un disco al giorno ma non mi basterebbe il tempo

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Da qualche settimana Facebook sembra una di quelle riviste mensili che si compravano una volta come Rockerilla, Rockstar o Rumore in cui si potevano trovare, pagina dopo pagina, le copertine dei dischi in uscita così perfette nel loro essere quadrate. Una sorta di profilo Instagram ante litteram in cui il bello era proprio la simmetria delle due dimensioni delle immagini pubblicate, non so se mi sono spiegato. Ma qui c’è di più. L’elevata concentrazione di post a carattere musicale che sta invadendo i nostri profili Facebook deriva da uno di quei giochini in cui si possono taggare gli amici con l’obiettivo di aggiungere a catena i partecipanti. Questa volta lo scopo è più che nobile: far passare sotto al naso dei lettori di Facebook (che oramai è una categoria come i lettori di horror o i lettori di fumetti, alla quale però nel bene o nel male apparteniamo tutti) tanta bella musica di qualità.

Il gioco consiste nella scelta di dieci dischi, uno al giorno. Dieci ellepi che hanno lasciato un segno indelebile nel nostro universo sonoro. Tra le centinaia di contatti che ho su Facebook una percentuale prossima alla totalità è costituita da gente come me che ascolta, suona, compra e divora musica e, da sempre, ne osserva il culto. Musica di nicchia, musica commerciale, musica bella, musica impegnata, musica da festa. Ne consegue che, ogni volta in cui mi sintonizzo su radio Facebook, mi passano sotto il naso decine di copertine di dischi che conosco bene, che adoro, che detesto, che possiedo, che mancano alla mia collezione di vinili. Sono stato taggato anch’io, al giochino dei dieci dischi per dieci giorni, il che significa che sono stato invitato a partecipare per dire la mia, ma ho gettato subito la spugna. Solo di David Bowie ero già arrivato a quota diciassette.

drip drip drip drip drip drip drip drip

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Al mondo ci sono solo due modi per sentire un rubinetto che sgocciola in inglese così tanto. Il primo, il più famoso, o, in ordine cronologico, il primo a essere comparso sulla faccia della terra, è “10:15 Saturday Night” che è quel bellissimo brano dei The Cure che apre quel bellissimo album che è “Three Imaginary Boys”. Se volete invece stupire gli amici, ditegli che voi siete riusciti a sentire quell’inequivocabile suono che richiama l’intervento di un idraulico in una canzone dei Massive Attack. Proprio così. “Man Next Door” è la traccia numero sette di “Mezzanine” e, se fate attenzione, potete sentire un campionamento della voce e della chitarra di Robert Smith tratta dal loro pezzo che mai si sarebbe aspettato, alla sua uscita nel 1980, intanto di essere digitalizzato e, quindi, di essere infilato come sample in una specie di cover di un pezzo dei The Paragons, gruppo reggae degli anni 60, poi rifatto da Horace Andy che, ospite dei Massive Attack, presta la voce alla band di Bristol proprio in questo pezzo.

Una coincidenza che, proprio ieri, “Mezzanine” dei Massive Attack abbia compiuto venti anni? Non lo so. Resta il fatto che è molto strano che, un disco così vecchio, sia stramaledettamente ancora così moderno. Anzi, sembra un ellepi di quelli che si possono prevedere come la musica del futuro. Come sarà la musica fra dieci, venti, trent’anni? Come “Mezzanine” dei Massive Attack. “Mezzanine” rientra tra i miei dieci album preferiti di tutti i tempi ma, se proprio vogliamo fare una classifica, preferisco giocarmi questa chance per mettere in ordine di (mio) gradimento gli album dei Massive Attack. E allora lo faccio subito:

#1 Mezzanine
#2 Heligoland
#3 100th Window
#4 Protection
#5 Blue Lines

ti ho visto al concerto

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Il valore della statura media della popolazione giovane italiana aumenta di anno in anno e me ne accorgo quando vado ai concerti. Sono uno e ottantasei ma fatico sempre più a vedere i musicisti in piedi dalla cintola in su. Certo, i telefonini in alto per riprendere e fare foto non aiutano, ma anche in momenti di stasi digitale con qualche fastidio dovuto a una nuca solitamente più folta di capigliatura della mia ad altezza occhi e che ostruisce la parte bassa del palco devo sempre fare i conti. A me piace avere campo libero sotto perché posso osservare le zappate sulla chitarra oppure, nel caso ci sia una musicista sul palco con la gonna, ammirare il contrasto tra basso e gambe, per esempio. Mi è capitato ieri al concerto dei Protomartyr allo Spazio 211 di Torino, perché ad aprire la serata sono intervenuti gli ottimi Less Than a Cube che non conoscevo affatto. Prima che iniziassero ho notato una tipa interessantissima tra il pubblico, e poi quando ho visto che è salita sul palco e si è messa a suonare e cantare è stata una bella sorpresa. Volevo dirglielo ma il volume era troppo alto.

Non sono capace invece a scrivere le recensioni dei concerti perché è difficile parlarne dopo. Bisognerebbe fare come si fa con i live tweeting e condividere all’istante le proprie considerazioni quando se ne sente il bisogno. Una forte emozione dovuta a questo o quel brano. Un virtuosismo che ci ha impressionato particolarmente. Un momento di irripetibile empatia con la smorfia del cantante. Un brivido dovuto all’uso perfettamente coordinato delle luci con il mood della canzone. Un impeto di fastidio per qualcuno ubriaco tra il pubblico che parla ad alta voce in un momento intimo della band. Si tratta però comunque sempre dell’attestazione di emozioni dopo che si sono librate granularmente nel nostro sistema nervoso, quindi comunque in differita e già prive della loro portata dirompente.

Allora meglio stare zitti oppure limitarsi a qualche dato oggettivo. Primo: i Protomartyr hanno spaccato con un concerto formidabile. Secondo: ottima acustica ma forse il locale – per quanto molto bello – forse era sottodimensionato per un gruppo di tale notorietà. Terzo: il concerto è iniziato a un’ora assurda (le undici passate) per un giorno infrasettimanale (martedì sera) e per chi poi doveva sobbarcarsi un’ora e mezza di viaggio di ritorno (dopo l’ora e mezza del viaggio di andata).

Più interessante, forse, condividere anche a freddo qualche nota sulle persone presenti. Intanto l’età media alta del pubblico, con punte che mi superavano abbondantemente di qualche anno. Sotto il palco c’era quattro amici (nel senso di amici tra di loro) sui cinquanta che si sono goduti la musica come dei ragazzini qualunque. Poi è stato impossibile non notare il mio sosia (a parte gli occhiali) che si è messo al mio fianco. Stessa forma del viso, profilo analogo, mosca e basette, capelli sale e pepe. Ci siamo guardati come a chiederci se se ci fossimo già visti da qualche parte e la risposta, per entrambi, è stata sì, allo specchio. Peccato che in quell’istante i Protomartyr abbiano iniziato la serata e quindi l’attimo per scoprirne di più è fuggito, anche se tra maschi, sapete, non ci si mostra mai troppo vulnerabili. C’era infine una donna poco più avanti identica a Roberta, una amica architetto che non vedo da un po’, e così ho pensato quanto fosse bello trovare così tante facce conosciute, riunite a condividere la passione per lo stesso gruppo musicale, in una sorta di affinità elettiva di una nicchia di persone con la stessa matrice di gusti. L’esibizione di una band che amiamo è un momento in cui ci sembra di essere in famiglia, quindi non ci dobbiamo meravigliare se ci sembra di riconoscere qualcuno anche se poi non è chi pensiamo.

in acido

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Ho scoperto che ci sono divertimenti per i giovani d’oggi che sono riproduzioni fedeli dei divertimenti dei giovani di qualche tempo fa, che è diverso da dire che sono gli stessi divertimenti che si sono imposti sull’impietoso oblio a cui molti dei divertimenti di quando eravamo piccoli noi cinquantenni di oggi sono stati condannati. Vi faccio un esempio. Chi si comprerebbe lo “Slaim” (o, in lingua originale, “Slime”), quella schifezza puzzolente chiusa nell’inconfondibile barattolo in plastica dalle sembianze di un bidone della spazzatura che solo a ricordarne l’odore mi viene a vomitare ancora oggi? Ma la retromania, che è quel fruttuoso fenomeno commerciale per cui si spingono gli adulti ad acquistare cose che ritengono interessanti per i propri figli ma solo perché si tratta di cose che erano in auge quanto gli adulti avevano l’età dei loro figli, convincendo gli adulti che i loro figli si divertiranno un mondo ma in realtà l’induzione all’acquisto è messa in atto solo a soddisfacimento del proprio ego, mica per i propri figli, non so se è chiaro. Dicevo che la retromania in realtà giustifica la messa in commercio di copie di cose che andavano un tempo rivisitate in chiave attuale ma che, a parte qualche linea di design, sono la versione duemila e rotti dell’originale. Esatto, proprio come il Nokia 3310 o le Nike sa il cazzo che modello o la Fiat 500 o il gelato Winner Taco.

Qualche sera fa ero in un locale molto carino di Milano in cui un nutrito gruppo di ventenni o giù di lì ci dava dentro con il karaoke e già, siamo proprio nel 2018. Cosa spinga i post-millennials a cimentarsi con un divertimento della primissima era digitale non ci è dato conoscere. Potrei però definire quella versione del karaoke a cui ho parzialmente assistito (il divertimento era dentro il locale, io stavo fuori con la birra in mano a chiacchierare con alcuni amici) una sorta di karaoke aumentato perché i pezzi che i ventenni o giù di lì sceglievano (cantavano quasi sempre in gruppo, probabilmente consapevoli che nel branco l’imbarazzo si stemperi) erano canzoni che, quando esisteva il karaoke vero e proprio, non facevano certo parte del repertorio. Una su tutte “Rock’n’Roll” dei Led Zeppelin e, soprattutto, “Acido Acida” dei Prozac+. C’era proprio una versione corale di “Acido Acida” dei Prozac+ a un volume vergognoso mentre ero in coda per prendere la birra. Mi è passata davanti un’amica a cui ho chiesto cosa bevesse, per avere un’alternativa alla birra, non sono molto competente sui cocktail, e lei mia ha risposto “Anal”. A me non verrebbe mai in mente di abbreviare analcolico con anal. Comunque il punto è che poi, tornato a casa molto presto da quella serata, il giorno dopo mi aspettava una levataccia, ho letto su un sito di news musicali che i Prozac+ festeggeranno a breve i vent’anni di “Acido Acida” con due concerti. Una reunion a tutti gli effetti da cui sicuramente scaturirà l’ennesima operazione commerciale di retromania, per quella definizione che ne ho dato prima. Così ho pensato che c’è posto per tutti, in questo mondo, ma se continuiamo di questo passo prima o poi le risorse si consumeranno tutte e dovremmo trovare delle alternative.

un musicista scopre che la sua master keyboard Roland non funziona su Windows 10, leggi il post che ha commosso il web

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Più o meno dieci anni fa ho smesso di suonare. Non ricordo esattamente la data, forse era il duemila e nove, ma ai fini narrativi facciamo finta che proprio oggi cada il decennale di quel primo giorno di primavera in cui ho messo in cantina senza più tirarli fuori, se non per venderli, i miei preziosi – anche da un punto di vista affettivo – sintetizzatori analogici (per la cronaca, da quest’anno e per i prossimi ottanta, l’equinozio è stato anticipato di un giorno, e spero di non essere l’unico a domandarsi che fretta c’era, spero abbiate capito la battuta). In tutto questo tempo mi sono chiesto, dandomi pure delle risposte più che esaustive, il perché abbia smesso, e ne ho scritto più volte anche qui. Il mio consiglio è che se avete smesso di suonare segnatevi da qualche parte, come fate con le password, il motivo e, ogni tanto, andate a rileggerlo e riflettete su quanto è bello ascoltare musica senza essere musicisti.

Se fossi stato più ricco e mi fossi potuto permettere una casa con una stanza dedicata, uno studio in cui tener montata tutta l’attrezzatura in modo da poter smanettare ogni tanto, probabilmente le cose sarebbero andate diversamente. Non so sei siete tastieristi, ma provate a immaginare quattro catafalchi da più di 20kg l’uno, ciascuno di circa un metro per cinquanta cm di profondità per una trentina di spessore, da dover ogni volta tirare fuori dal loro flight case, cablare, collegare a un sistema che ne consenta l’amplificazione (quindi un mixer con due casse, anch’esso dotato di dimensioni non irrisorie), il tutto connesso a un computer.

Se suoni la chitarra, un hobby che comporta uno sbattimento altrettanto demotivante in fase di allestimento del set, alla peggio agguanti la tua chitarra acustica e, di riffa o di raffa, qualcosa di simile a quello che avevi in mente lo tiri fuori. Il pianoforte non sta al sintetizzatore o ai virtual synth di Reason come una sei corde acustica sta a una Les Paul collegata ad un Marshall con tutte le diavolerie a pedali. Piano e synth sono due strumenti musicali completamente diversi.

Ma la tecnologia, per fortuna, si è evoluta moltissimo e oggi basta un pc con un software musicale, una scheda audio e una tastiera muta (si chiamano master keyboard) anche solo di un’estensione di tre ottave per far felice un tastierista. Per questo, approfittando di un’occasione che non vi posso ancora rivelare, ho investito un centinaio di euro in una fiammante scheda audio USB Focusrite Scarlett Solo che ho connesso al PC, un Asus con un processore I7 che dovrebbe garantirmi prestazioni decenti, su cui ho installato Ableton Lite, fornito nel pack della scheda audio.

E qui viene il bello, anzi la nota dolente. Ho riesumato una vecchia master keyboard Roland PC300, acquistata alla fine del secolo scorso, ma già dotata di connessione USB. Ho collegato agevolmente la Focusrite (un gioco da ragazzi), ho installato Ableton e un set di strumenti virtuali compresi con il software (idem), per poi scoprire che la Roland non fornisce il driver per far funzionare la PC300 su Windows 10.

Poco male, mi sono detto, anche se già a quel punto (erano le undici di sera passate) mi giravano i coglioni come non potete immaginare. Mi sono ricordato di un’interfaccia midi/USB della Edirol di cui mi ero dotato in seguito per programmare i suoni dell’unico synth che mi è rimasto, uno sfiziosissimo MicroKorg, tramite connessione con il computer. Inutile dire che la Edirol, pappa e ciccia con la Roland, si è resa rea della stessa ingiustizia. Nemmeno l’interfaccia midi/USB funziona su Windows 10 e del driver nemmeno l’ombra.

Sono rimasto allora ancora un po’ lì, a contemplare tutta quella tecnologia impossibile da connettere l’una all’altra per trarne il beneficio per cui è stata pensata e quindi, a suo modo, morta. Un potente software per fare musica, una fiammante scheda audio, un sintetizzatore con vocoder divertentissimo da suonare, e una master keyboard che altro non dovrebbe fare che inviare input al pc come qualunque altra periferica informatica e trait d’union per tutto ma, a causa dell’indisponibilità del driver non aggiornato, al momento risulta morta. Morta come l’arte irrealizzabile senza gli strumenti adeguati.

Ho ascoltato un po’ di musica godendomi la spettacolare qualità audio in cuffia della Focusrite. Quindi ho spento tutto e sono andato a letto, avendo ben chiaro il motivo per cui, il ventun marzo di dieci anni fa, anche se non è proprio quella la data esatta ma facciamo finta che lo sia per scopi narrativi, ho smesso di suonare.

chiedo scusa a tutte voi

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Anni fa ho rifiutato un ingaggio in una band rock perché c’era una cantante donna. Ho persino giustificato la mia scelta senza pensare a quanto potesse essere offensiva la motivazione per cui mi sono negato alla richiesta. Molto stupidamente, molto più che ingenuamente, ho detto la verità e, sebbene via e-mail, mi sono giustamente preso una botta di cretino dalla vocalist in questione. Non volevo accompagnare un timbro femminile perché mi sentivo più realizzato in una band di soli uomini e perché ascoltavo quasi esclusivamente band di soli uomini. Oggi posso raccontare questo pregiudizio con il giusta distacco perché, a così tanto tempo di distanza, posso orgogliosamente sostenere il contrario, e cioè che ascolto quasi esclusivamente voci femminili. Da qualche anno a questa parte ho scoperto cantanti o voci soliste di gruppi che mi hanno fatto rivoltare completamente opinione. Sarà la maturità? O la terza età che riconduce alle cantanti donne un ideale di maggiore completezza? A una certa età si ritrovano nel timbro femminile certe esperienze ancestrali? E sono così tanto sull’altra sponda che, ogni otto marzo, mi impegno ad acquistare l’ellepì di una cantante per celebrare la festa della donna. Ci sono artiste che ho scoperto negli ultimi anni e che sono balzate ai vertici della mia classifica personale delle cose più belle. Valerie June, i Daughter, Nadine Shah, Tune-Yards, Eera, giusto per fare qualche nome. Quest’anno è toccato a una ragazza di ventidue anni che viene da Richmond, Virginia, e che fa della musica bellissima. Signore e signori, vi presento Lucy Dacus.

trovare riscatto in Heroin di Lou Reed

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Non dovremmo smettere mai di dire le cose con le canzoni degli altri. Lo so, è un modo un po’ adolescenziale di affrontare le cose ma si tratta di un sistema stramaledettamente efficace per comunicare quello che non riusciamo. Bisogna però imparare anche a saper ascoltare gli altri, in questo gioco melodico e armonico delle parti. Siete capaci a capire gli aspetti più o meno superficiali delle persone da quello che vi fanno sentire? Con i figli, con i vostri alunni e con i ragazzi in generale non so se è un metodo ancora in auge, e probabilmente a causa del modo in cui i giovani oggi intendono la musica oggi possiamo considerarlo più che obsoleto. Io sono dell’idea che sia sempre meglio provare, sempre se poi ascoltare le canzoni che ci sono in giro con l’orecchio da anziani che abbiamo sia possibile. Dico questo perché ho sentito alla radio “Heroin” dei Velvet Undeground, che poi è un pezzo composto da Lou Reed, e mi ha riportato in mente un amico che non c’è più e che non faceva altro che metterla quando stava male.

 

il packaging che fa la differenza

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Quante volte avete scelto un prodotto per la confezione, per il design della scatola che lo contiene, per la forma della bottiglia o anche solo per la grafica dell’etichetta, pur non avendolo mai provato prima? Io sono più allocco di voi e ci casco sempre. Uno dei miei sogni più perversi è quello di vendere un prodotto, uno qualsiasi, ma inscatolato nei cartoni della pizza e farmelo spedire a domicilio, magari portato da un pony express (si chiamano ancora così come ai tempi di Jerry Calà?) che ti suona alla porta e gli smolli qualche moneta di mancia. Ma poi dentro il cartone della pizza, la pizza mica c’è. Prendi dalle mani del ragazzo il cartone, lo apri e dentro trovi una maglietta, un abbonamento a Netflix, un libro, un album di foto. Se fate un mestiere inutile come il mio nella comunicazione chissà quante volte vi avrete pensato. E capisco che per molti di voi non trovare la pizza nel cartone possa essere una delusione inconsolabile con i tempi che corrono, e anzi, a dirla tutta a furia di parlare di pizza mi è già venuta voglia di ordinarne una delle mie preferite, magari con salsiccia e friarielli. Comunque, per farla breve, non so se sapete che sta per uscire una versione di “You’ve Come a Long Way Baby” di Fatboy Slim a vent’anni dall’uscita e sì, so cosa pensate. Sono già passati vent’anni, quante volte abbiamo ballato tutti quei singoli riempipista, non c’è più il big beat di una volta, qui una volta erano tutti campionatori eccetera eccetera. La seconda bella notizia è che Fatboy Slim, a sua insaputa, ha coronato il mio sogno e, sempre per il discorso che sono più allocco di voi, 40 sterline per questa versione le spenderò con enorme piacere. Sono sicuro che la pizza sarà deliziosa. P.S la maglietta inclusa è geniale.

stabilito il nuovo record di distanza generazionale

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La bella notizia è che mi piace “Pesto”, il nuovo singolo di Calcutta, e che me lo ha fatto conoscere mia figlia. Era un pezzo che vedevo comparire il nome di Calcutta nel bene e nel male un po’ ovunque ma non avevo mai ascoltato nulla. Sono uno di quelli che non ascoltano molta roba italiana contemporanea perché provano imbarazzo per i cantanti a causa delle parole che dicono. Il link che mi ha avvicinato a questa canzone invece è stato il regista del video che è quel Francesco Lettieri che lavora con Liberato (di lui non provo imbarazzo per le parole che dice perché, pur essendo italiano, non ne capisco la lingua) e che ho scoperto che lavorava con Calcutta ancora prima. Per farla breve, il pezzo è deprimente come immagino sia la musica delle nuove generazioni, fatta da gente senza futuro per essere ascoltata da gente senza futuro. L’altra bella notizia è che ho maturato giudizi positivi anche sulla trap – sempre tramite mia figlia – ma prima di scrivere qualcosa ci devo pensare ancora un po’ perché davvero, la distanza generazionale tra vecchi e giovani che si consuma oggi con la trap non c’è mai stata nella storia dell’uomo, nemmeno ai tempi del punk. Ma andiamo per gradi e, per ora, cerchiamo di assimilare Calcutta.

ecco chi vincerà il Festival di Sanremo 2018

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Il titolo da clickbait selvaggio serve solo per attirarvi qui, sul mio blog da quattro soldi, e farvi ascoltare le mie canzoni preferite dei Festival di tutti i tempi. Non guardo Sanremo con assiduità, ci sono anni che non mi perdo una serata, altre edizioni che invece non mi filo per nulla e questo dipende da una serie di cose che non sto qui a raccontarvi. Comunque ho una buona esperienza sull’argomento e, soprattutto, cinquant’anni suonati. Buon ascolto, in tutto sono solo diciassette.

17. Santandrea – La fenice

 

16. A me mi piace vivere alla grande – Franco Fanigliulo

 

15. Irraggiungibile – L’aura

 

14. Sonnambulismo – Canton

 

13. L’assenzio – Bluvertigo

 

12. Per una bambola – Patty Pravo

 

11. Contessa – Decibel

 

10. Vacanze romane – Matia Bazar

 

9. Radioclima – Garbo

 

8. Il mare immenso – Giusy Ferreri

 

7. Storie di tutti i giorni – Riccardo Fogli

 

6. Almeno tu nell’universo – Mia Martini

 

5. Un’emozione da poco – Anna Oxa

 

4. Tutti i miei sbagli- Subsonica

 

3. Cose veloci – Garbo

 

2. Per Elisa – Elisa

 

1. L’essenziale – Marco Mengoni