ma non liberarci dai tastieristi

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Su Liberato è stato detto di tutto tranne la cosa fondamentale, facilmente desumibile dal video del recente happening alla Barona, di cui metto uno screenshot qui:

Liberato suona le tastiere nei suoi live e le suona in piedi come un vero tastierista, come me e Boosta dei Subsonica, per intenderci. I tastieristi che suonano seduti o fanno cose complesse come Tony Banks o si meriterebbero che qualcuno gli togliesse la sedia da sotto il culo perché non esiste. C’è da dire che i tastieristi in piedi devono però saper muoversi bene sul palco, come me e Boosta dei Subsonica, per intenderci. E anche Liberato non se la cava male nella postura tipica del tastierista rock, una gamba davanti l’altra dietro come a spingere la musica che si suona in avanti nemmeno se sotto le dita ci fosse un organo Hammond e Liberato fosse Keith Emerson. Un attimo: Liberato è Keith Emerson? Ah già, non è possibile. Forse Liberato è Boosta dei Subsonica? Chissà. Di certo non sono io, su questo potete star tranquilli.

la risposta

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L’altra sera mi sono messo con il tablet in mano e Spotify aperto davanti alle casse del mio impianto stereo. Mi sono seduto sulla poltroncina e ho cercato qualche canzone tra le mie preferite per sentire se erano sempre lì, belle come le conoscevo, emozionanti come le ricordavo, pronte a darmi le stesse sensazioni di sempre. Forti, commoventi, pulsanti, distensive, rabbiose, allarmanti. Ogni brano con il suo carattere, diversi tra di loro ma sempre costanti nel loro effetto. Se si potesse unire con una riga a matita ogni pezzo in tutti gli istanti della nostra vita in cui lo abbiamo ascoltato probabilmente tracceremmo una linea retta, parallela alla superficie terrestre. Io me lo immagino così. Mi sono seduto davanti alle casse con il volume più alto del solito perché volevo provare ancora quella bellissima sensazione della musica che ti passa attraverso, avete presente? La musica non ti spettina, non ti schiaccia, non ti investe. La musica ti riempie e poi ti lascia, ti riempie e poi ti lascia. Istante dopo istante, con una velocità che non ti rendi conto tanto che risulta un continuum e il bello di mettersi davanti alle casse e provare la musica che ti passa attraverso è che si percepisce tutto. Uso Spotify perché quando voglio ascoltare pezzi diversi uno dopo l’altro – un po’ come fanno i DJ – assicurare un’esperienza di continuità è impossibile, a meno di non avere – proprio come fanno i DJ – due piatti, un mixer e una di quelle cuffie che vanno bene per il pre-ascolto da un orecchio solo. Io ho una collezione di ellepi in vinile più che dignitosa, ma quanto voglio mettermi davanti alle casse per provare la musica che mi passa attraverso succede che alzarmi per cambiare disco con un piatto solo non giova alla magia del momento. Anche se il supporto che sprigiona l’essenza della musica contribuisce al fenomeno della musica che passa attraverso i corpi. Se mi chiedi dov’è la musica quando non si sente ti dico che è lì, dentro quelle buste quadrate di cartone illustrato, dentro quei cosi neri sottili e pieni di solchi, e ogni solco libera, se sollecitato, una sequenza di suoni che ogni volta mi strega come se fosse la prima. E ogni volta mi chiedo come sia possibile.

sempreverde

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Ieri pomeriggio alle 15:45 ero in prima fila sotto il sole al botteghino del Miami festival per ritirare tre biglietti da consegnare in fretta e in furia a mia figlia e due sue compagne di classe e garantire loro la possibilità della migliore esperienza di partecipazione alla prima serata del concerto possibile. Un ragazzo con un registratore digitale portatile in mano mi ha avvicinato per intervistarmi e ha insistito per farlo anche quando gli ho detto che non mi trovavo lì per assistere al festival ma aspettavo l’apertura delle casse di Ticketone e poi sarei scappato. Tra la cinquantina di giovani alternativi in fila dietro di me per lo stesso motivo probabilmente risaltavo per l’età, sta di fatto che dopo di me si è allontanato. Mi ha chiesto perché ero lì, che musica ascoltassi. Mi ha chiesto dei miei quattordici anni, domanda alla quale credo di aver risposto nominando i Joy Division almeno sei volte, e dove mi vedevo allora da adulto. Ho pensato così se a quattordici anni avessi mai immaginato di trovarmi in camicia a trenta gradi sotto il sole per far piacere a mia figlia in mezzo a giovani fan della scena indie italiana, ma il tentativo di proiezione mi è sembrato impraticabile sin dall’inizio. Difficile ricordarsi di sé a quattordici anni. Difficile pensare a cosa pensassi allora. Difficile risalire a eventuali sogni incentrati sul come essere da adulto, anzi, cinquantenne. Un cinquantenne è un quattordicenne con i peli bianchi sulle braccia, le guance cadenti, le maniglie sulla schiena, l’ipertensione, una figlia da crescere, un lavoro ripetitivo, i genitori – se ancora vivi – almeno ottantenni, un po’ meno di sinistra, con quell’inconfondibile caratteristica di dimenticarsi il motivo per cui si è aperto un cassetto, la porta dello sgabuzzino, la dispensa, e la necessità di fare rewind nei pensieri e trovare il punto in cui la mente ha inviato l’istruzione di voler cercare una determinata cosa. Un insieme di pensieri in cui c’entra il nuovo disco di Calcutta uscito ieri che potrebbe essere la prerogativa di un quattordicenne di oggi ma che invece, non chiedetemi il motivo perché non ho una risposta, ce ne siamo impossessati subito noi con i nostri paragoni con Battisti e Luca Carboni, la copertina che sembra una di quelle foto che scattavano i nostri zii con la Polaroid negli anni 70, quei testi che se li avessimo avuti noi le cose avrebbero preso una piega diversa. La prova che presentiamo a fronte delle accuse è che la sostanza non cambia: dentro di noi c’è sempre la stessa polpa di allora, forse un po’ stantia, ma non è colpa nostra se siamo cresciuti così. Non è nemmeno colpa loro, dei quattordicenni, intendo, se hanno i nostri stessi gusti. Il nostro stesso spleen.

segui il poeta

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Se il cantante della vostra band scrive testi in italiano siete già a buon punto perché il bello di suonare in un gruppo è anche quello di interpretare i pezzi del repertorio originale come se fossero propri, anche se è il cantante che ci ha messo le parole. Ma in una band, come nei quattro moschettieri, vale il motto tutti per uno e uno per tutti. Tutto quello che si mette nella comunità è di dominio della comunità, i brani appartengono all’insieme dei componenti perché nel momento in cui si condivide un’idea essa viene plasmata dalle menti e dall’arte di ogni singolo membro che la adatta al proprio sentire che poi è il sentire comune, altrimenti che ci farebbe uno in una band se non sottoscrivesse la vision di insieme? Così le liriche è come se le aveste scritte voi in prima persona, provate sulla vostra pelle se si parla di sofferenza o riferite con tutte le migliori intenzioni all’amata se si tratta, come spesso accade, di amore con tutte le sfumature del caso. Struggimento, passione, turbamento, gelosia, furore, parossismo, crollo, deriva, morte. Ne deriva che il messaggio che si comunica ad ogni esecuzione, sia live che in prova, può essere lanciato da chiunque all’interno della band a chiunque all’esterno e non solo dal frontman alla sua groupie. Il trucco è semplice: basta cantare mentre si accompagna il brano e il gioco è fatto. Certo, il timbro che si sentirà sarà comunque quello di chi ha il microfono davanti. Ma state sicuri che se c’è il soggetto dei vostri desideri sotto al palco percepirà perfettamente quello che volete farle arrivare. Non posso stare senza te, prendi subito la decisione e non lasciarmi sulle spine, non voglio nessun altro, sdraiati sull’erba al mio fianco, lasciati portare in un posto segreto, non ti lascerò addormentare prima di averti fatto capire cosa provo. Quindi il mio consiglio è di imbracciare lo strumento che suonate e di darci dentro: nella canzone ci siete anche voi, in fondo è anche roba vostra.

il cortocircuito del rock

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Mia figlia ha quattordici anni e gusti musicali piuttosto definiti. L’età e la sicurezza di ciò che le piace, unite a qualche compagna di classe sulla stessa lunghezza d’onda, la spingono per la prima volta nella sua vita verso la partecipazione autonoma (nel senso di indipendenza dai genitori) ad alcuni imminenti concerti estivi. Il momento è tornato a essere florido per la musica dedicata ai più giovani. Una nuova generazione di artisti ha finalmente tagliato il cordone ombelicale che ha legato in Italia fino a qualche anno fa i ragazzi agli insegnamenti impartiti dai tromboni come il sottoscritto, il tutto grazie a movimenti musicali completamente slegati dal passato come la trap e l’indie. E, con tutto questo popò di roba in giro, unito alla musica contemporanea che ascoltiamo noi matusa, mi sembra che ci sia veramente molta offerta in giro. Mia figlia ha scelto la serata del 25 maggio al Miami Festival come esordio della stagione (ma diciamo che è l’esordio della sua vita, se escludiamo le esperienze che ha fatto con mamma e papà) perché c’è un nutrito programma di cantanti e band che segue. Mi sono offerto di provvedere all’acquisto dei biglietti per lei e per le sue amiche, cosa che ho fatto su Ticketone scegliendo l’opzione ritiro sul posto pensando che così le ragazze potessero rendersi completamente indipendenti.

Il problema è che i biglietti comprati online possono essere ritirati solo da chi ha effettuato il pagamento e l’eventuale delega a terzi per il ritiro, con tanto di documento di identità dell’intestatario della transazione, non può essere affidata a minorenni. Questo comporta che dovrò accompagnare mia figlia – anziché consentirle di muoversi da sola con le amiche almeno all’andata – fino all’ingresso. L’insegnamento è che, se vuoi che i tuoi figli siano autonomi in tutto e per tutto, è bene che se la sbrighino da soli partendo dall’inizio. Le esperienze ibride, in adolescenza, purtroppo non funzionano più. Oppure, se non siete convinti, cacciate i dieci euro in più per farvi spedire i biglietti a casa.

noi che continuiamo a farci dei film

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Una volta ho scritto che tra gli oggetti più comuni che è facile trovare nelle case della gente c’è anche una copia di “Making Movies”, il terzo album dei Dire Straits dall’inconfondibile copertina rossa e blu. “Making Movies” è uno dei dischi più significativi di tutta la storia della musica anche se, uscito in piena era post punk, costituiva una voce piuttosto distante dal suono in voga ai tempi e per gli integralisti di certo non era un ascolto consigliato. A me “Making Movies” continua a piacere un sacco, possiedo tutt’ora la copia in vinile acquistata allora, e lo ascolto sempre volentieri. Nel 1980, a tredici anni, “Making Movies” era un disco su cui sognare, guardarne i video e colonna sonora per elaborare trame sentimentali di un certo tipo. La seconda traccia del lato A, la celeberrima “Romeo and Juliet”, è ancora oggi una delle più struggenti canzoni d’amore di tutti i tempi. Ecco, anche se è tutt’altro che new wave, “Making Movies” lo metterei senza problemi nei famosi 1000 dischi più importanti della mia vita. E voi? Avete la vostra copia in casa di “Making Movies”?

“Juliet, the dice was loaded from the start
And I bet, and you exploded into my heart
And I forget, I forget the movie song
When you gonna realize it was just that the time was wrong, Juliet?”

ecco perché l’arte è meglio dello sport

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Se praticate uno sport agonistico il rischio è di perdere le partite e perdere le partite non è bello. Anche se siete semplici tifosi quando la vostra squadra del cuore soccombe o magari viene battuta in finale il rischio sofferenza e frustrazione è molto elevato. Ci sono i tifosi avversari da accettare con il loro sfottò e non è per niente facile prenderla sportivamente. Non credo che farò mai sport agonistico a meno di non aver la sicurezza di non essere sconfitto da nessuno. Poi ci sono alcune cose che non mi vanno proprio giù, a partire dal fatto che la squadra di una città dovrebbe essere composta solo da atleti nati, cresciuti e residenti nella città in questione. Altrimenti che senso ha chiamare una compagine con un riferimento geografico? Inter e Juventus sono nel giusto perché potrebbero appartenere a qualsiasi agglomerato urbano. Ma il Torino o la Roma o il Napoli o la Fiorentina? Perché non chiamarle in altri modi? Poi trovo oltremodo irrispettoso che un giocatore, dopo qualche anno, si stufi e cambi squadra o venga venduto alla società di una città lontana o addirittura di uno stato straniero. Per questo detesto il calcio e tutti gli sport in cui vince chi ha più possibilità economiche.

Il bello di darsi alle arti – qualunque tipo di arte – è che non si vince e non si perde mai. È tutto un eterno partecipare nella misura in cui un artista ha tempo, ispirazione e voglia di produrre arte. La sconfitta non è contemplata. In caso di insuccesso si può sempre chiamare in causa la responsabilità del pubblico che ha gusti di merda, non è in grado di capire, si nutre solo di arte commerciale, quello che passano la tv, i giornali, le riviste e oggi l’Internet. Se fate arte non giungerà mai il momento di appendere le scarpette al chiodo perché se praticate uno sport prima o poi subentreranno i limiti dovuti all’età, se siete artisti potete comporre ed esporre a qualunque età. Anche a novant’anni.

I genitori dei giovani artisti poi non sono così invasati quanto i genitori dei giovani atleti. Anzi a volte il fatto di avere figli che non hanno un lavoro vero gli dà fastidio e, se si trovassero sugli spalti di uno stadio metaforico, partirebbero bordate di fischi. Gli artisti poi possono darsi agli eccessi di droga, alcool e tutte le schifezze possibili e immaginabili che, mentre per uno sportivo sono controproducenti, spesso per gli artisti sono fonte di efficace ispirazione. Poi si è mai visto il caso dei tifosi di un esponente artistico menarsi con i tifosi dell’artista rivale, a parte qualche scaramuccia tra dark e metallari negli anni 80? Gli ultras del calcio, oltre a essere molto spesso nazifascisti (mentre chi pratica arte e cultura appartiene alla sinistra) vengono alle mani con una facilità che non ha confronti. E più questo genere di episodi si manifesta, più ci sono appassionati di sport che spendono e spandono in abbonamenti tv per passare il tempo incollati allo schermo a vedere persino le partite di serie C o quei pallosissimi gran premi di moto o auto. Le divisioni minori degli artisti, invece, sono i gruppi di nicchia come quelli che ascolto io. D’accordo, ammetto di spendere qualcosina in dischi in vinile, ma di certo l’arte costa molto di meno di un centravanti affermato.

da bella ciao a bella zio

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Meriterebbe uno studio sociologico il fenomeno per cui la trap (o il trap, non ho capito ancora bene se sia emme o effe ma mi piace pensarla al femminile, anche solo per bilanciare il machismo dei cantanti autotunati) ha fatto presa così tanto sulle fasce più giovani del pubblico. E quando dico più giovani intendo i bambini, i ragazzini, diciamo dai nove o dieci anni in su ma sto sicuramente approssimando. Mi chiedo anche cosa pensi gente come Sferaebbasta e Capo Plaza di questo aspetto. Se cioè il fatto che mescolati ai loro fan standard, conciati da loro fan standard, ci siano anche studenti di quarta elementare. Fino a cinque anni fa tra i bimbi andavano gli One Direction e Violetta. Oggi questo radicale cambiamento suscita molta curiosità negli appassionati come me e vi assicuro che si tratta di un interesse scevro da qualunque giudizio morale. Voglio dire, tra Alvaro Soler e Ghali scelgo Ghali tutta la vita. Penso però che questo forte moto di appartenenza sia unico nella storia della nostra società, soprattutto perché riguarda persone di quell’età. Il mio obiettivo quindi è capire come ha avuto origine tutto ciò, da dove è iniziata questa trasformazione, perché purtroppo ero preso a fare altro e non me ne sono accorto. E il fatto che Sferaebbasta abbia soppiantato i Modena City Ramblers sul palco del Primo Maggio, visto che siamo nel 2018, non mi preoccupa più di tanto. Ci penserà, come al solito, il tempo.

ritmo

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Ora però viene la mia parte preferita che è quella che riguarda il ritmo. Che cosa è il ritmo? Il ritmo è la scansione regolare nel tempo di un suono o di un rumore. C’è del ritmo nel nostro corpo? Proviamo a pensare. Il primo ritmo che impariamo a conoscere è il battito del nostro cuore, che è più o meno costante. I nostri passi hanno un ritmo. Il nostro respiro.

L’aspetto ritmico della musica è forse il più antico in assoluto perché strettamente collegato con la danza. E la danza – con il canto – è la più immediata espressione artistica del genere umano perché ha come mezzo di espressione il corpo. Per dare riferimenti di ritmo oggi, più che mai, si usano strumenti a percussione e, non a caso, il tamburo è uno dei primi strumenti musicali conosciuti ed è presente in tutte le culture, anche le più primitive.

Abbiamo degli strumenti addosso per fare del ritmo? Esatto. Possiamo battere le mani o i piedi. Proviamo a usare il nostro corpo come se fosse una batteria. Sapete come è fatta una batteria? Guardate qui. La batteria è lo strumento a percussione che più di ogni altro ci dà il ritmo. Ora proviamo a usare il piede destro come se fosse la cassa e a battere le mani al posto del rullante. Proviamo insieme a riprodurre qualche ritmo. Ora invece proviamo a contare mentre ascoltiamo la musica. Il ritmo più immediato, perché regolare, è quello che si sviluppa contando da uno a quattro. Proviamo a contare insieme.

Ora proviamo a battere le mani sul colpo del rullante perché è così che si deve accompagnare una musica quando qualcuno la suona. Siete mai stati a un concerto? Vi è mai capitato che i musicisti sul palco vi chiedessero di accompagnare quello che suonavano battendo le mani? Ecco, se vi capitasse, ricordate che bisogna battere le mani sul due e sul quattro, mai sull’uno e sul tre. Proviamo insieme.

illusi

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A turno ciascuno di noi si immedesima nella musica che lo fa sentire più attraente, in certi casi anche più sexy. È il potere del suono organizzato e strutturato. Come quelle catene di elementi con cui si raffigurano il DNA e altre proiezioni scientifiche dei nostri studi, melodia armonia e ritmo, che poi sono le tre divinità dell’acustica, delle vere sotto-muse, si combinano nei modi più raffinati per adattarsi al meglio alla nostra configurazione. Assumono un forma complementare al nostro corpo e alla nostra anima che ci fa sentire invincibili anche se siamo delle pappemolli, splendidi anche se siamo corrotti, veloci anche se abbiamo i piedi di piombo, irresistibili anche se siamo oggettivamente ripugnanti. Si tratta di un trucco per ammaliarci, un’arma sofisticatissima di distruzione individuale, vecchia almeno quanto la storia delle sirene e di Ulisse, vi ricordate? La musica ci inchioda schiavi del suo potere soprannaturale fino a quando, in nome suo, siamo pronti a compiere il più efferato dei delitti: pensare di possederla per riprodurla, in qualche modo. Illusi.