le gambe delle donne

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Anche il 77 non è stato tutto rosa e fiori. Siamo già ad ottobre di questo quarantennale, e a pensarci bene a tutta la vita che ci è passata in mezzo fa molta impressione. Io non credo che tutto quello successo prima sia fantastico e tutto quello che accade oggi sia una merda, anche se oggi le riflessioni sul senso dell’esistenza degli intellettuali al tempo dell’Internet hanno un loro fondamento. Vi basti pensare che, ora che diamo retta a cani e porci su Facebook, passo per intellettuale pure io che ho quattro gatti che mi seguono su questo blog. Oggi abbiamo il reggaeton, per dire, ma non crediate che nel 77 fosse tutto “Heroes” di Bowie, quel fantastico disco con la copertina tutta rossa dei Talking Heads o i Sex Pistols che sbraitavano contro la regina. In Italia c’erano le stesse porcherie che ci sono oggi, solo con sonorità e testi contestualizzati all’epoca. Vi basti ricordare che nel 77 il singolo “Ti amo” di Umberto Tozzi ha sbancato l’industria musicale. Che differenza c’è tra Rovazzi e Tozzi, che fanno anche rima? Oggi i versi di “Ti amo” si ritrovano spesso negli status dei nostri amici: primo maggio su coraggio, fammi abbracciare una donna che stira cantando, fatti un po’ prendere in giro prima di fare l’amore. Tutti temi che ci fanno venire i peli ritti come aculei ai tempi delle questioni di genere, delle pari opportunità, dei produttori che ci provano con le attrici. Ascoltare “Ti amo” di Tozzi ci fa pensare che, davvero, nel 77 per certe cose eravamo dei trogloditi. Almeno qui in Italia.

come un vestito in un giorno qualunque

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A cavallo tra gli ottanta e i novanta vedevo Federico Fiumani ovunque. Principalmente sul palco perché i Diaframma in quel periodo mi piacevano di brutto anche se non capivo come fosse possibile reggere e gestire un cambiamento così drastico tra il timbro e la vocalità di Miro Sassolini e la sua, quella di Fiumani, intendo. Poi lo vedevo passare tantissimo in tv con quel pezzo pazzesco che era “Gennaio” e che aveva un video altrettanto dirompente. “Gennaio”, urlava Fiumani, e nel mentre scardinava tutte le regole della canzone e della metrica dei testi, con un riff di chitarra perfetto, un brano  sfrontato e antagonista nei confronti del modo di intendere la musica e quello che erano stati i Diaframma stessi con il cantante precedente.

Pur essendo (e lo sono tutt’ora) del team Sassolini, come diciamo noi giovani d’oggi per dichiarare l’appartenenza a qualcuno o qualcosa, apprezzavo il coraggio con cui Fiumani aveva accettato la sfida e dove voleva condurre il suo progetto. Avevo acquistato “In perfetta solitudine” su cassetta e tenevo quel nastro fisso costantemente nel walkman, ero alle prese con la leva obbligatoria e il titolo del primo album solista di Fiumani – benché sempre a nome Diaframma – riassumeva perfettamente quel periodo della mia vita. Come tutti i miei commilitoni ero single e isolato in quell’esperienza a suo modo incomparabile e unica che era l’esercito.

Una volta congedato ero così fissato con Fiumani che sono certo di averlo visto in concerto almeno quattro o cinque volte nel giro di una manciata di mesi. Me lo immaginavo fuori luogo come nel testo di “Caldo” o cinico in quello di “Irriconoscente”, con  quella camicia alla coreana che indossa nella foto del retro copertina di “Siberia”, un toscano un po’ presuntuoso come tutti quelli che avevo conosciuto sotto le armi, la caserma era un’opportunità che ti apriva al mondo, sotto questo punto di vista.

Mi rivedo a saltare sotto il palco in una bella serata alla festa dell’Unità di Genova nel 91, e quando poche settimane dopo l’ho avvicinato al termine di un concerto in un locale lì vicino per farmi firmare un manifesto della serata e chiedergli che ne pensasse della svolta dei Litfiba con le percussioni. Più gli parlavo e più mi affascinava. Una volta l’ho pure incontrato sulla metro a Milano, lui di Firenze e io di Savona, eravamo solo noi due vestiti tutti di nero in un vagone gremito di gente disattenta, e infatti solo io credo di averlo riconosciuto, e ci siamo studiati reciprocamente interrogativi.

Un vero integralista di se stesso, uno che non si è mai arreso e non penso che lo abbia mai fatto nemmeno ora. Ogni tanto leggo che è uscito un suo ellepì e mi stupisco del fatto che non sia mai tornato sui suoi passi, ai Diaframma di un tempo, quelli con Miro Sassolini alla voce, lui che davvero mi sono sempre chiesto come sia possibile che basti la sicurezza di sé a convincere il pubblico che non sei per nulla stonato come una campana.

BIG (scritto tutto maiuscolo che fa più effetto)

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Avete presente quei film in cui per un incantesimo un adulto diventa un bambino e viceversa? Per un periodo di tempo padre e figlio o madre e figlia o zio e nipote o prof e alunno, ora non ricordo bene la trama, si scambiano i corpi e la vita stessa e così vivono reciprocamente i pro e i contro dell’uno e dell’altro ruolo. Non oso pensare a cosa peggiore e per fortuna che, se a qualcuno di noi succedesse davvero, faremmo di tutto per svegliarci dal brutto sogno.

Ho pensato a questa specie di stregoneria qualche giorno fa mentre viaggiavo sulla metro per tornare a casa dall’ufficio, tutto fiero della mia copia in vinile della ristampa di “Our love to admire” degli Interpol pubblicata per il decennale dell’album, fresca di acquisto e pronta per essere messa sul piatto. Ai tempi, da ignorante qual ero, avevo preso la versione su cd e, da allora, ho vissuto nel rimpianto dell’occasione perduta fino a quando una brillante strategia commerciale del terzetto newyorkese ci ha messo una pezza e io, target perfetto per questo tipo di stregonerie, mica quelle a cui facevo accenno su, ci sono cascato come un pollo.

Comunque è successo che una ragazzina delle superiori con una felpa rossa di Abercrombie si è seduta accanto a me, ha inforcato gli auricolari e ha messo “Unknown Pleasures” sul suo iPhone, l’ho visto perché mi piace sbirciare di nascosto quello che ascolta la gente e poi l’intro di batteria di “Disorder” è talmente noto ed elementare nella sua esecuzione che lo riconoscerei anche mimato. Ora non voglio riaccendere la vecchia solfa della musica derivativa e di Paul Banks che imita il timbro di Ian Curtis, visto che ormai la questione si è risolta almeno dal 2007. Ma in quel frangente c’è stato un ribaltamento dei piani, una specie di sottosopra tanto per parafrasare una nota serie TV di moda, in cui chi sta da una parte ha lasciato il posto a chi sta dall’altra. Un cinquantenne con canzoncine da ragazzini, una ragazzina con nelle orecchie la storia della musica moderna. La magia si è protratta per almeno cinque fermate, poi ho iniziato a preoccuparmi per i compiti che avrei dovuto fare per il giorno dopo.

vi presento Nadine, se non la conoscete ancora

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Mi sono innamorato di Nadine Shah senza ritorno. Mi sono imbattuto nelle sue canzoni, nel suo timbro, nel modo in cui sta sul palco. Mi piace quello che fa, quello che dice, come suona la chitarra. Avevo divorato il suo penultimo disco uscito nel 2015, “Fast Food”, una copia del quale è ben conservata nella mia collezione di vinile. Da lì ero andato a ritroso scoprendo il suo ellepì d’esordio, “Love Your Dum and Mad”, risalente a due anni prima, anch’esso molto intenso e appagante. Poi Nadine ha pubblicato lo scorso agosto “Holiday Destination”, un capolavoro di musica e testi impegnati incentrato sul dramma dell’immigrazione e della condizione dei profughi dei nostri tempi. Da lì non c’è stato più niente da fare e, se la osservate qui sotto, è facile capire il perché.

Un giorno, con più calma, vorrei scrivere qualcosa di più su quello che ci lega anche se Nadine al momento ne è all’oscuro. Non prendetemi per stalker, però. Tantomeno per un cretino. Il guaio è che certa musica fa tornare in auge l’adolescente che è in me. Ma questo modo di viverla, lo abbiamo detto più volte, è frutto unicamente dei cinquant’anni e del mio dedicarmi unicamente all’ascolto senza aver più toccato un tasto di un synth amplificato, una condizione di beatitudine che se l’avessi identificata prima probabilmente sarei diventato un vecchio più felice. Ma più felice di così, mi direte, è un’impresa difficile.

E come avevo scritto per Valerie June, altra musa oramai parte di me, la via più edificante per superare le discussioni sulla disparità di genere è quella di acquistare dischi di donne. Se volete leggere la mia recensione su “Holiday Destination” la trovate qui su Loudd.it.

i negozi di dischi

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I negozi di dischi sono romantici tanto quanto le librerie e tutte quelle altre cose che la modernità ha condannato all’obsolescenza per una serie di congiunture contro le quali, purtroppo, c’è ben poco da fare. Non troverete più nessun ragazzino che da grande vuole fare il proprietario di un negozio di dischi e noi genitori ce ne guardiamo bene dal mettere strane idee in testa ai nostri figli, che già se per sfiga qualcuno da piccolo manifesta la velleità di fare il musicista cerchiamo subito di correre ai ripari e a fare di tutto per tutelare la sua autostima, ancor prima del suo futuro. Già ce li vediamo, profughi dell’economia produttiva, dirigersi con uno strumento acustico sul groppone alle direttive di un visionario che, con la bacchetta in mano, li costringe a esprimersi incompresi e con un ritmo invisibile in un linguaggio vecchio come il cucco rivolto a dei tromboni tanto quelli che suonano loro o i loro colleghi. O, ancora peggio, a trasudare rock e sofferenza nell’inferno dell’industria discografica e nell’umiliante mercato italiano. Figuriamoci a vendere oggetti tondi inutili a consumatori superflui dal punto di vista dei numeri che contano.

Forse noi siamo stati gli ultimi a sognare di alzare le saracinesche alle luci dell’alba e a dare il benvenuto ai clienti con l’ultimo disco arrivato per suscitare la loro curiosità. Vedersi intorno i clienti abituali, quelli più esigenti, chi ha bisogno di aiuto e a chi entra solo per dare un’occhiata e se ne va senza acquistare nulla. E ancora gli esperti che sanno tutto di tutti e persino i presuntuosi che vorrebbero sostituirsi ai negozianti, per non parlare dei commessi dei negozi di dischi più snob con il loro tono metallico standard.

Mi piacerebbe raccogliere delle testimonianze di chi gestiva negozi di dischi in passato per capire come si svolgesse la loro attività, come si organizzava il lavoro, in base a quale criterio si sceglieva la merce da acquistare, quanto contasse il gusto del proprietario o la capacità di intercettare la domanda, se vendere dischi (sia in vinile/musicassetta che su cd) era molto diverso dalle altre categorie merceologiche, quali erano i margini e che se ne facevano i negozi dell’invenduto, se c’era la possibilità di fare sconti e offerte, se i prezzi erano uguali per tutti o ci si poteva permettere di alzarli e abbassarli a seconda delle proprie esigenze, e che effetto ha fatto, quindi, vedersi diventare sempre meno necessari, se c’è stato il sentore o un’avvisaglia dei grandi cambiamenti dovuti a Internet o se nessuno pensava che tutto potesse crollare così.

A dire la verità, però, poco più di un mese fa ho scartabellato tra gli scaffali e i contenitori dello store della Rough Trade in Brick Lane a Londra e non ho avuto né l’impressione di sostare al capezzale di qualcuno, né, però, che quel posto avesse qualcosa di romantico. Il negozio era stracolmo di merce sia in vinile che su CD, era freddo e pieno di clienti freddi, c’era persino un bar all’ingresso dove gli accompagnatori potevano attendere senza metter fretta a chi dava un’occhiata in giro. Quindi boh, forse è un fenomeno tutto italiano e la colpa di tutto questo è anche mia, che anche se ho smesso con gli mp3 grazie a Spotify comunque compro dischi nuovi su Amazon perché nei negozi non li trovo, e compro dischi usati alle bancarelle, che forse sono la cosa più vicina al ricordo che ho io dei negozi di dischi ma che è un mestiere che non farei mai.

il segreto delle canzoni in inglese

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“Certo, chi comanda non è disposto a fare distinzioni poetiche”, sostiene R. sulla sua pagina Facebook. “Comodo ma come dire poca soddisfazione”, gli risponde qualcuno. “Un bicchiere per bere forte e un bicchiere per bere piano”, ribatte un terzo. “Avessi qualcosa da regalarti e se non ti avessi uscirei fuori a comprarti”, chiude la discussione R. Tutto è accaduto proprio ieri, sotto ai nostri occhi.

Ieri, 23 settembre 2017, si è celebrato il quarantennale della pubblicazione del 45 giri di “Heroes” di David Bowie, quello che si accompagna sul retro a “V2 Schneider” e ha la stessa foto dell’omonimo 33 giri di Bowie con il giubbottino di pelle e con la questione delle pupille in risalto. Potete facilmente capire quindi che questa ricorrenza corrisponda a una festa per tutta la musica in inglese, in cui i veri festeggiati siamo noi che, malgrado non afferriamo la stragrande maggioranza delle parole (ma se siete madrelingua inglesi vi autorizzo a mandarmi a quel paese) continuiamo a soffrire e a emozionarci per la musicalità dell’espressione della voce nel rock, a storpiarne l’essenza riproducendo suoni senza significato nemmeno fossimo degli adriani celentani qualunque, per poi esplodere con convinzione nel ritornello quando, almeno nei passaggi in cui riconosciamo il titolo, siamo sicuri che il testo possa essere verosimile.

Io sostengo che non afferrare le liriche e, di conseguenza, ignorarne il significato è una fortuna perché già il rock (passatemi il termine per generalizzare la musica che ascoltiamo, uso rock per intendere anche tutto il resto) è totalizzante nell’accezione strumentale che intendiamo noi (ovvero con la voce che noi percepiamo come uno strumento, non comprendendo significanti, significati e i relativi costrutti), provate a pensare a cosa succederebbe se cogliessimo i messaggi che ci vengono affidati. Solo in qualche caso ci cadrebbero le braccia, perché sono certo che tra i nostri beniamini stranieri qualcuno si rivelerebbe l’equivalente di un nostro Baglioni nel descrivere così sdolcinatamente le storie d’amore in prima persona.

Per il resto, correremmo a osservarci allo specchio mentre pronunciamo le frasi delle canzoni con maggiore rispondenza nella nostra anima e nel nostro intimo. Già vi devo correre a mettere l’ellepi di Heroes e a cantare “We’re nothing, and nothing will help us” forti di questo nuovo superpotere frutto di un episodio biblico mai visto prima, una sorta di torre di Babele al contrario dove noi miseri uomini veniamo sì dispersi sulla terra con le nostre lingue confuse a causa della nostra presunzione, ma allo stesso modo ci resta ben impresso nel cervello quell’algoritmo che ci svela il modo per decodificare all’istante quelle non nostre e che, alla fine, ci convince che è meglio darci alla musica inglese, anzi, al rock inglese, perché in coscienza siamo consapevoli che non vogliamo più sentire testi in italiano perché non vogliamo sapere la verità.

punk islam, quando suonare in arabo era una cosa normale

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Noi che viviamo a occidente siamo produttori specializzati di luoghi comuni sulla musica che esula dai nostri canoni culturali, una pratica forse in auge anche ad oriente o nel sud del mondo nei confronti di noi europei (per esempio marcando il modo in cui diciamo la erre anziché la elle oppure con battute sul nostro colorito da mozzarella da discount) e soprattutto a noi italiani che siamo ancora lì a farci dettare l’agenda civile, oltre a quella politica, dal primato del presepe o da questioni come se sia giusto o no lo ius soli.

Se già facciamo storie sull’integrazione delle persone foreste e sulle loro consuetudini religiose figuriamoci sulla loro musica. Abbiamo bandito dal buon senso comune termini razzisti come negro o muso giallo ma poi, quando abbiamo uno strumento in mano e qualcuno di chiede di ricreare un’atmosfera cinese, facciamo subito quella sequenza di note dopodiché per fortuna ci fermiamo prima di tirarci gli occhi ai lati per farli sembrare a mandorla, o quando si parla di medio oriente siamo già lì pronti a riprodurre la scala araba e quell’intervallo inconfondibile che sta alla loro cultura come “O sole mio” sta alla nostra. Pertinente, certo, ma generalizzante all’ennesima potenza e da macchietta.

Di questi tempi poi tutto ciò che riguarda la cultura o l’arte araba è un argomento scottante e tema di scontro tra chi ci mette la testa e comprende che è da idioti ricondurre centinaia di milioni di persone islamiche nella sotto-sotto-categoria dei terroristi e, appunto, gli idioti di cui sopra. Quindi se solo rifiuti della porchetta a pranzo o riduci a un semitono l’intervallo tra il primo e il secondo grado e fra il quinto e il sesto di una scala diatonica maggiore, o azzardi una seconda aumentata tra il secondo e il terzo grado e tra il sesto e il settimo, è facile che qualcuno ti auguri che venga esercitata violenza sessuale su qualche membro femminile della tua famiglia.

C’è stato un tempo invece in cui il colesterolo da una parte e l’entusiasmo diffuso per le contaminazioni dall’altra rendevano impossibili queste manifestazioni di ignoranza. Vi faccio l’esempio dei rimandi di certe atmosfere mediorientali nella new wave, un genere notoriamente algido e rigoroso ma che, nonostante ciò, si è dimostrato molto più aperto della testa menomata di certi zotici nazifascisti di oggi. Poi bastava che partisse una musica con con una sonorità vagamente esotica che subito alcune ragazze vestite di nero si mettevano a simulare le movenze più provocatorie di quel genere di danza che conosciamo tutti. O magari è capitato solo a me, quindi non sforzate troppo i neuroni cercando di ricordare e mi spiace che sia un’esperienza che non avete provato perché era molto eccitante. Ci ho pensato proprio qualche giorno fa ascoltando “If only tonight we could sleep” dell’ellepì “Kiss me Kiss me Kiss me” dei The Cure. Così ho iniziato a pensare a tutte le canzoni con questo tipo di influenze, a partire da Yassassin di David Bowie, presente su “Lodger”, “Onda araba” dei Litfiba fino alla più esplicita “Punk Islam” dei CCCP. Ve ne vengono in mente altre? Senza contare che comunque, in pieni anni ottanta, a me piacevano pure i Dissidenten. Ve li ricordate?

caro Garbo

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Ieri sera Blob ci ha regalato una bella sorpresa trasmettendo una puntata intera dedicata a Garbo, con un’intervista intervallata da contributi video suoi – i clip di alcuni suoi singoli, la sua prima partecipazione a Sanremo con “Radioclima”- e interessanti interferenze tratte dai programmi Rai dell’epoca, su tutte qualche minuto di “Dark Entries” dei Bauhaus (che effetto vederli in prima serata sulla Rai) e un’imbarazzante intervista di Sandro Paternostro a Midge Ure degli Ultravox presa a esempio di quanto fossero impreparati la società italiana e i media dell’epoca ai cambiamenti come quelli.

Nell’82 o giù di lì, poco dopo l’uscita di “A Berlino che giorno è”, io avevo quindici anni e, affascinato dalla new wave americana e inglese, avevo interpretato l’esordio di Garbo come un segnale di cambiamento. Ho ricordato così di quando, in una delle numerose riviste musicali che acquistavo settimanalmente, avevo trovato il suo indirizzo in calce a un’intervista, o forse era presente in una scheda con il suo profilo. Avevo così deciso di scrivergli per avere un suo parere proprio sulla nuova musica italiana in cui io anelavo, con il mio primo gruppo, un ruolo di protagonista, proprio come lui. Gli scrissi una lettera di carta, spedita e affrancata, che iniziava proprio così: “Caro Garbo”.

Non è un caso che ci sia stato uno speciale dedicato a Garbo sul celebre programma di RaiTre ieri sera. Da poco la Universal ha ripubblicato i suoi primi due ellepi, “A Berlino va bene” e “Scortati” sia su cd che su vinile. Garbo inoltre partecipa attivamente su Facebook. Il suo profilo è seguito da vecchi nostalgici della new wave come il sottoscritto ma magari non tutti, come me, gli hanno mai scritto una lettera. Talvolta però ho la sensazione, seguendolo su Facebook, che Garbo consideri il fatto di essere considerato l’esponente di maggior successo della musica alternativa di quei tempi con un po’ di fastidio. Sostiene infatti di aver composto ottima musica anche dopo “Cose veloci” e persino adesso, a sessant’anni suonati, continua a dare alle stampe composizioni originali (basta guardare la sua corposa discografia.)

Il problema è che quando sei ricondotto così fermamente dal pubblico in una precisa fase culturale e artistica è difficile che qualcosa ti schiodi da lì, a meno che tu di botto non ti metta a produrre musica completamente diversa ma di grande successo, sufficiente a far dimenticare il resto. Altrimenti, ai concerti e ogni volta in cui si presenterà l’occasione, ti vedrai arrivare gente sfatta dalla mezza età, senza capelli o con i capelli bianchi, in sovrappeso ma in tenuta rigorosamente dark con anfibi o creeper a chiederti di suonare “Vorrei regnare” o “Quanti hanni hai?”. Mi è capitato di assistere a una scena simile sotto il palco di Siouxsie, qualche anno fa. Era in tour per pubblicizzare il nuovo album ma, per tutti noi presenti, i pezzi nuovi altro non erano che minuti di attesa per poter ballare “Christine”, “Spellbound” o “Candyman” e Siouxsie ha avuto pure da ridire, su questo. Una dinamica inevitabile per chi torna sulla scena da anziano dopo tanto tempo e, comunque, un poco cavalca il proprio passato glorioso come driver commerciale per le sue cose nuove. Il rischio che i ragazzi ti snobbino perché sei patetico e i vecchi no lo si corre per ovvi motivi. Guardate alla reunion dei Decibel: con tutta la musica straniera bella che c’è oggi, noi italiani dovremmo farci da parte e non intasare il mercato con roba che ci fa perdere in credibilità.

Sono certo però che Garbo, che trovo un artista completo, colto e di una classe di altri tempi, sia di ben altro livello. Ieri a Blob ha svolto alla grande il ruolo di cerimoniere di quegli anni. Gli avrei voluto però chiedere se ha mai ricevuto e letto la mia lettera e, in caso affermativo, perché non mi ha mai risposto. Anzi, magari approfitterò dei social per chiarire la questione. Ne approfitterò anche per dirgli che, oltre ad avere questo blog, da poco ho deciso anche io una sorta di ritorno sulla scena, quella delle recensioni di dischi. Da qualche settimana collaboro con “Loudd.it”, questo vale anche per voi se avete bisogno di consigli su cosa ascoltare. Sono l’unico Roberto che scrive, quindi è facile rintracciarmi. Potrei recensire le due ristampe di Garbo, prossimamente, ed è facile indovinare il voto che gli darò.

dischi con lo sconto

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Da “Lettere alla redazione”, Music, numero di Agosto 1980.
p.s. Dino Manica, se leggi questo blog fatti sentire.

il 77 è stato importante, ma il 97 non è stato da meno

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Il 77 è stato importante, ma il 97 non è stato da meno. Mi ricordo perfettamente il momento in cui la persona che era al mio fianco sulla mia Panda bianca targata Alessandria mi ha detto che “Tabula rasa elettrificata” era al primo posto in classifica. Stavo guidando sul lungomare della mia città e il cielo ricordava incredibilmente quella della Mongolia ritratto nella copertina del disco dei CSI. Pensavo che nella hit parade italiana potevano allora finirci anche “Hai paura del buio” e l’omonimo dei Subsonica o anche “Crx” dei Casino Royale, persino gli Scisma o i Blu Vertigo, tutti di quell’incredibile anno lì. Ho canticchiato quindi quel ritornello che diceva “voglio ciò che mi spetta” e mi sono immaginato la rivoluzione, quella vera, fatta con le band underground, mica quella dei cortei e dei contestatori. Ho pensato a una classifica di dischi più venduti con il meglio della musica italiana, quella che conta, quella che poi a un certo punto dev’essere diventata vecchia e ha lasciato il posto numero uno della classifica ai Dark Polo Gang.

Ieri è stato però il ventennale di quel primato. Ferretti ancora di sinistra il più venduto in Italia, nessuno di noi riesce ancora a crederci, oggi, che quella scalata alla vetta, quella presa del palazzo si è compiuta davvero. Senza scompormi ho chiesto così alla persona al mio fianco se ne fosse davvero sicuro perché, potete immaginare, la notizia mi aveva lasciato sbigottito. La cosa mi è stata confermata una seconda e poi una terza volta, forse una quarta, forse c’è stato persino un giuramento e il cielo sembrava ancora lo stesso della Mongolia, e forse davvero quello era un segnale. I CSI. Al primo posto. Il 97 è uno dei miei anni preferiti, ci potete scommettere.