lascia o raddoppia?

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Non riuscirete mai a trattenere un batterista dal concludere un pezzo dal vivo raddoppiando il tempo, ovviamente se la canzone lo permette ma talvolta anche se non lo permette. Questo probabilmente giustifica l’esistenza nella produzione musicale di tutti i tempi di numerosi esempi riuscitissimi di raddoppio finale.

Ma facciamo un passo indietro: cos’è un raddoppio? Un raddoppio è quando un pezzo a velocità media viene portato al doppio della velocità semplicemente eseguendo due battute laddove prima ce ne stava solo una, ovvero passando a suonare due beat al posto di uno. Quindi se prima contavate uno due tre quattro, raddoppiando conterete due volte per ogni numero precedente un-due tre-qua cin-sei set-ot. Non è chiaro? Facciamo qualche esempio pratico.

Ci sono pezzi famosissimi che utilizzano la tecnica del raddoppio per far esplodere il brano, rendendolo efficace e divertentissimo, soprattutto da ballare. L’esempio più famoso forse è “Should I Stay or Should I go?” dei Clash, che ha il ritornello al doppio della velocità rispetto alla strofa, secondo la procedura che vi ho descritto sopra:

 

Un’altra riuscitissima canzone costruita in questo modo sull’alternanza tra tempo base e il suo doppio è “99 Luftballons” di Nena:

 

Per non parlare di un classico dei Police che è “So Lonely”:

 

La resa di mettere il raddoppio alla fine della canzone è invece differente, in quanto porta la crescita del brano a un climax via via maggiore, destinato poi a esplodere all’ultimo colpo decisivo. Si tratta di una figura retorica musicale (passatemi il termine) che, al contrario delle precedenti, è piuttosto tamarra. Non a caso uno dei più illustri esempi è “Paradise City” dei Guns N’ Roses, che immagino ricordiate (mio malgrado) tutti:

 

Ma ci sono esempi a me ben più cari di raddoppio finale in contesto tutt’altro che zarro. Certe volte l’elettronica fa la parodia del rock, decontestualizzando le sue forme più comuni come riff, assoli, iconografia e, anche, il raddoppio finale. Con risultati sorprendenti. Non ci credete? Provate ad ascoltare il finale di “Vienna” degli Ultravox, a 3:27 circa:

 

o, ancora più iconoclasta, la versione extended di “Sounds like a melody” degli Alphaville a 03:28:

 

E allora, che si fa? Lasciamo o raddoppiamo?

abbassa la tua radio per favore

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Non so che spot fosse ma ricordo solo che riproponeva una canzone più che discutibile che è “I can’t stand it (no more)” dei Twenty 4 Seven, un gruppo che Wikipedia definisce addirittura di eurodance e che, se Dio vuole, non esiste più. Il titolo stesso incorpora il destino di tale pezzo nel nome: ti porta a sfinimento e non la sopporti più. Ma la propensione o meno all’ascolto non vale se la nuova moda è quella di usare lo smartphone come una tv o uno stereo portatile sui mezzi pubblici e di farlo anche nei casi in cui non si dispone di un auricolare, includendo così gli astanti, loro malgrado, nella fruizione involontaria del servizio.

Un ragazzo qualche posto più in là, sulla metro, poco fa ha fatto partire il trailer di un film da commentare con gli amici ma, come accade per molti dei contenuti di cui usufruiamo gratuitamente sul’Internet, il dazio da pagare è la pubblicità prima che inizino che in alcuni casi la si può skippare in altri no. A me capitano sempre casi no, e il caso vuole che a introdurre il video in questione ci fosse una delle canzoni più idiote della storia della musica mondiale, giustamente condannata all’oblio se qualche creativo del cazzo non l’avesse riesumata a scopi commerciali.

Per non parlare del trailer che l’ha seguita, che era quello del nuovo film di Ligabue per il quale non sorprende che in molti si chiedano quale sia la tonalità del film, che tanto poi la successioni di accordi della pellicola è facile da intuire. Quando invece mi imbatto in ragazzini che ascoltano la loro musica ad alto volume, disturbando me e tutti gli altri passeggeri con il loro reggaeton del cazzo, mi viene voglia di accendere il mio, di smartphone, e mettere a palla qualcosa come i Rage Against The Machine, giusto per mettergli in testa che non è tanto il volume con cui danno fastidio quanto la loro musica di merda.

non sono video ma cortometraggi

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Può piacervi o meno Liberato, la sua musica e il suo progetto, ma la Napoli dei suoi video vista con gli occhi di Francesco Lettieri alla regia ha un fascino senza confronti.

la mostra sui Pink Floyd a Roma io l’ho già vista a Londra l’estate scorsa

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E chi se ne importa, direte voi. Comunque, anche se non ho visto quella di Roma, e supponendo sia tale e quale, il mio consiglio è di andarci e, cercando di spoilerare il meno possibile, vi spiego perché.

Il format è lo stesso della bellissima mostra dedicata a David Bowie che ho visitato a Bologna due anni fa. Prenoti il biglietto, entri all’ora prestabilita (questo almeno al Victoria and Albert Museum) e ti metti in testa le cuffie Sennheiser perché – giustamente – una mostra musicale è giusto che abbia la musica come protagonista. Il dispositivo collegato alle cuffie consente di ricevere un segnale diverso a seconda di dove ci si posiziona. Il sistema wifi localizza infatti ogni singolo visitatore ed è possibile ascoltare un audio diverso contestualizzato ovviamente a ciò che si sta guardando. Se non sentite nulla muovetevi e sistematevi meglio, probabilmente è questione di qualche centimetro.

Il percorso della Pink Floyd Exhibition si snoda lungo stanze traboccanti di cimeli, vestigia e nostalgia secondo un ordine più o meno cronologico che, come potete immaginare, va da Syd Barrett alle ultime cose. Anche qui, come nel caso di Bowie, ci sono strumenti, foto, manifesti, oggetti, richiami alla società e alla cultura degli ultimi cinquant’anni, video e molto altro. Il sistema del numero chiuso per ogni batteria di ingressi tende all’eccesso, almeno era così a Londra. Una volta dentro puoi rimanere quanto vuoi, ma quelli che restano, sommati a quelli che entrano, rendono un po’ faticosa la visita. Pazientate per aspettare il vostro turno davanti alle bacheche e non demordete perché c’è tanta roba interessante.

Per vedere la mostra non serve essere dei fanatici dei Pink Floyd. Io, per esempio, mica lo sono. I primi dischi li trovo piuttosto difficili, adoro il periodo che va da “Meddle” a “The Wall” perché sono stati la colonna sonora del mondo quando ero bambino o poco più, non ho mai ascoltato con attenzione gli ultimi lavori perché, una volta scoperto il post-punk, non sono tornato mai più indietro. Nonostante ciò, la mostra è da vedere perché i Pink Floyd sono un dato di fatto, fanno parte del nostro vissuto come la natura, le macchine, i treni, l’elettricità, i computer. Non so se mi sono spiegato ma spero di sì.

Ora vi do delle anticipazioni, quindi se preferite l’effetto sorpresa cliccate qui e andate sul sito del Museo d’Arte Contemporanea di Roma perché di arte contemporanea si tratta, a tutti gli effetti. Ci sono due cose bellissime (tra le tante), e lo avevo già scritto qui quando ho parlato della mia vacanza in UK: una sala dove puoi ascoltare per quante volte vuoi “The great gig in the sky” contemplando una versione rotante in 3D del prisma triangolare della copertina di “The dark side of the moon”, in cui ho pianto copiosamente, e un’area in cui hai a disposizione un mixer con le tracce separate di “Money” per divertirti a destrutturarlo come ti pare. Poi il salone finale in cui ti sdrai per vederli suonare un brano (non vi dico quale) dal vivo su tutte le pareti, una tecnica immersiva che avevo già apprezzato alla mostra di Bowie.

Vi segnalo anche questa recensione più autorevole della mia così, se volete un parere più esperto, siete serviti. Comunque, come vi dicevo prima, non perdetevela.

la cover di Zombie del mio amico Mauro

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Ogni anno ha i suoi martiri celebri uccisi dal tempo, dalle malattie, dalla depressione, da tutto quanto è letale per il genere umano. Gente normale, VIP, ricchi, poveri (anche Ricchi e Poveri), ormai è un dato di fatto: non c’è scampo per nessuno. Un pensiero è oggi d’obbligo così per Mauro. Mauro era un cantautore per passione, di quelli che salgono sul palco appena usciti dall’uffico ancora con il vestito da impiegato. Capelli grigi perché già avanti con l’età, camicia azzurra con maglioncino girocollo blu e chitarra elettrica. In concerto ci faceva sempre la figura dell’outsider perché non era abbastanza carismatico da potersi permettere di passare per uno a cui ricoprire quel ruolo non gli interessava. Risultava un po’ sfigato e basta, come tutti quelli un po’ sfigati che comunque hanno il diritto di esibirsi con la propria arte come quelli vincenti. Mauro aveva quarant’anni suonati all’uscita di “No Need to Argue”, l’album che ha sancito il successo mondiale per i Cranberries. Quell’album gli era piaciuto così tanto che aveva deciso di mettere in scaletta una cover del celebre “Zombie”.

Ve lo immaginate? Una voce maschile, non baritonale comunque non altissima, che cerca di rendere i singhiozzi di Dolores O’Riordan, con un abbigliamento ordinario e, per di più, in quei posti di provincia in cui si organizzano i concerti degli sconosciuti. Ciao Mauro, chissà se la canti ancora, quella canzone. A me, invece, piaceva molto “Salvation” (presente nell’album successivo “To the Faithful Departed”) ma no, Mauro non la suonava. Piaceva a me come a tutti, del resto, così bella e così divertente da pogare. Che amarezza, però.

che cosa vuol dire to give a fuck

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Le parolacce nelle canzoni italiane non trasmettono nessun grado di rabbia o insofferenza. Piuttosto hanno un timbro goliardico, per esempio nelle canzoni di Elio e le Storie Tese, irriverente, penso a “L’avvelenata” di Guccini, addirittura patetico e imbarazzante, è il caso di “Vaffanculo” di Masini. Il rap e il trap dei nostri giorni non rientrano in questa casistica perché traducono in flow il modo in cui si esprimono i nostri figli, tale e quale. Io, come sapete, sono esterofilo al 100%, per questo ho l’autorevolezza di sostenere che, invece, le parolacce nei testi delle canzoni inglesi o americane hanno tutto un altro valore e, soprattutto, un fascino senza confronti. C’è il primo verso, in questo singolo fresco di uscita degli Shame, band di South London altrettanto fresca di uscita, che dice

My nails ain’t manicured
My voice ain’t the best you’ve heard
And you can choose to hate my words
But do I give a fuck

Il pezzo è una bomba, la band pure, il loro disco è superlativo, e (da come lo dice) come non gliene frega un cazzo a Charlie Steen – il cantante – non gliene frega un cazzo a nessuno.

forse non può rivelarci tutto, ma quello che ci dice è già abbastanza

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“Blackstar”, l’ultimo disco di Bowie uscito a ridosso del suo compleanno e della sua morte, due anni fa, è sicuramente l’album che ho ascoltato di meno negli ultimi tempi. Anzi, a essere sincero l’avrò messo sul piatto non più di due o tre volte. Non che non mi piaccia, anzi. Ma si tratta di un oggetto che suscita in me il ritorno al disorientamento provato nei giorni successivi alla sua scomparsa, e su questo punto non voglio certo drammatizzare né far leva su un sentimento così personale. Ci siamo chiesti più volte se sia lecito provare sgomento per uno sconosciuto che passa a miglior vita ma che, con la sua arte, ha contribuito ad arricchire il mondo che abitiamo e, nel caso di Bowie, la nostra esistenza. D’altro canto, il limite della musica non dematerializzata è anche quello. Il vinile in quanto oggetto fisico catalizza passioni, a differenza di un mp3 qualsiasi, per non parlare della copertina e, nel caso di “Blackstar”, di tutti i segreti che contiene e che ha svelato ai possessori con il tempo. Peccato, però. Peccato non averlo più ascoltato, anche se trasuda angoscia, con quei testi rivelatori delle intenzioni del cantante. Per non parlare dei video. Quello di “Lazarus” per me è off limits, mentre va un po’ meglio con “I Can’t Give Everything Away”, pubblicato il 6 aprile 2016 a tre mesi di distanza. Un video tutto fatto di parole, stelle, musica e cose strane, proprio come dev’essere Bowie ora.

quando se ne va un bassista

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Quando un bassista se ne va da una band, intendo. Lunga vita ai bassisti, infatti, sapete bene come la penso in proposito. Siamo sempre pronti a disperarci quando un cantante di un gruppo sceglie la carriera solista o se il chitarrista che caratterizza il sound dei nostri beniamini si ritira per qualche motivo perché ne va dell’anima dei nostri artisti preferiti mentre invece, se è il bassista a fare le valigie, spesso la notizia passa inosservata.

Qualche giorno fa ho trovato per caso il video di un’esibizione dal vivo del Propaganda – quelli di “Duel” – e mi sono così ricordato di Derek Forbes, lo storico primo bassista dei Simple Minds che aveva abbandonato Jim Kerr e soci dopo “Don’t you”, probabilmente scettico sulla deriva pop-rock del progetto di cui era stato uno dei fautori. Non a caso di lì in poi il livello delle produzioni dei Simple Minds, oltre a essere completamente diverso, è stato qualitativamente discutibile, e non penso si tratti di una coincidenza. Derek Forbes, del quale a essere inconfondibile non è solo il modo di suonare ma le stesse parti di basso che componeva, aveva fatto parte in seguito della band tedesca dei Propaganda. Da notare, nell’esibizione qui sotto, che la sezione ritmica è completata addirittura da Steve Jansen (ex Japan) alla batteria.

Un altro bassista ad aver causato un forte cambiamento nel gruppo di appartenenza dopo aver dato forfait è stato Carlos Dengler degli Interpol. In questo caso non c’è stata una deriva analoga a quella dei Simple Minds. Anzi, l’ultimo disco “El Pintor”, oramai del 2014, è all’altezza dei primi più blasonati lavori. Di certo, però, il suono degli Interpol è piuttosto cambiato. Le articolate sequenze di basso di Carlos Dengler hanno lasciato il posto a linee più standard e meno personali.

Il più recente caso di catastrofi di questo genere si è manifestato qualche giorno fa. Vittima, un’altra delle mie band preferite. Walter Gervers, bassista dei Foals, ha rimesso il suo incarico. Il gruppo ha annunciato la notizia attraverso i canali social ufficiali, sottolineando però l’armonia con cui la decisione sia stata presa. Come hanno dichiarato i Foals stessi, è solo la fine di un capitolo, ma non la fine del libro.

il freddo post-orgasmo

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Alla festa di Natale quest’anno l’azienda dove lavora Matteo ha letteralmente sbragato invitando a suonare, al posto della solita pallosissima tribute band del Liga o, peggio, anziché lasciare il palco al triste gruppo formato da dipendenti e collaboratori, addirittura gli Skunk Anansie. Credo sia vero perché ne ho trovato traccia anche sui social media così, per trasmettergli la mia invidia, gli mando una jpg facilmente rintracciabile sul web del miliardario russo che festeggia il compleanno della figlia con gli Aerosmith. La mattina dopo, mentre Matteo ed io ci dirigiamo ai rispettivi uffici sullo stesso treno, viene fuori che il gruppo capitanato da Skin ha avuto un successo in Italia molto più ampio rispetto al Regno Unito e, in generale, ovunque. Il mio contributo alla conversazione riporta un aneddoto che ho sentito dal mio capo: Skin vive a Milano da molto prima che tornasse alla ribalta come giudice di X-Factor ed è stata per molto tempo una habitué di un celebre locale alla moda per amanti della musica trasgressiva.

Matteo, oltre a percorrere quella tratta dalla periferia al centro, viaggia come me sulla cinquantina e ai tempi di “Post Orgasmic Chill” aveva già altro a cui pensare. Ci ricordiamo allora di un nostro collega (di cui non posso fare il nome qui, potete immaginare il perché) che era rimasto letteralmente folgorato dal video di “I can dream”, tratto dal primo album degli Skunk Anansie e uscito a metà anni novanta. Alcuni tratti distintivi di Skin, uniti a certe sue smorfie, rientravano ampiamente all’interno dei suoi canoni estetici.

Così Matteo mi riempie di particolari. Mi dice che il nostro comune amico sperava di incontrare Skin in giro per Milano e ogni volta che vedeva una ragazza nera e pelata in qualunque angolo della città pensava si trattasse di lei. Non fa in tempo a concludere l’aneddoto su Strange Days, sulla trama del film e sul fatto che il gruppo che suona in piazza la sera di Capodanno sono proprio gli Skunk Anansie, che accade la cosa che rende il tutto degno di essere riportato qui. Sul vagone su cui ci troviamo Matteo ed io sale una ragazza nera e rasata a zero, vestita con un parka verde. Sarà lei? Si siede, si copre la testa con il cappuccio della giacca e inizia a tossire vigorosamente. Da quel momento lì, sul treno ci troviamo a tossire tutti quanti come se la ragazza ci avesse contagiato con qualcosa e, soffocati dalla sorpresa e dai nostri stessi sforzi come se ci trovassimo al centro dell’attacco di una qualche arma chimica, a uno a uno perdiamo i sensi.

lo strano caso dello spot Sperlari in 7/8

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Noi musicisti – ma immagino anche voi persone normali – ogni tanto soffriamo di anomali fenomeni di percezione dovuti all’attenzione compulsiva con cui sezioniamo gli ascolti nel dettaglio. Seguiamo linee di basso per evitare di perderle sotto gli strati sonori degli arrangiamenti, curiamo maniacalmente la eco di un suono finché non sparisce del tutto, teniamo il tempo con qualunque parte del nostro corpo (va be’ non proprio tutte) e armonizziamo con tutti gli intervalli possibili anche la sirena dell’ambulanza. Questa attitudine ci permette di cogliere, riconoscere e catalogare ogni forma di musica in qualunque situazione. A quale musicista non è mai capitato di addormentarsi durante una canzone e, destandosi pochi istanti dopo, avere l’impressione che il pezzo abbia saltato qualche beat allo stesso modo in cui, quando entriamo in galleria con l’autoradio accesa, facciamo quel gioco di continuare a cantare la canzone quando il segnale sparisce per vedere se andiamo perfettamente a tempo, in modo da riprenderla all’uscita dal tunnel? Come dite? Sono solo io a farlo?

Comunque il punto è che il nostro orecchio spropositato ci fa cogliere sempre e ovunque le cose belle e quelle brutte, le tracce regolari e quelle anomale. Vi dico tutto questo perché stamattina, mentre ascoltavo Radio Popolare andando in stazione, è partito lo spot natalizio della Sperlari. Ve lo ricordate il celebre cofanetto e Gianrico Tedeschi che lo pubblicizzava alla tele negli anni 70? Lo spot radiofonico del 2017 invece dice che “non c’è Natale senza Sperlari” ed è uno spot molto efficace e piuttosto in linea con gli standard della pubblicità radiofonica se non fosse che stamattina vi giuro che l’ho sentito in un edit in 7/8.

L’ho cercato in lungo e in largo nella rete, ho anche chiesto su Facebook informazioni al’agenzia di comunicazione che lo ha prodotto, ma non c’è traccia. La cosa mi sta facendo impazzire. Ho avuto forse un’allucinazione?

Ma, a parte questo sconforto, la cosa mi ha sorpreso positivamente: se effettivamente esiste un radio edit in 7/8 significa che finalmente i miei amati tempi dispari sono stati sdoganati anche a supporto dei consigli per gli acquisti, il che è molto strano perché non sai mai come la gente può reagire a un 7/8. I tempi dispari, se li prendi per il verso sbagliato, ti destabilizzano, ti fanno perdere l’equilibrio e possono generare insofferenza. Associare un 7/8 a un prodotto può anche indurre il consumatore a cambiare idea per la mancanza di linearità.

Non è il caso mio. Anzi. Se effettivamente esiste una versione dello spot radiofonico della Sperlari in 7/8 sono pronto a diventare il fan numero uno, e voi della Sperlari non preoccupatevi: non c’è nessun rischio che qualcuno, battendo il tempo dispari, si incarti.

(Segue versione in 4/4).