i cinque migliori dischi degli Interpol

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Mi è appena stata recapitata una copia rimasterizzata in doppio vinile versione deluxe di “Our love to admire” pubblicata dagli Interpol in occasione del decennale della sua prima uscita – era il duemila e sette, porca l’oca – e, come avviene ciclicamente, si è riaperta una voragine emotiva che, a partire da ieri e fino a chissà quando, potrà essere colmata solo da un ascolto reiterato, senza soluzione di continuità ai limiti dell’ossessione-compulsione dei loro cinque album, tutti straordinariamente belli, peraltro.

Avrete ora capito, ma credo che la cosa non vi fosse sfuggita sin dall’inizio, che il titolo di questo post è provocatorio. Se nel corso della loro carriera abbiamo avuto qualche esitazione qua e là circa la qualità di alcuni passaggi dei loro ellepi, se i detrattori o gli ascoltatori più scettici si sono fatti in quattro, anzi, in cinque per produrre liste in ordine decrescente di gradimento dei loro dischi, se i recensori – dio o chi per esso ce ne scampi – hanno descritto il quartetto newyorkese (da un bel po’ terzetto) in una costante deriva stilistica e ormai spacciato alla mercé dei flutti derivativi sempre più difficili da domare, io posso vantarmi con orgoglio di non aver mai dubitato di Paul Banks e colleghi di palco e mi dichiaro pronto a mettere in classifica la loro discografia con cinque meritatissimi primi posti dei loro cinque album. Tutto questo per dire, in parole povere, che si è riaccesa l’antica fiamma, i cui segni sono ancora più riconoscibili di prima.

Ogni long playing degli Interpol è un caso a sé e ha diversi fattori che ne determinano l’unicità. “Turn on the bright lights”, al primo posto, è l’esordio e, in quanto tale, raccoglie in sé tutta la vita precedente degli Interpol, come individui e come band. È la raccolta di brani che ci ha fatto identificare le somiglianze tra il timbro della voce solista con Ian Curtis, che ci ha dato le certezze sul fatto che il post punk – come lo abbiamo conosciuto – era vivo e lottava insieme a noi, che una fase della nostra vita non fosse stata sacrificata invano per lasciar posto a tutto quel ben di dio che gli anni novanta ci avevano dato. “Antics”, al primo posto, ha costituito la conferma. Leggermente più corposo e definito del precedente, è il vero manifesto dello stile e dell’originalità degli Interpol, un po’ meno copia di quello con cui abbiamo voluto metterli in competizione e prodotto da musicisti finalmente liberi dalla responsabilità di farsi fautori del compimento delle adolescenze del loro pubblico, lasciate in stand-by. “Our love to admire”, al primo posto, incarna una nuova leggera svolta. Più complesso e per certi versi barocco nelle costruzioni armoniche e meno immediato, è il disco che porta gli Interpol verso quella cupezza totale che troverà poi compimento nel lavoro successivo, l’album omonimo (“Interpol”, anch’esso al primo posto), il disco dell’abbandono di Carlos D. al basso che comunque segnerà nel bene e nel male un momento decisivo per il gruppo. “Interpol” forse è un po’ più lineare degli altri in quanto privo di un vero e proprio singolo di punta, ma la qualità complessiva non delude affatto. La lista si chiude con “El pintor”, al primo posto, l’ultimo lavoro uscito ormai tre anni fa, che forse è quello che più richiama la genuinità degli esordi e la freschezza compositiva multiforme che, in ogni traccia, ci permette di trovare qualcosa di unico.

Quindi niente, gli Interpol non potete mettermeli in discussione. Ho perso la tappa live al Carroponte di quest’estate perché ero in vacanza e spero che, se invece voi li avete visti dal vivo, vi siate trovati a vostro agio, ancora come un tempo, con la loro musica. Spero anche che concordiate con queste mie considerazioni. In caso contrario, scrivete qui sotto quali sono, secondo voi, i vostri cinque dischi degli Interpol preferiti.

new wave robot

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Se io vi chiedo “anni ottanta in Italia” almeno la metà di voi salterà in piedi come bravi scolaretti che sanno la lezione rispondendo all’unisono “Rock’n’roll Robot” di Alberto Camerini. Ed è proprio per questo motivo che sono qui apposta per schiarirvi le idee su questo brano che, appena parte l’intro di sintetizzatore, richiama alla memoria i juke box, l’estate, gli strascichi degli anni di piombo, almeno a voi che non avete trascorsi da musicista in quegli anni lì. Perché io invece in quegli anni lì muovevo i primi passi da musicista rock e oggi, quando alla radio passano “Rock’n’roll Robot”, non riesco a non ripercorrere, ogni volta, le stesse riflessioni.

Intanto ascoltate la versione originale, quella del disco, che comunque fa sempre piacere:

“Rock’n’roll Robot”, che poi è una banalissima hit da classifica, riflette appieno il paradigma per cui chi vuole far successo nel pop crea arrangiamenti alle canzoni in linea con lo stile più in voga al momento. Allora andava molto questo genere pop/new wave/elettronico e, per di più, Alberto Camerini è un autore che ha sempre espresso un gusto superiore alla media e, purtroppo, non ha avuto tutto il successo che avrebbe meritato.

Comunque quello che mi piace della versione su disco di “Rock’n’roll Robot” è soprattutto la ritmica, composta da batteria e basso lineari ma fortemente efficaci e una guida di sequencer a dare man forte. L’insieme ha una pulizia di suono tipica da studio, di quelle che poi dal vivo sono quasi impossibili da riprodurre per svariati motivi, a partire dal fatto che quando si suona live un pezzo così trascinante è difficile controllarsi. “Rock’n’roll Robot” è del 1981 e, ai tempi, i musicisti si dividevano in due categorie. Da una parte i virtuosi, che suonavano generi colti e complessi e finivano per fare i professionisti della musica. Dall’altra chi non sapeva suonare e metteva su gruppi punk, new wave o generi più estremi in cui la tecnica conta poco, soprattutto perché a chi aveva studiato non gli sarebbe mai venuto in testa di mettersi in situazioni di quel tipo.

Agli strumentisti virtuosi, professionisti quasi tutti provenienti dal jazz, dalla fusion o dall’hard rock, toccava però accompagnare anche i cantanti come Alberto Camerini che avevano necessità diverse dai cantautori e dagli interpreti tradizionali, e se avete ascoltato “Rock’n’roll Robot” con attenzione, soprattutto la base ritmica basso e batteria, avrete capito a cosa mi riferisco. Il risultato di questa considerazione lo potete ascoltare in questa esecuzione dal vivo di “Rock’n’roll Robot” che ricalca perfettamente le tesi che ho sostenuto qui sopra.

Ditemi voi che bisogno c’era di accompagnare con il basso e la batteria una canzonetta pop/new wave come “Rock’n’roll Robot” con così poca convinzione e tiro. La parte di basso nel ritornello, che in un pezzo dei Deep Purple avrebbe avuto un suo senso, qui proprio non ci azzecca per nulla. E la smania di dimostrare la differente estrazione dei turnisti la si può notare nel ponte, quando la canzone assume le sembianze di un brano rock’n’roll tradizionale e basso e batteria possono darci dentro come vogliono.

E, ancora a proposito di come fosse complicato suonare dal vivo quel genere in quell’epoca, vi lascio con due ulteriori spunti di riflessione: Enrico Ruggeri, in palese playback, ha però compreso perfettamente l’approccio a un pezzo così e si muove da dio, con quella chitarra addosso. Infine, pensate a quanti sintetizzatori occorrevano dal vivo per riprodurre quelle ingenue sonorità elettroniche di un tempo. Oggi basta un computer.

chi ben inizia poi va a tempo per tutto il resto del pezzo

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Sarebbe bello che qualcuno facesse un sito riunendo tutti i pezzi in cui è difficile imbroccare l’uno per poi andare a tempo con il resto della canzone ed entrare giusti quando è il momento. Il problema è che anche quando riesci a capire come prenderli, e oggi grazie al digitale è un attimo a mettere un clic o qualunque riferimento sulla traccia in questione per comprendere il giusto andamento, è difficile poi trasferire questa certezza nell’ascolto della canzone perché l’inizio sarà sempre a sorpresa e l’abitudine non ci metterà mai d’accordo con la reale scansione ritmica. Un disorientamento che a volte si trova anche all’interno delle composizioni (prendete il ritornello di “Nearly lost you” degli Screaming Trees o gli stacchi di “Stairway to heaven” che precedono il celebre assolo di chitarra), ma che negli incipit crea molto più imbarazzo soprattutto con chi lo coglie e soprattutto se quelli che lo colgono fanno parte della tua band e tu sei l’unico che andrà fuori tempo.

Ogni musicista ha la sua bestia nera. Io ne ho diverse ma al momento me ne vengono in mente solo quattro, dei generi più disparati. Ci ho messo molto con “Get the balance right” dei Depeche Mode ma poi alla fine ce l’ho fatta. Faccio ancora fatica, ma non più di un paio di misure, con “Diamond” dei Via Verdi e per fortuna che è una canzone talmente orripilante che è sempre più giustamente vittima di damnatio memoriae. Resta tutt’ora un mistero l’enigmatica ballad elettronica che risponde al nome di “Taking islands in Africa” dei Japan, con quella drum machine stranissima all’inizio.

Ho risolto invece proprio stamattina un dubbio che mi attanagliava almeno dai tempi delle medie e riguarda “Rock’n’roll” dei Led Zeppelin, e considerando la fama di questa hit sono certo di non essere l’unico a smarrirsi nell’intro di batteria del grande John Bonham. Non avevo mai pensato a cercare la risposta su youtube grazie a un Salvatore Aranzulla dedito ai tutorial in ambito hard rock, eppure alla fine ce l’ho fatta e ora ho la certezza del tempo del pezzo che mi gratificherà per il resto dei miei giorni: uan, ciu, uan-ciu-fri ta-ta-tun ecc… (qui a 1:50 circa).

dieci motivi per cui non ci piace il silenzio

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Intanto perché non è d’oro, come invece sostiene la credenza popolare. Io ho provato a morderlo e vi posso assicurare che è più arrendevole delle monete di cioccolato. Questo comporta che non c’è nessun arricchimento, anzi, nel circondarsi di silenzio. Per le persone più rodate, meglio conosciute come di mezza età, poi è ancora più fastidioso perché il silenzio non è affatto silenzioso come verrebbe a pensare ma è solo una patina vulnerabile sotto la quale ribollono tutti i ronzii e i fischi che si accumulano e rimbalzano da una parete all’altra come larsen e feedback irrisolti durante la giornata. Mostri acustici che si auto-replicano fagocitando se stessi e si ingigantiscono pronti a balzare al di là dalle loro tane proprio quando fuori tutto tace.

Ma la musica, la musica, quella sì che riempie gli spazi più di qualunque altra sostanza fluida o gassosa. C’è un insieme di cliché che fanno subito immaginario cinematografico e che comprendono uomo da solo in casa in una sera d’estate, gatti che la noia e il caldo rende più appiccicosi, a causa dell’eccezionalità, musica jazz ascoltata a un volume leggermente più alto di quello che, se il jazz fosse una medicina, il bugiardino consiglierebbe, o dal momento che nel quadro c’è anche una birra stappata, come gustarsi una doppio malto a una temperatura più bassa rispetto a quanto indicato sull’etichetta.

Quello che voglio dire è che la musica fa da collante a tutte queste cose, ieri sera il jazz ma qualche giorno fa una playlist di madrigalisti doc (e non d’oc, non si scherza con la periodizzazione storica e la collocazione geografica) come Orlando di Lasso e Luca Marenzio che tra l’altro, se guardate i loro ritratti, altro che gemelli diversi.

Ho provato a riprodurre questo modello (quello della musica che riempie tout court, non necessariamente rinascimentale) anche in altre condizioni, con una maggiore densità abitativa, per farvi capire, ma con esiti meno struggenti. Un po’ perché la musica benché invisibile ha una componente da contemplazione ma spesso la risoluzione a cui è trasmessa non è sufficiente a catturare l’attenzione, soprattutto per i millennials la cui realtà è in fullHD. E poi perché basta trovarsi in due che, da animali sociali quali siamo, una parola prima o poi ci scappa, se non un gesto – mi viene da dire per fortuna – e l’incantesimo si rompe.

L’ascolto individuale non ha eguali al mondo in quanto a rapimento e a estasi. Da solo la musica la vedi tracimare dai dispositivi impiegati per l’ascolto, di due colori in caso di stereofonia che si mescolano come succede con gli acquarelli e le tempere, con più sfumature se l’ascoltatore utilizza uno di quei sistemi di sorround. A me succede sempre, ed è stato proprio così l’ultima volta. Sono rimasto immobile dentro casa e ho lasciato l’estate fuori malgrado le finestre spalancate, il tramonto quasi compiuto, i gatti appiccicosi, una cena improvvisata, persino la birra e quella solitudine che non ho provato affatto, in balia di qualcosa in cui mi sono sentito immerso e che non saprei descrivere altrimenti.

se la pelle sconosciuta è anche sincera

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Non avete idea di quante amicizie ha rovinato Ivano solo perché non apprezza per nulla Björk Guðmundsdóttir, meglio nota come Björk. La nostra si è invece rafforzata proprio per quel fattore che abbiamo in comune. A me sta antipatico il personaggio e il timbro di voce mi urta come pochi, per non parlare dei cliché artistici ed estetici in genere, a partire (vedi pagina di Wikipedia) dall’eclettismo tra techno, alternative rock, jazz, elettronica, musica classica, trip hop, musica sperimentale, musica minimalista e d’avanguardia, per continuare con la continua ricerca musicale e vocale e le contaminazioni (dio, le contaminazioni) tra elettronica e l’uso dell’orchestra, le registrazioni fatte in una capanna in riva al lago, le collaborazioni (dio, le collaborazioni) con cantanti inuit, beatboxer, artisti giapponesi, avant-rocker, corali e scrittori, fino alle recitazioni nei musical e conseguenti palme d’oro e chissà quali altri premi.

Il problema è che qualcuno, magari proprio Ivano, dovrebbe alzarsi alla fine di un ascolto di gruppo di un disco di Björk o, per i più temerari, durante un concerto della popstar islandese ed esclamare a gran voce che “per me, la musica di Björk è una cagata pazzesca” e godersi i 92 minuti di applausi di tutti gli ipocriti che da vent’anni si riempiono la bocca con Björk solo perché, sin dai tempi di “Army of me”, non si può non affermare il contrario. Il cartello degli intellettuali aveva già identificato la sua straordinarietà artistica quando festeggiava il compleanno di chissà chi nei Sugarcubes con quei salti melodici che, se qualcuno facesse a me gli auguri così, correrei subito a casa a sentire “Opera prima” dei Pooh a tutto volume. Ho citato la band di Facchinetti non a caso. Ivano non solo rovina le amicizie perché sa cosa gli piace (e gli piace quello che conosce, spero abbiate colto la citazione) ma ha corso il rischio di mandare a monte il suo fidanzamento ormai ventennale per una storia parallela. Ha conosciuto Roberta in palestra, una parola tira l’altra poi un secondo aperitivo che segue a un primo giro e, per farla breve, sono finiti a letto. E se volete sapere perché Ivano poi è scappato a gambe levate la notte stessa da quella rischiosa situazione è perché, come un mantra nel cervello, gli si è riproposta in loop “Tanta voglia di lei”, la canzone più odiata dai fedifraghi fan della musica alternativa. Com’è possibile, infatti, nel 2017 rovinare ancora un momento ad elevato tasso erotico con la voce sguaiata di Dodi Battaglia che ricorda, a tutti gli amanti dell’amica di una sera, che si trovano altrove, che il loro posto è laaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa e che il loro amore si potrebbe svegliare. E in quel caso, davvero, chi la scalderà?

una bellissima storia internet

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La gente crede che Marco sia matto perché ha delle pretese che non stanno né in cielo né in terra e ho provato le conseguenze di questa sua bizzarria sulla mia pelle. Marco ha rincorso per tutta la vita una fidanzata che si chiamasse Anna per tenere fede alla promessa fatta a Lucio Dalla di vivere il più possibile secondo le sue canzoni, questo molto tempo prima che Dalla ci lasciasse e, manco a dirlo, senza che Dalla sapesse nulla di quello che un suo fan volesse fare dell’eredità culturale e sociale dei suoi dischi. Controprova è che tutt’ora che Dalla non c’è più, e che quindi Marco potrebbe anche essere meno rigoroso su questo stile di vita tanto ormai è impossibile che Dalla lo venga a sapere, lui continua senza soluzione di continuità a farsi chiamare Gesù Bambino dalla gente porto o a vedere gente bere a una fontana che non era lui e potremmo andare avanti così per tutta la discografia di Dalla ma la storia verrebbe davvero troppo lunga. Vi prometto che un giorno userò questa storia come spunto per un romanzo, ma lo sapete che il web non perdona con le sue menate sul SEO e sul SEM e sui clic e che bisogna scrivere cose brevi perché gli analfabeti di ritorno si perdono alla quinta riga e che quindi, in questo post, è meglio andare al punto.

E il punto è che a Marco mancava la versione su vinile di “Come è profondo il mare”, e chi più di me sa quanto il non avere la collezione di dischi completa di quel gruppo o quel cantante possa essere frustrante. Marco ha passato al setaccio il web ma una copia a meno di pagarla profumatamente non la si trovava e Marco, che è ligure proprio come me, continuava a temporeggiare aspettando l’occasione buona per impilare l’ellepì oggetto dei desideri tra “Automobili” e “Lucio Dalla”, l’album omonimo del 79.

Ma Dalla non è l’unica fissazione di Marco. Marco prova anche un forte trasporto per le persone in genere. Ritiene che siano tutte indistintamente gentili, ha un’inspiegabile fiducia nel genere umano e non vi dico oggi con i social network e tutte quelle puttanate lì l’intensità in cui si manifesta questa sua predisposizione ai rapporti interpersonali. Avrete già intuito che Marco ha unito le due cose, Dalla e il trasporto verso le persone, pubblicando un post su Facebook in cui ha condiviso la mancanza del disco in questione con tutti i giri di parole con cui è abituato a chiedere le cose, tanto che poi alla fine le gente, che secondo lui è gentile ma solo perché non ha studiato latino e non sa che i due termini hanno la stessa etimologia ma, per i romani di un tempo, le due cose non erano affatto date per scontato e insomma, il senso non ci azzecca, dicevo che alla fine le gente non ha capito quindi nessuno si è fatto avanti a offrirgli la sua copia di “Come è profondo il mare”.

La storia finisce con Marco che aggiunge ai commenti alla sua richiesta su Facebook la foto del disco finalmente aggiunto alla sua collezione con un ringraziamento all’Internet che soddisfa i desideri ma non è proprio andata così. Nessuno gli ha regalato nulla. Semplicemente, per uno degli scherzi che fa il caso e che proprio con l’Internet si sono moltiplicati a non finire, proprio il giorno successivo a quando Marco ha chiesto se qualcuno aveva una copia di “Come è profondo il mare” in vinile di cui disfarsi, Amazon gli ha messo tra le cose che avrebbero potuto interessargli proprio il disco fresco fresco di ristampa su vinile a 180 grammi e anche a un buon prezzo, e Marco non ci ha pensato due volte. Ora la sua collezione è completa e a Marco le persone continuano a piacergli come prima, forse come piacevano a Lucio Dalla, come gli piacciono la luna e il cielo e il biliardo e la commedia americana e tutte quelle cose lì che magari, un giorno, sarebbe bello scriverci un libro.

gruppi di supporto

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Se nei giorni scorsi avete partecipato a una delle tappe italiane del tour dei Depeche Mode avrete avuto modo di apprezzare gli Algiers, il gruppo che ha aperto il concerto e che non so quante volte ve l’ho detto ma sono una delle band che amo di più, negli ultimi anni. Il primo omonimo disco, pubblicato nel 2015, è una bomba e se ve lo siete persi non vi sto più amico.

Il fatto è che ieri, che era il day-after della data milanese della band di Dave Gahan, ho pubblicato una foto su Facebook del nuovo arrivato nella mia collezione di ellepi che è invece “The underside of power”, il secondo disco degli Algiers uscito un paio di giorni fa. Mi sono visto sorprendentemente notificare una pioggia di like da amici che hanno conosciuto gli Algiers grazie alla loro presenza a San Siro. Qualcuno addirittura sostiene che la loro performance sia stata persino meglio riuscita di quella dei ben più blasonati headliner per una resa superiore dell’impianto di amplificazione o forse perché Dave Gahan era un po’ giù di voce. Non so, io non c’ero e non mi sento di confermare notizie che potrebbero essere fake news, ma ci tengo a sottolineare quanto sia importante la presenza dei gruppi di supporter per i grandi nomi della musica perché preparano l’atmosfera, scaldano i motori delle emozioni e consentono agli spettatori di non annoiarsi. D’altronde, per parafrasare uno di quegli aforismi che i quarantenni copia-incollano sulle jpeg da pubblicare sulle loro pagine Facebook con Biancaneve, Corto Maltese, cuoricini vari e quella specie di cagnolino che vi dà il buongiornissimo, è o non è l’attesa del concerto essa stessa il concerto?

Per non parlare del vantaggio che hanno i gruppi come gli Algiers a preparare il pubblico e fare da apripista a band del calibro dei Depeche Mode, facile immaginare il perché. La storia della musica è piena zeppa di aneddoti curiosi, abbinamenti improbabili, casi di scalette che i più avrebbero preferito al contrario e persino vere e proprie rivolte nei confronti degli organizzatori rei di aver mescolato pericolosamente, per un’interpretazione della musica arbitraria, distante dalla realtà e oltremodo dubbia, fan di estrazione opposta.

Io di questi aneddoti un po’ ne conosco, ora ve li dico e, se avete voglia, mi piacerebbe sentire i vostri. Magari mettiamo insieme una compilation e la intitoliamo “Racconti di supporto”. Intanto c’è l’approccio snob di quelli che vanno ai concerti perché interessati alle band che suonano prima di cui, però, è bene segnalare anche il titanismo con cui si sobbarcano il costo spropositato dei biglietti rispetto all’effettivo valore commerciale dell’apporto artistico dei loro meno noti beniamini. Cristiana, ma forse ve l’avevo già detto, aveva speso un capitale (non aveva certo problemi di soldi) per Marc Almond che suonava prima dei The Cure nell’89. Inutile dire che, al termine dell’ultimo bis di Mr. Tainted Love, Cristiana ha girato i tacchi e se ne è uscita dal Palasport di Torino. Io ho vissuto un’esperienza simile per vedere i Soundgarden ai tempi di Badmotorfinger, in tour con i Faith No More e tutto il baraccone dei Guns N’ Roses, ma devo confessare che – da buon ligure – non me la sono sentita di uscire prima, con quello che avevo pagato il biglietto. E, a proposito di Slash e compagnia bella, ho letto che da qualche parte in Polonia suonano dopo i Killing Joke che, a dirla tutta, non è che insieme si azzecchino molto. Provate a mixare in sequenza “Love like blood” con “Paradise City” e poi ne parliamo.

Nel mio piccolo, poi, cerco sempre di documentarmi sui supporter presenti ai concerti a cui partecipo. Facendo così tanti anni fa ho scoperto piacevolmente i Bloc Party che suonavano prima degli Interpol, mentre al loro concerto successivo ancora a Milano (gli Interpol li ho visti diverse volte) una parte del pubblico si è indignata perché avevano come gruppo supporter i Blonde Redhead, effettivamente con più carriera alle spalle della band di Paul Banks anche se, onestamente, se non fosse stato per il fascino della cantante giapponese alle canzoni dei Blonde Redhead avrei sbadigliato tutto il tempo. Gli Interpol poi anni dopo hanno suonato prima degli U2 a Roma, quello è stato sicuramente un buon trampolino. È stato invece molto rispettoso malgrado la gerarchia imposta dagli organizzatori della serata Bryce Dessner dei The National, salito sul palco dopo Johnny Marr e annunciando di essere onorato di condividere il concerto con l’ex membro degli Smiths grazie al quale aveva iniziato a suonare la chitarra.

È curioso e interessante, in genere, andarsi a spulciare la gavetta degli esordi di certi artisti che poi hanno avuto grande successo. I Simple Minds nell’81 o giù di lì aprivano i concerti di Peter Gabriel, mentre i Talking Heads all’inizio della loro carriera suonavano prima dei Ramones. Anche in Italia abbiamo episodi simili: la popstar Raf, quando era il frontman dei Cafè Caracas accompagnato alla chitarra da Ghigo Renzulli, aveva avuto il difficile compito di cantare prima dei Clash a Bologna nell’80. Era già notissimo in Italia invece Pino Daniele quando ha avuto l’onore di fare da supporto a Bob Marley a San Siro, pensate un po’, per non parlare di Peppino Di Capri che ha svolto la stessa funzione per i Beatles.

Per quanto riguarda la mia esperienza diretta ho solo un paio di cose da ricordare, e leggendo i nomi degli artisti con cui ho condiviso il palco è facile intuire l’importanza dei concerti e dei gruppi stessi in cui ho militato. Posso citare Neffa ai tempi di “Aspettando il sole”, non vi dico i profumi che si respiravano in camerino quella sera, gli Africa Unite e il loro tastierista Madaski che mi ha concesso l’uso del suo mixer di palco per la mia strumentazione, e infine un esordiente Roy Paci in forza alla sezione fiati di Persiana Jones (nientepopodimeno) che si è prodigato in consigli tecnici al mio trombettista di allora. Aneddoti di un certo livello, insomma.

i napoletani hanno la memoria corta

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Era dai tempi di “Nun te scurdà” che non si sentiva una canzone in dialetto così bella. Ma non è solo l’eccellente qualità che accomuna e crea un filo conduttore tra uno dei pezzi italiani più toccanti di tutti i tempi (contenuto in uno degli album italiani più riusciti in assoluto che è “Sanacore”) e “Tu t’e scurdat’ ‘e me” di Liberato, e non mi riferisco al tema della memoria presente in entrambi i titoli. Si dice che “Tu t’e scurdat’ ‘e me” sia un pezzo trap ma a me sembra un reggae a tutti gli effetti, anzi pervaso dalla stessa raffinatezza con cui lo hanno suonato gli Almamegretta che nel loro stile non hanno mai appesantito gli strumenti in levare. Provate a sentirli in sequenza “Tu t’e scurdat’ ‘e me” e “Nun te scurdà”, uno dopo l’altro, e mi darete ragione. Il mio sogno è quindi quello di vedere il pischello Liberato che canta i suoi pezzi accompagnato da quei matusa della band di Raiz e vedere sotto il palco l’effetto che fa. Chiudiamo gli occhi e immaginiamocelo tutti, magari il sogno si avvera.

chi è sopravvissuto agli anni novanta batta un colpo anzi no faccia una cover

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Che gli anni novanta rappresentino la perfezione totale globale in tutto e per tutto non sono io il solo a sostenerlo e, se volete la prova a supporto di questa teoria, vi dico solo che non c’è come la musica degli anni novanta che è in grado di riassumere e trasmettere tutte le varie emozioni del genere umano. Se vi guardate in giro e siete buoni osservatori, anzi, ascoltatori, la realtà del nuovo secolo in cui siete immersi è imbevuta della musica degli anni novanta e dei richiami ad essa perché, come ho appena affermato ma ripetermi non è certo un problema, negli anni novanta c’è stata almeno una hit per ogni stato d’animo conosciuto dall’uomo. Certo, la causa di tutto ciò è anche che oggi chi tiene i fili della sonorizzazione pubblicitaria o documentaristica in generale negli anni novanta muoveva i primi passi sul dancefloor e certe atmosfere gli hanno trasmesso altro che un imprinting. Pensate a un genere come il trip-hop che piace alle persone intelligenti e a quelli che ascoltano lo zoo di centocinque, agli amanti dell’elettronica ma anche ai rockettari, e solo perché si spazia dal versante solare dei Morcheeba a quello cupissimo dei Massive Attack con quasi tutti i ritmi del creato. D’altronde gli ottanta si abbinano solo alla frivolezza (new wave a parte, ma non sono in molti ad avere gusti così raffinati), i settanta sono troppo politicizzati, i sessanta oramai troppo classici e, per venire ai giorni nostri, i duemila troppo derivativi dalle decadi precedenti, senza contare il rimescolamento che ha causato l’Internet e la confusione che regna oggi tra gli ascoltatori.

In pubblicità e, in genere, per sfruttare appieno il potere evocativo della musica occorre utilizzare dei punti fermi e se dovete musicare l’allegria, la tristezza, una velata gradazione di malinconia l’unica soluzione è pescare in quella best practice di categorizzazione che sono, appunto, gli anni novanta. Posso farvi qualche esempio? Ci sono forti probabilità che, facendo zapping in radio o in tv, almeno una volta al dì vi capiti di imbattervi nel versione remix di Fatboy Slim di “Brimful of Asha” a corollario di immagini di spensieratezza, oppure “Drinking in L.A.” per sottolineare la coolness di qualcosa. In questi giorni gira in TV uno spot di non so cosa che ha come colonna sonora la versione di “I Will Survive” dei Cake. Ve la ricordate? Fu un successone sia per la voce tremendamente scazzata e sexy con cui la band ha de-costruito il successo di Gloria Gaynor, sia per la geniale sostituzione nel testo di “that stupid lock” che diventa “my fucking lock”, vuoi per il solo di chitarra impensabile per un virtuoso delle sei corde e anche quello di tromba, perché no, e vuoi perché in quegli anni si faceva gara a imporre lo stile musicale anni 90 su tutto con risultati davvero sorprendenti. Nessuno ha mai rivolto al futuro, nemmeno allora, la domanda “cosa resterà di questi anni novanta” come fece Raf per il decennio precedente. Bene, sappiate che se qualcuno prima o poi lo farà la risposta sarà scontata. Gli anni novanta non sono ancora ritornati in questi anni in cui molti degli eroi di quel tempo ci hanno lasciato prematuramente le penne, e penso a Chris Cornell, e non sono mai ritornati perché gli anni novanta vivono e combattono insieme a noi, le loro idee camminano sulle nostre gambe e la loro musica non è ancora passata.

cosa fare quando vi cola il rimmel

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Quando sbarcavo il lunario con il pianobar uno dei miei divertimenti preferiti era infilare richiami ad altri pezzi nelle canzoni che suonavo, questo perché la maggior parte delle canzoni che ero costretto a suonare non mi piacevano, mi sentivo offeso nella mia dimensione artistica, quindi esercitavo il mio diritto di rivalsa con delle citazioni più o meno colte o comunque acute sapendo che nessuno le avrebbe colte (o comunque acute, questa l’avete capita?). Un classico era suonare il tema di chitarra di “Boys don’t cry” dei The Cure sulla parte di pianoforte di “Rimmel” di Francesco De Gregori, la sequenza armonica è la stessa e ci sta a pennello. Questo però non è servito a tenermi lontano la nausea per “Rimmel”. Gran pezzo, ma se lo suoni tutte le sere dopo un po’ rompe ampiamente i maroni. Ed è proprio dai tempi del mash-up con “Boys don’t cry” dei The Cure che cerco di de-costruire “Rimmel” in tutti i modi che posso, se non di distruggerlo. So benissimo di non avere nessuna speranza di vincere questa sorta di guerra psicologica, ma per me impegnarmi nel rovinare la reputazione a “Rimmel” ormai è una vera e propria mission. Oggi l’ho sentita alla radio in una versione live ancora più fastidiosa, in cui De Gregori cambia notevolmente la metrica delle parole sulla melodia impedendo persino a un hater come me di cantarla. Così mi sono soffermato sul testo per l’ennesima volta e, alla luce della contemporaneità digitale, ho riflettuto sul fatto che “Rimmel” è una delle canzoni dei cantautori italiani con il testo più superato. Non ci credete?

Ecco qualche esempio. “E qualcosa rimane, fra le pagine chiare e le pagine scure,” ma oggi con l’e-reader è impossibile che succeda ciò e, in genere, la de-materializzazione dei documenti rende superflua qualunque operazione di questo tipo. “E cancello il tuo nome dalla mia facciata”, Google comunque tiene traccia della cronologia di navigazione sia in locale che in cloud. “Ora le tue labbra puoi spedirle a un indirizzo nuovo”, basta aggiornare l’indirizzo e comunque con Amazon Prime è molto più conveniente. “E la mia faccia sovrapporla a quella di chissà chi altro”, oggi con Photoshop ci vuole un attimo e non c’è limite ai fotomontaggi che si possono fare. “O ancora i tuoi quattro assi, bada bene, di un colore solo, li puoi nascondere o giocare come vuoi”, non credo che Spider sia ancora tra i giochi di sistema di Windows e comunque due o più carte dello stesso numero e dello stesso seme non si possono incolonnare. “Se per caso avevo ancora quella foto in cui tu sorridevi e non guardavi”, chissà quanti selfie si farebbe oggi l’amata di De Gregori prima di mandargli quello giusto in cui sorride con gli occhi verso l’obiettivo. “Ed il vento passava sul tuo collo di pelliccia” ma scherziamo? Volete scatenare i nazi-animalisti sui social? “E quando io, senza capire, ho detto sì”, esiste il registro delle opposizioni in cui segnalare il proprio numero per evitare le scocciature dei call center che ti propongono contratti tranello.

Spero di avervi convinto. La poesia di canzoni come queste non ha tempo e spero di non avervela rovinata ma, vi prego, provate e mettervi nei miei panni.