Mi è appena stata recapitata una copia rimasterizzata in doppio vinile versione deluxe di “Our love to admire” pubblicata dagli Interpol in occasione del decennale della sua prima uscita – era il duemila e sette, porca l’oca – e, come avviene ciclicamente, si è riaperta una voragine emotiva che, a partire da ieri e fino a chissà quando, potrà essere colmata solo da un ascolto reiterato, senza soluzione di continuità ai limiti dell’ossessione-compulsione dei loro cinque album, tutti straordinariamente belli, peraltro.
Avrete ora capito, ma credo che la cosa non vi fosse sfuggita sin dall’inizio, che il titolo di questo post è provocatorio. Se nel corso della loro carriera abbiamo avuto qualche esitazione qua e là circa la qualità di alcuni passaggi dei loro ellepi, se i detrattori o gli ascoltatori più scettici si sono fatti in quattro, anzi, in cinque per produrre liste in ordine decrescente di gradimento dei loro dischi, se i recensori – dio o chi per esso ce ne scampi – hanno descritto il quartetto newyorkese (da un bel po’ terzetto) in una costante deriva stilistica e ormai spacciato alla mercé dei flutti derivativi sempre più difficili da domare, io posso vantarmi con orgoglio di non aver mai dubitato di Paul Banks e colleghi di palco e mi dichiaro pronto a mettere in classifica la loro discografia con cinque meritatissimi primi posti dei loro cinque album. Tutto questo per dire, in parole povere, che si è riaccesa l’antica fiamma, i cui segni sono ancora più riconoscibili di prima.
Ogni long playing degli Interpol è un caso a sé e ha diversi fattori che ne determinano l’unicità. “Turn on the bright lights”, al primo posto, è l’esordio e, in quanto tale, raccoglie in sé tutta la vita precedente degli Interpol, come individui e come band. È la raccolta di brani che ci ha fatto identificare le somiglianze tra il timbro della voce solista con Ian Curtis, che ci ha dato le certezze sul fatto che il post punk – come lo abbiamo conosciuto – era vivo e lottava insieme a noi, che una fase della nostra vita non fosse stata sacrificata invano per lasciar posto a tutto quel ben di dio che gli anni novanta ci avevano dato. “Antics”, al primo posto, ha costituito la conferma. Leggermente più corposo e definito del precedente, è il vero manifesto dello stile e dell’originalità degli Interpol, un po’ meno copia di quello con cui abbiamo voluto metterli in competizione e prodotto da musicisti finalmente liberi dalla responsabilità di farsi fautori del compimento delle adolescenze del loro pubblico, lasciate in stand-by. “Our love to admire”, al primo posto, incarna una nuova leggera svolta. Più complesso e per certi versi barocco nelle costruzioni armoniche e meno immediato, è il disco che porta gli Interpol verso quella cupezza totale che troverà poi compimento nel lavoro successivo, l’album omonimo (“Interpol”, anch’esso al primo posto), il disco dell’abbandono di Carlos D. al basso che comunque segnerà nel bene e nel male un momento decisivo per il gruppo. “Interpol” forse è un po’ più lineare degli altri in quanto privo di un vero e proprio singolo di punta, ma la qualità complessiva non delude affatto. La lista si chiude con “El pintor”, al primo posto, l’ultimo lavoro uscito ormai tre anni fa, che forse è quello che più richiama la genuinità degli esordi e la freschezza compositiva multiforme che, in ogni traccia, ci permette di trovare qualcosa di unico.
Quindi niente, gli Interpol non potete mettermeli in discussione. Ho perso la tappa live al Carroponte di quest’estate perché ero in vacanza e spero che, se invece voi li avete visti dal vivo, vi siate trovati a vostro agio, ancora come un tempo, con la loro musica. Spero anche che concordiate con queste mie considerazioni. In caso contrario, scrivete qui sotto quali sono, secondo voi, i vostri cinque dischi degli Interpol preferiti.