top ten anzi eleven 2017

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Dite quello che volete, ma la musica che c’è di questi tempi a me piace sempre di più. Mentre la vecchia guardia piano piano se ne va, i vuoti lasciati da certi pezzi da novanta, anche se non saranno mai colmabili, lasciano ampi margini a disposizione di gente che pubblica davvero delle cose molto buone. Anche quest’anno lancio un appello a quelli che “oggi fa tutto schifo”: provate a dare un occhio, anzi, un orecchio a questi dischi usciti nel 2017, e provate a essere obiettivi. Questa è la mia umile classifica, sicuramente mi sono perso qualcosa ma, davvero, come si fa a stare dietro a tutto?

11 ST. VINCENT – Masseducation
Provate a distrarvi dalla copertina molto orghl e approcciate con la dovuta attenzione questo poliedrico disco. Ormai St. Vincent ci ha abituato a standard di qualità elevatissimi, frutto di una maturità musicale sorprendente.

10 DAUGHTER – Music From Before The Storm
Un avvincente gioiello post-rock e a tratti ambient, un po’ sotto il precedente “Not to Disappear” ma degna continuazione artistica di una delle band inglesi più interessanti del momento.

09 QUEENS OF THE STONE AGE – Villains
Le frange radicali hanno disertato il plauso di questa ottima prestazione solo perché c’è lo zampino di Mark Ronson e c’è pieno di sintetizzatori. Al contrario, si tratta di un disco riuscitissimo e giusta evoluzione per un gruppo che rifiuta ogni tipo di etichetta.

08 GHOSTPOET – Dark Days and Canapes
Per un Tricky deludente, ecco un Ghostpoet eccezionale. Continua l’esplorazione del vocalist britannico verso le contaminazioni rock e wave come basi del suo stile parlato/hip hop, una miscela che rende il tutto estremamente interessante.

07 LANA DEL REY – Lust For Life
C’è poco da dire. Un album ricco di collaborazioni che porta l’arte di Lana Del Rey a vette indiscutibili. Vi sfido a trovare un difetto a questo disco, anzi, a trovare qualcosa che non vada nella personalità musicale di Lana Del Rey.

06 THE HORRORS – V
“V” è la summa di tutto quanto i The Horrors sanno maneggiare con destrezza. Shoegaze, dreampop, electro, psichedelia e persino qualche matrice vagamente dark re-interpretata secondo la loro decisa (e vincente) personalità musicale. (qui trovate la mia recensione).

05 THE NATIONAL – Sleep Well Beast
La band dei gemelli Dressner continua a sfornare roba di qualità. C’è da chiedersi come sia possibile mantenere un livello così tirato, dopo così tanti anni. I The National sono pronti per entrare nel gotha dei protagonisti musicali di tutti i tempi. Se non l’avete ancora acquistato, non perdetevi la versione in vinile, il packaging merita tutti i soldi spesi.

04 PROTOMARTYR – Relatives In Descent
Il sensazionale nuovo album del quartetto di Detroit, con le sue tinte cupe e atmosfere post-punk alternate a episodi violenti e dirompenti, non lascia speranza e conferma il valore artistico della band di Joe Casey. (qui trovate la mia recensione)

03 VALERIE JUNE – The Order Of Time
Valerie June è una specie di angelo. Il suo timbro alla Billie Holiday, il suo stile tra folk, blues e soul, la sua chioma di dread e il suo songwriting mi hanno letteralmente stregato sin dal suo precedente ellepi. Questo disco è un capolavoro, fidatevi.

02 ALGIERS – The Underside of Power
Temevo fossero scomparsi dopo il primo dirompente album omonimo, e invece fortunatamente sono tornati, ancora più incazzati di prima. Impegno, contenuti, rabbia, sperimentazione, punk, soul ed elettronica. C’è così tanto, dentro “The Underside of Power”, che il disco sul piatto rischia di esplodere a ogni solco.

01 NADINE SHAH – Holiday Destination
Ed eccola, la regina del 2017. IL disco dell’anno. Spero venga in tour in Italia, sarò in prima fila. Ne ho scritto qui, ma prima di leggere correte ad ascoltare il disco.

ecco chi ne sa di più

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Il più efficace antidoto contro la presunzione è quello di frequentare gente che ne sa più di noi di quella cosa per cui ce la tiriamo di brutto. C’è chi l’ha presa molto alla larga che più larga di così non si può. Persone che si sentivano primi in classifica nel loro paesello di origine che poi si sono trovati a lottare costantemente per i play-off nella città capoluogo di regione per poi trovarsi ogni anno in zona retrocessione a Milano e finire a giocare direttamente in serie B a Londra. Si tratta di una metafora, spero ci siate arrivati, o meglio l’esempio di uno sportivo può anche essere facilmente reperibile nella casistica relativa a questa teoria ma non so, non m’intendo molto di sport e qui vi posso assicurare che chiunque ne può sapere più di me e non posso certo sentirmi superiore a qualcuno di voi. Ma vi posso confermare che trovarsi circondati dai propri omologhi ci mette alle strette: o si soccombe alla crisi isterica dovuta all’urgenza di rimettere in discussione le proprie competenze per riuscire a sopravvivere o ci si mette nell’ottica che l’universo è una roba così estesa che non si può nemmeno immaginare, quindi qualcuno o qualcosa più in gamba di noi da qualche parte prima o poi spunterà fuori. Per guarire dal delirio di onnipotenza in ambito musicale, per farvi capire, io mi sono messo nella redazione di un web magazine di recensioni musicali. Da sempre abituato a primeggiare in questo o quel genere, oggi finalmente mi trovo in mezzo a professionisti del settore che mi stanno massacrando, in quanto a conoscenze. Ieri sera ci siamo visti per una cena pre-natalizia e finalmente sono stato ricondotto a forza nel mio metro quadro di sapere, fatto delle poche cose che conosco da vicino ma che sono una goccia nel mare di informazioni che un critico musicale dovrebbe aver ben assimilato per fare questo mestiere. Per esempio, ho saputo dal collega recensore seduto al mio fianco destro che la protagonista del video di “Out of control” dei Chemical Brothers, che è uno dei pezzi che ho ascoltato di più da sempre, è Rosario Dawson, una cosa che chiunque dotato di un minimo di spirito di osservazione avrebbe notato subito e io invece no. Ho ancora molto da imparare.

stranger punks [ATTENZIONE SPOILER]

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Ma forse non avete colto la citazione di Undici conciata come Dave Vanian dei Damned.

dischi che hanno fatto la storia: night time dei killing joke

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[recensione pubblicata su Loudd.it] Quello straordinario tritatutto timbrico che sono stati gli anni ottanta non ha risparmiato nessuno. A differenza di oggi, in cui con il senno derivativo del poi le band possono sbizzarrirsi sul richiamare con i suoni questa o quella decade preferita a cui ispirarsi, mai come in quella fase artistica è stato uso comune omologare i propri pezzi con certe linee guida che consentivano di rimarcare la differenza con il passato prossimo e ambire, allo stesso tempo, a un decoroso riconoscimento di vendite.

Un compromesso per nulla riduttivo, almeno visto da qui. Ma per i fan di un gruppo di durissimi e purissimi come i Killing Joke, “Night Time”, almeno ai primi ascolti, deve aver sicuramente causato più di un malessere da disorientamento. Che ci fanno chitarre così ricercate, mandate di effetti sulla batteria e persino tappeti di string sotto i pezzi degli stessi apocalittici autori di “Requiem” e “Wardance”?, si saranno chiesti in molti. Attenzione, però. Per i Killing Joke non c’è stata nessuna deriva commerciale, ci mancherebbe, solo un inabissamento nel dark più profondo dei suoni e delle tematiche dell’epoca che però, al momento della pubblicazione, in perfetto mood con i tempi che correvano, ha conferito loro una esposizione mediatica forse inattesa.

Per questo “Night Time”, quinto album in studio della band di Jaz Coleman, è stato una vera e propria pietra miliare e non solo della loro carriera. A cavallo tra i pungenti esordi post-punk e la svolta industrial successiva che ha avuto inquietanti presagi già a partire da “Extremities, Dirt & Various Repressed Emotions”, la parentesi di “Night Time” e del successivo (struggente quanto ingiustamente sottovalutato) “Brighter Than a Thousand Suns” costituisce l’apice senza ritorno di un fenomeno culturale e un’estetica musicale unica nella storia, a cui molti artisti alla ribalta nei decenni successivi hanno pagato un importante tributo.

La versione in vinile del disco presenta la sua cupezza già dall’artwork della cover e dalla busta interna, ancora prima di soffermarsi sulla lettura dei testi. Uno stile che trova la conferma sin dai solchi iniziali del lato A con la titletrack, un classico della dark dance già intriso degli elementi che caratterizzeranno poi l’intero album, a partire dal suono di chitarra e da certi arpeggi (e certi accordi) che ricorreranno in quasi tutte le altre canzoni. La luce di “Night Time” continua a rimanere rigorosamente spenta nella successiva “Darkness Before Dawn”, in cui risaltano il basso profondo del compianto Paul Raven e una trascinante parte ritmica, su cui la vocalità di Coleman dà il suo massimo.

Non ci sono poi abbastanza parole per descrivere la traccia successiva, “Love Like Blood”, l’inno di una generazione e senza dubbio uno dei brani meglio riusciti della storia del rock di tutti i tempi, una di quelle canzoni così perfette che si dovrebbero insegnare nelle scuole e tramandare di generazione in generazione anche solo per come sono in grado di far nascere l’amore e la passione per la musica.
Si torna alla cattiveria con “Kings and Queens” e “Tabazan”, due punti di collegamento con il passato dei Killing Joke, soprattutto con il precedente ellepì “Fire Dances”, e con “Multitudes”, che riprende la ritmica articolata e obliqua di “Love Like Blood”.

“Night Time” si chiude quindi con due altri pezzi di indubbia qualità: “Europe”, visionario e avvincente inno per un continente da giorni contati, e “Eigthies”, il manifesto di un’epoca di cui i Killing Joke di “Night Time” sono stati gli interpreti più autorevoli e brano oggetto di una controversia con i Nirvana a causa della evidente somiglianza con “Come As You Are”, querelle peraltro elegantemente archiviata dai Killing Joke a seguito della morte di Kurt Cobain.

“Night Time” ebbe un grande successo internazionale, arrivando 11esimo nelle classifiche UK, e tutt’ora è un must-have di ogni collezione discografica che si rispetti. Il tentativo dei Killing Joke di raggiungere e mantenere un equilibrio tra antagonismo e accessibilità non durò però a lungo. D’altronde canzoni come “Love Like Blood” capitano una volta nella vita e, spesso, sono causa di frustrazione in quanto impossibili da eguagliare nel resto della carriera. In fin dei conti, però, è giusto così. È proprio la rarità di una cosa a mantenere inalterata la sua bellezza tanto che, ancora nel 2017, “Night Time” può essere giustamente considerato un indiscusso capolavoro post-punk (e non solo).

uan ciu uan ciu prova sa sa prova sa

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I cantanti (femmine e maschi, ça va sans dire) sono i musicisti più fortunati perché, lo abbiamo ripetuto tante volte, quando si presentano al sound check dei concerti non devono portare nulla se non se stessi, un eventuale libello per sbirciare i testi se occorre (anche se mi sento di raccomandare di non farlo almeno finché siete giovani perché non ci fate una bella figura) e un eventuale groupie (ancora femmina e maschio, ça va sans dire) da far sedere o posizionare in prima fila nella consueta modalità adorante. Ci sono poi quelli un po’ fissati che si portano il loro microfono ma si tratta di casi sempre più rari. Il microfono in realtà è solo un’appendice dell’apparato fonatorio che serve per amplificarne la portata, perché il vero strumento del cantante è la sua voce. Non per questo i veri cantanti non si negano mai, nella loro foto profilo di qualche socialcoso, uno scatto ripreso con il microfono a gelato (che da qui in poi chiamerò, per semplicità, microfono) ben serrato nel pugno e posto perpendicolarmente alla bocca spalancata. Stiamo parlando di una postura da sempre presente nell’iconografia di base del rock con alcune varianti: microfono in una mano e l’altra a tenere l’asta, microfono retto con entrambe le mani, microfono posizionato sull’asta e cantante con due mani libere utilizzate in vario modo, per esempio nelle tasche posteriori dei pantaloni o in quelle anteriori, o entrambe le mani appese all’asta o, soprattutto, mani libere di fluttuare nel vuoto, illustrare parole, gesticolare emozioni, e così via. La tecnologia però ha messo i bastoni tra le ruote all’evoluzione di questo comportamento inventandosi i microfoni a orecchio o ad archetto, diffusi soprattutto tra i cantanti ballerini e, come sapete, oggi di cantanti ballerini a causa dei talent il mondo è pieno. Se fossi un cantante, però, senza microfono e asta davanti mi sentirei nudo di fronte al pubblico, non saprei dove aggrapparmi e, soprattutto, perderei l’occasione di scattare e postare suo mio profilo Facebook quei primi piani di tre quarti con il microfono tradizionale puntato verso la bocca che, sarà per via dell’immaginario rock a cui siamo abituati tutti, conferisce carisma ai cantanti aumentando la modalità adorante di/delle groupie (femmine e maschi, ça va sans dire) seduti o posizionati in prima fila sotto il palco. Per questo spero che microfoni e aste porta-microfono resistano per sempre, in barba alla tecnologia e ai cantanti ballerini.

l’ultima volta non arriva mai

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Una canzone dura meno di cinque minuti mentre per un film ci si impiega almeno un’ora e mezza e per un libro ci vuole come minimo una giornata, a essere ottimisti e a non fare altro nella vita. Questo è il motivo per cui i libri si rileggono molto più raramente di quanto si vedono i film, anche se si tratta di un comportamento assolutamente soggettivo, come potete immaginare. Nella nostra vita ci capita di rivedere un film più volte perché magari lo passano in tv, o ne abbiamo una copia su dvd in casa oppure è disponibile su Netflix. A parte la bellezza in sé, si suppone che se rivediamo un film è perché ci è piaciuto di brutto, la sicurezza di sapere come finisce è comunque appagante e consente di seguirlo con maggior rilassatezza, almeno per me è così. Analogamente, rileggendo una storia stampata, appena inizia a delinearsene il finale iniziamo a sentirci più tranquilli sapendo che le cose stanno per tornare a posto o, se sono cose brutte, finiscono lì e, riposto il libro nello scaffale, si ristabilisce l’equilibrio in cui la finzione e la nostra vita tornano a essere vicende separate.

La canzone invece dà un contributo in appagamento piuttosto veloce e immediato, differente dall’arte figurativa, anch’essa istantanea, in quanto la musica ha una proprietà dinamica indubbia per quale, modulandosi e trasformandosi lungo la sua durata, ne prolunga il piacere nel tempo ma toccando diversi punti dei nostri sensi durante l’ascolto, non so se mi spiego. Non solo. L’ascolto di una canzone può essere ripetuto fino alla nausea. Resta il mistero, almeno io non ci ho mai capito nulla, di come facciamo a renderci conto che la canzone che abbiamo appena scoperto sarà una di quelle che poi ascolteremo migliaia di volte nel corso della nostra vita. E, visto a posteriori, chissà come ci è sembrata quella canzone lì, quella che è presente da sempre nelle nostre compilation o playlist, la prima volta che l’abbiamo sentita. Chissà se c’è stata una specie di scintilla come accade nelle storie d’amore oppure c’è un altro tipo di reazione chimica a cui nessuno ha ancora trovato una risposta.

avete rotto il cazzo con le sigle dei cartoni animati

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Chissà se in qualche altro pianeta o in qualche altra specie vivente esiste un fenomeno analogo. Da quarant’anni le sigle dei cartoni animati occupano un ruolo di ampio rilievo nella nostra cultura. Il che significa che, da quarant’anni, alcuni aspetti marginali di una forma di entertainment piuttosto marginale vengono di continuo riesumati dalla discarica dell’oblio che in contesti naturali si meriterebbero, per una serie di fattori che vanno da una società che non riesce a crescere a un’industria culturale alla frutta che raschia il fondo del barile, approfittandosi – giustamente – della domanda di una società che non vuole saperne di diventare adulta.

Volete qualche dato? I Subsonica cantavano una versione drum’n’bass della sigla di “Daitarn 3” nel 1998 ma una band in cui militavano alcuni loro membri, dal nome “Gli amici di Roland”, è stata in attività dal 1995 con un repertorio che attingeva al suddetto genere. Il dibattito sulla voce solista della colonna sonora di “Jeeg Robot” appartenente o meno a Piero Pelù risale almeno a un lustro prima, quando i Litfiba hanno iniziato a scalare le classifiche rock nazionali. Questo significa che l’attenzione sulle colonne sonore dei cartoon anime è stata sempre piuttosto costante.

Poi è successo che l’Internet, il cui ruolo principe è quello di cristallizzare le peggio cose in un eterno presente digitale, ha ibernato tutto questo fenomeno traslandolo dalla generazione dei pionieri del web a quella dei millenials, tanto che nulla sembra essere cambiato e oggi, al termine della prima decade del mese di novembre 2017, esiste un unico pastone di reminiscenze condivise di cui beneficiano vecchi e giovani allo stesso modo, ciascuno ricreando il lungo o breve passato a suo piacimento e a seconda del vissuto individuale, reale o inventato o trasmesso o indotto o acquisito sui social media che sia, e che giustifica appieno il clamore che sta suscitando in questa fase, così liquida da sembrare sciolta, la pubblicazione di un intero album di sigle dei cartoni animati re-interpretate dalla loro cantante originale, Cristina D’Avena, con molte pop star italiane figlie della stessa fase così liquida da sembrare sciolta di cui sopra. Spero di essermi spiegato.

E se volete qualche altra pillola di psicologia sociale da tanto al mucchio, visto che tutti quanti siamo laureati all’università della vita, abbiamo passato un’infanzia talmente edificante che oggi è la società intera ad essere infantilizzata e l’infantilismo ha permeato l’economia, la politica, il costume e su tutti la cultura, tanto che viene da chiedersi perché non la facciamo finita tutti in blocco a trenta o quarant’anni (iniziate pure voi), se quello che c’è dopo non interessa più a nessuno e, a dirla tutta, è scomodo, dispendioso, anti-estetico e una gran rottura di coglioni.

La storia del passato (ormai ce l’ha insegnato) è stata contraddistinta da una scarsissima attenzione per i più giovani, mandati in miniera o a mendicare con i fiammiferi da vendere, abusati e tirati su a schiaffoni, nel migliore dei casi. Nell’era del benessere totale invece stiamo crescendo i nostri figli nella convinzione che loro siano i veri adulti e che la loro sia la fase principale della vita, la stessa che passa in un soffio e di cui poi dopo ti ricordi ben poco, giusto qualche sigla di cartone animato ma solo perché gente del calibro di Cristina D’Avena ci si deve sostentare. Così lei e la sua casa discografica – giustamente – raschiano il fondo del barile con trovate anche geniali come questa dei duetti, con la terribile conseguenza che a cinquant’anni ci viene riproposta, per l’ennesima volta, la nostra infanzia quando invece dovremmo concentrarsi sullo scivolo privo di attrito che, da qui a chissà quanto (speriamo il più lontano possibile), ci inghiottirà nel posto o nel non-posto da dove siamo venuti e dove, si spera, non esisteranno i cartoni animati e loro sigle, piuttosto al massimo qualche aria tratta da qualche operetta che piaceva tanto ai nostri genitori.

il problema con i voti alti

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Non sono un critico musicale attendibile. Ai dischi che non mi piacciono darei sempre come minimo due, o anzi non li ascolterei nemmeno, li lascerei alla recensione di qualcun altro. Ai dischi che mi piacciono darei otto, nove e dieci con il risultato però che a furia di promuovere a pieni voti gruppi e artisti si perde in credibilità. Poter parlare bene di ciò che reputiamo di valore è un vantaggio che non ha eguali e se riusciamo a farlo senza nessun problema di riconoscere quando una cosa è fatta bene, accantonando la presunzione e il pelonelluovismo, possiamo dirci di categoria superiore. Tutto questo per introdurvi il mio impallo del momento che si chiama Protomartyr e che sono un gruppo di Detroit cupissimo e davvero fuori da ogni canone giunto al quarto album, il primo pubblicato per la Domino. Il genere è un post-punk a tratti garage sovrastato da voce cavernosa e biascicata. Il cantante sembra un geometra uscito in pausa pranzo dall’ufficio del catasto e sono agli antipodi dell’iconografia del genere, quella degli Interpol, per intenderci. Da una decina di giorni ascolto il loro nuovo disco “Relatives In Descent” ossessivamente proprio come piace fare a me, abusandone senza motivo con gli auricolari ficcati nelle orecchie e a tutto volume quando in casa non c’è nessuno e non corro il rischio di essere rimproverato per un comportamento da ragazzino, arrivando all’ultima traccia per poi ripartire dalla prima e tutto questo ripetuto all’infinito. Non capisco cosa ci sia di male. Comunque c’è qualcuno che la pensa come me e che ha dato lo stesso voto che darei io a questo disco, ovverosia 9/10, e che quasi grida al miracolo. Mi riferisco alla recensione di “Relatives In Descent” appena pubblicata su Loudd.it che non lesina in toni entusiastici. E, guarda caso, l’autore si chiama proprio come me. Che combinazione.

dimmi che genere fai e ti dirò chi sei

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Essere fraintesi musicalmente è una delle sensazioni peggiori in cui si possa imbattere un artista o, peggio, una band. Un artista che fa musica da sé se la prende individualmente. Le band invece notoriamente sono più presuntuose del singolo perché, come è facile immaginare, entra in gioco la dinamica del branco e la consapevolezza delle proprie potenzialità – reali o immaginarie. E quindi spero vi sia chiaro che la lesione dell’ego, in caso di cantonata altrui, sarà più profonda perché non solo moltiplicata per il numero dei componenti, ma anche amplificata all’ennesima potenza per spirito di appartenenza a una squadra. In poche parole, un macello. Per farvi capire, a me è capitato un paio di volte. Suonavo rock progressivo e siamo stati scambiati per gruppo heavy metal solo perché, in un brano, avevamo scelto un andazzo ritmico che taluni riconducevano a una celebre hit degli Iron Maiden. Un’altra volta, almeno trent’anni dopo, la registrazione di un brano post punk cantato in italiano, roba per la quale c’eravamo ispirati addirittura ai The Sound di “Jeopardy”, è stata scambiata per poco più di un tributo ai Litfiba del periodo tamarro di El Diablo. Per non parlare di quella volta in cui ho fatto ascoltare al mio insegnante di pianoforte un paio di pezzi del mio primo complessino rock registrati alla bell’e meglio su una cassettina e quello si è addormentato durante la riproduzione, e anche se qui siamo un po’ off-topic mi serve come assist per la vera notizia: quelle canzoni lì che per noi erano di genuino rock italiano, vi parlo del 1982, per altri era solo rock demenziale. Demenziale a me? ci eravamo chiesti tutti quanti. Noi così duri e puri e seri e veri? Dare del pop a un rockettaro, smorzare le velleità reggae altrui criticando l’assenza del levare, sottolineare l’orecchiabilità del ritornello a un cantante doom metal o banalizzare il jazz di uno che ci tiene ammiccando il suo essere perfetto per una trasmissione di Bertallot con quella sua musica così superata può portare gente che suona a vere e proprie crisi di identità. Se volete mantenere l’amicizia con un musicista, il mio consiglio è di dirgli sempre quello che vuole sentirsi dire tanto, tempo qualche anno, smetterà.

quanto ti senti una cosa dentro è perché l’hai fatta tua

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Se avete figli che praticano qualche sport e su Facebook avete vostro malgrado stretto amicizia con i genitori dei compagni di squadra vi sarà capitato sottomano la foto del rugbista Martin Castrogiovanni che torna in campo con la faccia insanguinata per lottare strenuamente sino alla fine e condurre i compagni verso la sofferta vittoria e tutti che gli mettono i like perché secondo loro la vita è questa. Non mollare mai, nemmeno contro vento. Io ho visto una ragazza di quattordici anni messa sotto pressione dal suo allenatore altamente competitivo fuggire piangendo verso gli spogliatoi in piena gara di pallavolo, mettendo a rischio di sconfitta a tavolino la sua squadra. Alto tradimento? Poi basta un refresh della pagina del browser ed ecco Kevin Spacey tirato in ballo per il thread del momento e tutta la pletora di personaggi dello spettacolo vittime e carnefici di un gioco delle parti tra molestie e favori interessati concessi per far carriera. Per questo bisogna darci dentro con il post punk. Non si rischia nulla, non si vince niente, si soffre e basta per i turbamenti dell’esistenza stessa e, soprattutto, non ti caga nessuno. Basta stare fermi. Basta vivere. Ecco perché vorrei suonare nei Protomartyr, che secondo me sono il gruppo del momento, perdenti quanto basta. Provate a cercare una foto della band e capirete il perché.