Altro che ultima cena: con un menu di undici portate (più aperitivo con tanto di orchestra) le The Last Dinner Party ci offrono un ricco buffet per il vernissage del loro esclusivo e divertente progetto musicale.
In un mondo in cui la trasgressione è la regola, alla fine passano per alternativi quelli che le regole le seguono. Non drogarsi, non tatuarsi, lo scoutismo, smettere di fumare, entusiasmarsi per i Promessi Sposi, preferire maglioncini e Clarks alle tute e alle sneakers: ecco i veri eccessi del nostro tempo. Faccio l’insegnante e quando incontro un ragazzino con i capelli lunghi, uno che si distingua dalla massa, senza marsupio e borsello, uno che non si rasa le righe sul cranio e non si concia come i fenomeni della trap, mi viene da fermarlo, mi viene da stringergli la mano e fargli i complimenti. Finalmente qualcosa di completamente diverso. Non fraintendetemi, non sono mica un moderato, un conservatore o un fratellista d’Italia. Soprattutto quando si parla di musica.
Dico solo che, se non fossimo sovraesposti alle più ritrite avanguardie stilistiche, liquideremmo gente che si è fatta le ossa nelle tribute band dei Queen o che armonizza ritornelli nemmeno fossero gli Abba come reazionari, esponenti di un’inutile controriforma artistica, energie e bit sprecati per melensi manierismi mainstream, retromaniaci post-classicisti epigoni di specie artistiche fortunatamente estintesi grazie ai techno-meteoriti degli anni novanta. E invece, a valle della recensione della milionesima band prog-post punk di South London, al cospetto di un disco come Prelude To Ecstasy ecco che gridiamo al miracolo e, parlo per me, ci strappiamo quei pochi capelli che ci sono rimasti.
E sono certo che ci saremmo immaginati lo stesso l’album di esordio delle The Last Dinner Party come colonna sonora di un sequel distopico di Piccole Donne anche se non le avessimo mai notate suonare negli stralci dei loro live su Youtube, testimonianze di una fervida attività marketing volta a infiammare a puntino l’hype per questo primo disco, o viste interpretare i video degli svariati singoli che l’hanno preceduto e posare per gli shooting promozionali con quegli assurdi abiti di scena d’epoca. Anche se – parlo per me – non si capisce bene quale. Costumi di uno dei soliti passati indefiniti – non per questo avvincenti – in cui si mescola tutto, da Ziggy Stardust a Emily Brontë passando per Stevie Nicks. Un’età dell’oro di cui sappiamo solo che si è perpetuata per secoli prima dell’avvento del web e dei social, anche se web e social sono proprio il pretesto romantico che ci fa rimpiangere un mondo in cui ci estingueremmo nel giro di qualche ora, senza smartphone.
L’unica certezza che ho è che il ruolo di Jo calzerebbe a pennello per Lizzie Mayland, chitarra e cori della band (statene certi) rivelazione di quest’anno che, forse a causa alla sua bisestilità, da un punto di vista strettamente musicale, grazie alle The Last Dinner Party è già cominciato col botto. Per chi potrebbe interpretare Abigail Morris, l’impertinente voce solista, ci devo pensare. Nel frattempo, a loro due e a Emily Roberts (chitarra solista, mandolino, flauto), Georgia Davies (basso) e Aurora Nishevci (tastiere, voce) chiederei come gli è venuto in mente un progetto di questo tipo.
Un nome che ci evoca un consesso di apostoli (rigorosamente uomini) al convivio di saluti finali di un profeta (rigorosamente uomo, almeno fino a prova contraria). Un’estetica un po’ gotica e a tratti rococò che, quando è stata di monopolio maschile ai tempi del glam e delle zeppe, ha spostato la lancetta della fluidità di genere verso valori e falsetti ben oltre il livello di guardia, quasi a ridosso della macchietta. Una proposta plissettata e tutta merletti, così sfrontatamente sfarzosa da emancipare le The Last Dinner Party da qualunque tendenza del momento, spiazzando la critica con un coraggio che nessun esordiente di sesso maschile avrebbe mai azzardato.
E lo so che questi discorsi non si dovrebbero fare e che guardare al genere dei musicisti è conseguenza di una società e di una cultura rock sessista e patriarcale. Il punto è che io adoro i gruppi tutti al femminile. Adoro le batteriste e la loro postura dietro ai tamburi, la fierezza con cui osservano il loro set, i piatti e le pelli. Adoro le bassiste, di cui ormai c’è una consolidata tradizione. Adoro le ragazze che manipolano i potenziometri dei sintetizzatori e persino le chitarriste che pestano con i tacchi il pedale del wah wah e l’effetto dei prodigi dell’onicotecnica mentre le loro dita corrono veloci sul manico. Adoro come si abbina agli strumenti musicali tutto ciò che è femminile (la rabbia, la passione, la grazia, l’estasi, l’ardimento, persino la gravidanza) perché alle voci femminili e alla meraviglia che suscitano siamo abituati. Il resto, condizionati dal testosterone nel rock, ci fa approcciare le band tutte al femminile con una doppia aspettativa proprio come, nel resto del mondo reale, per una donna è tutto difficile (come minimo) il doppio.
E sono altresì convinto che The Last Dinner Party siano un gruppo pazzesco proprio perché suonano e cantano come solo cinque donne possono fare. Anzi, sei, perché è importante nominare anche Rebekah Rayner, la straordinaria batterista che non risulta nella line up ufficiale del gruppo ma che si presta al gioco delle parti con velluti e corsetti tanto quanto le altre ragazze per le esibizioni live. Molto più di una semplice turnista e perfettamente allineata con il suono e l’estetica della band. Un gruppo che, se fosse stato composto da maschi, sarebbe diventato il nuovo Greta Van Fleet da tanto al mucchio.
Il bello di questo disco è che il fatto che evochi tanto Kate Bush quanto riesca a citare (con ineguagliabile intelligenza) una non-hit come “This Town Ain’t Big Enough For Both Of Us” degli Sparks come se nulla importasse, o che induca l’ascoltatore ad aspettarsi, da un momento all’altro, voci che si sovrappongono ribadendo la richiesta a Scaramouche sulla fattibilità del Fandango o qualche altra trovata kitsch degna di un Eurovision Song Contest di metà anni settanta, non risulta per nulla derivativo. C’è tutto questo, insieme a canzoni che cambiano rotta più volte per rientrare indenni al punto di partenza, inni da arena rock e ballad da meditazione. C’è tantissima musica, pensata, composta, suonata e cantata egregiamente, divertente e mai banale, sempre diversa e sempre di altissimo livello.
Per il resto, se tutto ciò che è a corollario non vi piace, potete chiudere gli occhi o aspettare cosa si inventeranno le The Last Dinner Party per il sequel di questo disco. Il sophistirock di Prelude To Ecstasy, pur con tutte le ingenuità proprie di un album di esordio che di certo non abbatteranno i nostri pregiudizi rispetto a un gruppo di giovani donne che sfidano il patriar-mercato discografico conciate come ai tempi di Emily Dickinson, è una delle cose più fresche e originali sentite finora, il preludio a un anno, si spera, il più femminile possibile, e non solo in musica.