possibilità di miglioramento. D’altronde la musica è un’arte di cui una delle opere più conosciute al mondo e forse anche nell’universo, anche tra quelli che fanno fgfgfgfg attraverso dei khxkhxkhxkh, dice nel ritornello che non c’è verso di ottenere soddisfazione. Un motivo (anche questo è un gioco di parole che spero cogliate) ci sarà.

condividi se anche tu sei sconcertato

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È salito a tre il numero dei concerti a cui quest’estate non parteciperò, o meglio quelli a cui parteciperei se non avessi deciso che per un po’ ai concerti non ci voglio più andare e vi assicuro che è una decisione che ho preso prima del Bataclan e di Manchester. Si tratta dei concerti degli Interpol al Carroponte di Sesto San Giovanni, dei Foals al Magnolia e degli Algiers alla Santeria. Non è un problema di età che mi è venuto superati i cinquanta e non è nemmeno un problema di soldi anche se, come abbiamo avuto modo più volte di discuterne, gli spettacoli live sono tutt’altro che convenienti. Qualcuno a cui ho confidato questa scelta mi ha fatto capire tra le righe che la musica di questi tre gruppi è comunque perdibilissima altrimenti, conoscendo me, avrei fatto di tutto per assicurarmi un biglietto, ma onestamente posso confermare che non è vero. In giro ci sono anche The Cure e i Depeche Mode, per dire, a cui oggettivamente sono più affezionato che agli altri, e anche se i biglietti per gli eventi in questione sono ai limiti della follia e malgrado ciò vanno più a ruba di tutti, sappiate che non ho mosso un dito per arrivare prima degli altri al clic decisivo all’acquisto.

Non ho più voglia di concerti, di musica dal vivo, di calca, di decibel sparati a manetta, di spettatori davanti che passano il tempo a fare foto e video, di spettatori dietro che passano il tempo a parlare, di spettatori di lato che ballano fuori tempo, di spettatori all’altro lato che – beati loro – passano il tempo a limonare. Non ho voglia di sudare, di scalpitare da seduto per la voglia di andare sotto il palco con la paura di perdere il posto, di penare in piedi perché non ci sono posti a sedere e voglio fare una pausa, di sentire quelli che cantano ma si inventano le parole, di non poter cantare le canzoni che non conosco per lo stesso motivo e di invidiare quelli che le sanno. Ma non ho nemmeno più voglia di non poter andare ore prima a godermi l’atmosfera pre-concerto perché non posso uscire prima dall’ufficio e di andare in ufficio in coma il giorno dopo per esser tornato tardi ma tutto questo, forse, mi costringe ad ammettere che, a differenza di quanto ho sostenuto prima, è un problema di età che mi è venuto superati i cinquanta. La società mi vorrebbe seduto nei teatri con il farfallino ad annuire durante i passaggi più emozionanti di qualche opera classica o, al massimo, in uno di quei club di jazz mainstream a battere il piede sinistro sul due e sul quattro di qualche standard eseguito da una vecchia cariatide (come me) al sax. Così, alla fine, non potendo e non volendo fare nulla di tutto questo me ne sto volentieri a casa a fare i bilanci sui pro e sui contro e, al limite, a scriverli qui. Anzi, mandatemi qualche selfie, se ci andate.

rimanere senza voce

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Il video di “Black Hole Sun” dei Soundgarden, che in questi giorni di lutto per la prematura scomparsa di Chris Cornell avrete visto un po’ ovunque, è di forte impatto per noi europei perché offre una sintesi di quella parte degli USA che poi ritroviamo in certi film indipendenti (quelli di Todd Solondz, tanto per fare un esempio; a proposito, se avete Netflix vi consiglio la visione del suo Wiener Dog) o in qualche autore statunitense di racconti per cui io vado matto e che vorrei tanto emulare nello stile. Non mi ha sorpreso quindi vederne l’intelligente versione di Blob su RaiTre di qualche sera fa (lo trovate qui su Rai Replay qualora ve lo foste perso): un mix del solito squallore televisivo italiano con il sottofondo della hit tratta da Superunknown ma in versione strumentale ed è da questo che sono rimasto invece meravigliato. Io ero rimasto alle basi MIDI fatte con i programmini che fanno le veci di chitarra e batteria con suoni artificiali, invece “Black Hole Sun” senza traccia vocale è tale e quale all’originale senza il cantato, del resto Chris Cornell ci ha appena lasciato e il messaggio, come vedete, mi è arrivato. Ma l’Internet che è dalla parte di noi curiosi che ne facciamo buon uso ha dato la risposta a questo dilemma: esiste una versione di “Black Hole Sun” senza voce disponibile su “Guitar Hero VI” e che trovate qui. Probabilmente non è una novità ma perdonatemi, non ci ho mai giocato e non ho idea di come possano essere le basi. Anzi, dalla qualità mi viene il dubbio che chi lo ha inventato e commercializzato ha stretto un accordo con artisti e case discografiche per avere versioni strumentali dei pezzi utilizzati, qualcuno in sala può confermarmi questa cosa? Se è così si palesa uno dei miei più spaventosi incubi che è accendere lo stereo, mettere la mia canzone preferita e accorgersi che qualcuno o qualcosa ha fatto sparire una traccia. La voce ma anche la batteria o il basso o le tastiere. Un fenomeno sovrannaturale che ai tempi dei canali stereo delle origini in cui si mettevano alcuni strumenti da una parte e altri dall’altra poteva anche essere plausibile. Ti saltava una delle due casse o qualcuno ti faceva lo scherzo mettendoti la manopola del balance tutta da una parte. Uno scherzo del menga, lasciatemi dire. E oggi, se la tecnica si fosse fermata al jazz o anche ai Beatles delle origini, potrebbe essere un problema comunissimo: non avete idea di quanti auricolari e cuffie, dai tempi del walkman Sony fino agli smartphone di oggi passando per gli ennemila lettori mp3 che si sono avvicendati nella mia vita, mi si sono guastati nel modo più antipatico per un amante dell’hi-fi come me, ovvero con uno dei due canali che smette di funzionare. Ma con le registrazioni di oggi fortunatamente se ascolti musica solo da una delle due parti te la cavi, tutto sommato, anche se in presenza di anomalie di questo tipo preferisco spegnere e aspettare il corriere di Amazon con gli auricolari nuovi.

grazie in anticipo della solidarietà

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Il messaggio dallo spazio parla chiaro: sei uno sfigato. Il sistema di decrittografia della NASA ci ha restituito un quadro impietoso di quello che siamo, e parlo al plurale per auspicare un po’ di cordoglio in voi, come si evince dal titolo lassù in alto. Intanto nessuno scrive più sui blog e un sottoinsieme di questa macro-categoria di sopravvissuti è proprietario di gatti che vomitano di prima mattina e, quando c’è qualcosa che non va nel loro rapporto con gli umani, pisciano nella scatola delle medicine appena la trovano aperta e/o gli cagano sul letto se il PH della sabbia tende lievemente all’acidità e solo perché una notte ci siamo dimenticati di pulire. Ma non è solo questo che ci dicono gli alieni. Non so voi mai io capto in continuazione vocine che mi dicono di lasciar perdere tutto e tutti e che, per compensare il senso di disperazione che ne deriva, ci sono cose di un altro pianeta – probabilmente il loro – da preservare. Una di queste ha compiuto vent’anni proprio ieri (lo dice pure Wikipedia) e note invisibili a margine ma che leggiamo solo noi che siamo in contatto con questa specie ultraterrena ci dicono che forse davvero è stato l’ultimo disco che ha cambiato qualcosa. Il modo di fare musica, di ascoltarla, di fruirne all’interno della propria vita. In un sistema che vede il primato delle playlist, “Ok Computer” come pochi altri (certi ellepi dei Pink Floyd, per esempio) necessita di un ascolto completo dall’inizio alla fine. Poi uno è libero di fare fa quel che vuole (e vi giuro che questa è una delle giustificazioni che più mi sono stufato di sentire), ne estrae piccole parti da sorseggiare qua e là, lo ri-miscela a proprio piacimento e ne fa pure delle cover versione reggae. Io me lo tengo così com’è nella sua versione in vinile, non comprerò l’edizione da più di cento euro celebrativa dell’anniversario perché non me lo posso permettere ma vi assicuro che se non avessi due gatti a cui badare, della razza di quelli che ogni tanto si vendicano attraverso i loro bisognini di cui parlavo prima, i soldi che risparmierei in cibo e lettiera li investirei così.

astenersi fuoritempo

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“Se non vuoi perdere tempo a spremere flaconi di crema dopobarba semivuoti perché il prodotto per ovvi motivi di fisica è tutto depositato sul fondo – certo non gliene possiamo fare una colpa – prova a riporlo capovolto nell’armadietto, la prossima volta, proprio come si sono inventati per il ketchup e la maionese e i loro tubetti da mettere in frigo a testa in giù”. Sento che il consiglio che Giorgio cerca di darci ispirato dalle salse che ci hanno portato al tavolo insieme agli hamburger un giorno dovrò scriverlo da qualche parte per vedere, fissato nero su bianco su un foglio o su un blog come questo, l’effetto che fa. La nuova fidanzata di Giorgio di chiama Perla e per noi è una novità che esista nel genere umano gente in grado di dare ai propri figli nomi così di merda. La mia fidanzata, per dire, si chiama Chiara ed è un nome bellissimo e facciamo cose sceme come entrare al supermercato, comprarci una tavoletta di cioccolato a testa, pagarla e poi consegnarcela reciprocamente con mille smancerie appena passata la cassa come se dovessimo farci un regalo. Entrambi la nascondiamo dietro la schiena, ci diciamo di chiudere gli occhi, poi ce le scambiamo dandoci un bacio e ogni volta ridiamo come se fosse la prima. Con una che si chiama Perla le cose invece potrebbero essere molto più complicate. Se ti chiami Perla e sei un cesso, per dire, non passi indenne tra compagni di classe e amici. E per me di Perla ce n’è una sola, si veste con l’ombelico scoperto, s’innamora di Kabir Bedi e non fa una bella fine. Potremmo essere molto più indulgenti con Giorgio e con e fidanzate che si sceglie se non avesse votato alle ultime politiche per Forza Italia. Nel 1994 se lo fai dopo tutto quello che è successo con mani pulite, Falcone e Borsellino se più che uno stronzo e non sarà certo una fidanzata con un nome così fuori dal mondo a renderti meno responsabile del decorso del nostro paese. Giorgio dice che ha scelto il partito di Berlusconi perché rappresenta il nuovo, come lui e come i nomi nuovi che si sceglie la gente a partire da Perla. Così dico a Max, che suona il basso con me e con Giorgio che invece è alla batteria, che dovremmo cacciarlo dalla band. Non suono con un fascista per principio e so che dovrebbe farlo anche lui. Anni dopo addirittura negli annunci che metterò sui siti per musicisti per cercare gente o gruppi con cui suonare scriverò “astenersi elettori di centrodestra” e intorno ai cinquant’anni ammetterò con amarezza che la maggior parte degli amici di palco e sala prove, come Max che nel 94 era un boss dell’ARCI e si suonava da comunisti insieme ma anche come Giorgio che Perla o non Perla non capiva un cazzo di politica, vota per i grillisti. Il binomio politica e musica non è solo Bella Ciao e il demago-rock dei Modena City Ramblers ma è un sistema di cose strano che richiede coerenza, forse perché la musica nel 1994 è ancora un aspetto che caratterizza fortemente, aggrega, ti fa vedere le cose da un punto di vista dal quale, se osservi bene, è impossibile non schierarsi. Giorgio alla batteria poi non è granché, accelera e non ha il senso delle canzoni che sta suonando. La musica è anche una questione di buon gusto, nessun musicista serio crederebbe a un inno di plastica come quello di Forza Italia e poi, di fronte a una che si presenta dicendo di chiamarsi Perla, gli scoppierebbe a ridere in faccia.

correre via da una gabbia arrugginita

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Ieri era l’anniversario della morte di Ian Curtis e non mi è venuto in mente fino a quando non ho saputo del suicidio di Chris Cornell. Anzi, nelle prime ore la causa del decesso non era ancora stata provata ma il modo non conta. La gente muore nelle maniere più disparate e le star del rock non sono immuni, questo lo sappiamo dai tempi dei Joy Division, di Bob Marley, dei The Sound e poi dall’esperienza della scomparsa di Bowie. La fama rende eterni nello spirito ma non preserva i nostri corpi, e gli individui conosciuti alle masse per un motivo o per l’altro – sport, musica, politica, scienza, cinema, cultura – sono a rischio come tutti. Ma se pensiamo a quello che è passato alla storia come il grunge c’è poco da stare allegri: Kurt Cobain, Layne Staley, Scott Weiland e ora l’inconfondibile voce dei Soundgarden. Una strage, insomma. Ma non sono né la data né la sfilza di frontman storici degli anni 90 che non sono più tra noi a farmi riflettere.

Ieri sera pensavo proprio a certi aspetti che mi hanno sempre attirato dei Soundgarden, a partire dal modo di interpretare l’hard rock con quella venatura dark-punk che avevano solo loro (riascoltatevi “Jesus Christ Pose” per comprendere a fondo a cosa mi riferisco) fino a quanto fosse carismatico Cornell. Avevo la tele accesa su non ricordo che film quando è partito uno spot, come di sovente accade nelle emittenti commerciali. Si trattava di una pubblicità della radio R101 che mi era capitato già di vedere e mi spiace non averla trovata in rete perché vorrei tanto mostrarla anche a voi. Nello spot in questione si sente una voce fuori campo, uno di quei bei vocioni da speaker da pubblicità, che presenta R101 come la radio dei più grandi artisti e cita in sequenza Robbie Williams, Beyoncé, Rag’n’Bone Man e qualcun altro, forse l’immancabile Bruno Mars o i prolifici Coldplay ma potrei sbagliarmi.

Non so spiegare bene il motivo per cui questa pubblicità mi ha colpito. Ho riflettuto sul target, ho pensato a chi potesse rivolgersi. Se accendete la radio su qualunque stazione lungo la gamma delle frequenze, nel giro di qualche minuto state pur certi che Robbie Williams, Beyoncé, Rag’n’Bone Man, Bruno Mars e i prolifici Coldplay li sentirete tutti. Quindi l’obiettivo di R101 è quello di rassicurare gli ascoltatori: “state tranquilli”, sembra essere il senso. “Nei nostri programmi è tutto perfettamente in linea”. Dobbiamo forse pensare che su RTL, Montecarlo o Radio Deejay sono così trasgressivi da non mettere le canzoni del momento dei grandi artisti del calibro di Robbie Williams, Beyoncé, Rag’n’Bone Man, Bruno Mars e dei prolifici Coldplay?

Ecco, quella di R101 è una pubblicità che ci fa percepire l’effetto contrario di quello che ci vuole dire e, su gente come me, fa l’opposto. Se già non accenderei mai la radio su R101, questo messaggio mi ha dato la conferma. Ma il punto è che si spreca tempo ad ascoltare quella roba lì, si sprecano occasioni di curiosare tra l’enorme vastità di cose che non sono tutta quella roba lì, si fa un torto al genere umano e al suo intelletto perché è come mangiare ogni giorno un piatto di pasta al burro. Io non pubblicizzerei il fatto di essere omologato all’ignoranza, perché semmai è il silenzio, l’atto del non comunicarlo che induce la gente a pensare che io lo sia.

Urlerei ai quattro venti invece la mia differenza, il fatto che metto musica che non sono solo quei quattro gatti triti e ritriti lì, che c’è un sacco di arte da scoprire, e so che lo fareste anche voi. Non so perché ho collegato queste considerazioni a Chris Cornell, che comunque dal grunge ha fatto un bel passo nello star system per poi tornare recentemente alle origini con una reunion addirittura dei Temple of the Dog. Sarà che ogni volta in cui muore la musica, e succede ogni volta in cui uno come Chris Cornell si uccide o un’emittente con il potere di trasmettere le bellezze di tutto il mondo ci ricorda, come se non lo sapessimo, che non sa andare oltre Robbie Williams, Beyoncé, Rag’n’Bone Man, Bruno Mars e i prolifici Coldplay, un po’ mi spiace.

stanze note

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Questa è una casa in cui c’è musica, quest’altra che vedete a fianco invece è una casa in cui non c’è musica. Anche se non c’è nessuna foto di riferimento è facile distinguerle. Il nucleo che vive nella casa in cui c’è musica ha il sorriso sulle labbra e, a certe latitudini, anche il ritmo nel sangue. Gli altri boh, davvero non so come facciano a vivere. Conoscevo una coppia che aveva rivestito le pareti della sala con una carta che simulava una libreria. Scaffali disegnati fitti di libri ordinati e posizionati con il titolo in bella vista. La cosa mi faceva sorridere perché poi in casa di libri veri ce n’erano ben pochi e so di per certo che non erano, come me, maniaci ossessivi dei prestiti interbibliotecari e a quel tempo vi assicuro che gli e-book non erano nemmeno nell’anticamera del cervello del loro inventore. Ma queste cose oggi non mi stupiscono più di tanto perché sono tanti i modi in cui si può accedere alla cultura.

Le case silenziose, quelle in cui non si sente mai musica, quelle mi fanno più paura. I nostri nonni avevano sempre la radio accesa, anche quando si facevano la barba in bagno si portavano quella a transistor che utilizzavano poi la domenica a spasso per gli aggiornamenti di Ciotti e Ameri. I nostri padri riempivano le loro stanze di musica colta dai nomi così impronunciabili che solo a sentirli i piccoli si rintanavano nei loro nascondigli dalla paura. Dietrich Buxtehude. Alexander Scriabin. Carl Orff. Ludwig van Beethoven. Noi ci davamo dentro con i Cure e i CCCP, ma questo l’abbiamo già detto e ridetto, allo stesso modo in cui abbiamo ripetuto più volte che il rock oggi è un passatempo per vecchi e che a nessuno interessa più ascoltare la musica con altre persone. Per questo non capisco gli investimenti che si fanno per dotare gli spazi pubblici o privati all’aperto di dispositivi per la diffusione sonora. La grande truffa dell’Out Of Home, o come si chiamava qualche anno fa quando il fenomeno è stato lanciato sul mercato nemmeno avessero scoperto la ruota, è che la gente vuole vedere e sentire cose ma per i fatti suoi in casa, poi però vai nelle case e vedi che non c’è granché.

Le radio sono spente, sono solo accesi schermi ultrapiatti e curvi dai colori che in natura nemmeno se ti fai di LSD li vedi così, con delle partite o al massimo dei cuochi che cucinano. A me piace mettere i dischi di sera, dopo cena, al posto della tv. Mentre sbrighiamo le ultime faccende per dare alla nostra casa una dignità entry-level mi piace ascoltare qualcosa, anche solo una facciata di un ellepi, ma mi rilassa e così mi corico molto meno agitato di quando guardo qualcosa in tv. Ora ho preso anche l’abitudine di accendere Lifegate la mattina mentre preparo colazione. Alla fine, anche se è una stazione radiofonica un po’ da anziani come me, è molto più sincera delle varie Virgin Radio o Radio Freccia, che trasmettono l’idea di rock che hanno quelli che vogliono passare per gente che se ne capisce di rock ma solo per venderti poi le solite canzonette. In generale, comunque, il mio motto è: meno cuffie e più casse. Solo così le vostre mura domestiche si permeeranno di musica e la musica non vi lascerà mai più.