tieni le mani in alto e nessuno si farà male

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[questo articolo è uscito su loudd.it]

Non dev’essere stato semplice, per un cantante di colore, stare alla larga dai guai nella Kingston degli anni 60. Chissà quanti giamaicani come Fred Hibbert sono finiti dentro per possesso di marijuana. Solo uno, proprio Fred Hibbert, meglio noto come Toots e futuro leader dei Maytals, ha messo in musica la sua esperienza facendone non solo una hit di successo ma anche uno dei brani più identificativi del reggae e, soprattutto, una delle canzoni in levare più conosciute al mondo.

La storia è facile da raccontare: tieni le mani in alto e nessuno si farà male, gli viene detto al momento dell’arresto. Quindi un numero si sostituisce, da quel momento in poi, al nome dell’uomo libero che si trasforma in detenuto. 54-46 è il codice stampato sulla camicia della divisa che gli viene consegnata all’arrivo nel penitenziario in cui Toots Hibbert dovrà scontare la sua pena, il nickname della sua nuova condizione di recluso per aver utilizzato una pianta diffusa in natura. Peccato solo che “54-46 That’s My Number” (o “54-46 Was My Number”, che poi è la stessa cosa) sembri tutt’altro che una canzone di protesta, a partire da quel suo incedere flemmatico tipico del reggae giamaicano di fine anni 60.

La canzone si distingue soprattutto per il giro di basso, tanto elementare quanto efficace, che diventerà un tormentone intanto del brano in sé, considerando che si ripete pressoché uguale in loop dall’inizio alla fine (d’altronde i canoni del reggae sono questi, prendere o lasciare e, nel frattempo, fumarci sopra), quindi del genere di appartenenza e poi qualche canzone che nascerà con l’avvento del campionatore. Che poi, il giro di basso di “54-46 That’s My Number” non è mica del tutto originale. Provate ad ascoltare “Train to skaville” degli Ethiopians. Ma, giusto per spezzare una lancia per il buon Toots, nel reggae non è così scontato distinguere tra archetipi e cloni. E c’è stato pure qualche tributo volontario a entrambe le canzoni, come “Street Tuff” di Double Trouble ft. Rebel Mc o, dalle nostre parti, l’old school dei Comitato nel loro singolo rap “Immigrato”.

Ma al di là delle numerose versioni susseguitesi nei decenni successivi, “54-46 That’s My Number” è un pezzo che dà il massimo nelle esibizioni live, a partire dalla resa dell’incipit soul “stick it up mister” sugli stacchi strumentali, in cui Toots Hibbert sembra una versione giamaicana di James Brown, fino al botta e risposta con il pubblico agli ordini di “give it to me one time” e, da lì, il numero crescente di volte, da uno fino a quattro per tornare a ballare da capo tutto. Non a caso qualunque gruppo di cover reggae la mette in repertorio proprio perché, oltre a essere conosciuta da cani e porci, con “54-46 That’s My Number” si va sul sicuro se si vuole coinvolgere la gente sotto il palco.

La canzone ha quindi goduto di una seconda primavera grazie al suo utilizzo come sigla iniziale del bellissimo film “This is England” di Shane Meadows, la pellicola che racconta la vita di un ragazzino skinhead inglese nei primi anni ottanta. Il contrasto tra la musica e le immagini scelte a corredo è più che toccante e costituisce la perfetta metafora delle tensioni di quegli anni raccontate poi nel film, con i rude-boys sempre in bilico tra una parte e l’altra della politica. Questo dimostra che “54-46 That’s My Number” resta una canzone per tutte le stagioni e tutti gli schieramenti, che è un po’ il destino del reggae riconosciuto anche da chi non ama il reggae.

la cura

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Spero tanto che la notizia secondo cui Franco Battiato è malato di Alzheimer sia una delle tante dicerie che passano di social in social diffondendosi sul web, una fake news di cattivo gusto che prima o poi qualcuno smentirà come è giusto che sia.

ancora tutto esaurito

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La lista dei concerti recenti a cui non ho volontariamente partecipato e per i quali mi sono pentito amaramente di aver preso una decisione così scellerata vede due illustri new entry balzare prepotentemente ai vertici. Intanto la spettacolare performance di David Byrne agli Arcimboldi. Non so se avete visto qualche video del tour del nuovo album: l’ex Talking Heads e una specie di street band (la batteria è scomposta tra diversi percussionisti) tutti in in piedi (scalzi) e vestiti di grigio che suonano e ballano in una specie di scatola metallica, più o meno così

 

ùinsomma, sembra essere stato un concerto niente male e gli amici che hanno partecipato ne hanno confermato l’unicità.

Ma il primo posto da qualche giorno è occupato (e scommetto che ci resterà per un bel pezzo) dal concerto per i quarant’anni di carriera dei The Cure organizzato da Robert Smith in persona che si è tenuto a Hyde Park a Londra lo scorso 7 luglio. Quando ho visto il video pirata integrale (che è già stato rimosso) mi è venuto da piangere. La bella notizia è che pare che dovrebbe partire un nuovo tour proprio per celebrare l’importante anniversario che speriamo tocchi l’Italia.

 

Mia figlia invece ha chiesto di partecipare al concerto di Calcutta in programma a Milano il prossimo 21 gennaio. Questa volta non ho tergiversato, ho agito immediatamente e sono riuscito a procurarmi due posti numerati su uno degli anelli del Forum di Assago anche se, a poche ore dall’apertura della prevendita, i posti in platea in piedi (quelli sotto il palco, per intenderci) sul sito di Ticketone erano già esauriti. Così mi sono detto uè, deficiente, meno male che ti sei dato una mossa.

devo-zione

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Nel giugno del 1980, benché la situazione internazionale non fosse delle più rilassate, nessuno aveva ancora attentato alla vita di un papa in Piazza San Pietro. Il tentativo di Mehmet Ali Ağca risale all’anno successivo ed è forse per il fatto che, tutto sommato, Città del Vaticano fosse ancora considerata una zona di sospensione di qualunque manifestazione di intolleranza che la presenza situazionista dei Devo conciati come dei new wave americani abbia suscitato solo divertita curiosità da parte dei fedeli. Il video che vedete sotto è superlativo per diversi aspetti: l’effetto che fanno i Devo tra i devo-ti, perdonate il facile gioco di parole, le facce della gente che, a distanza di quasi quarant’anni, sembra davvero di un’era geologica fa, e i Devo stessi, che erano così avanti che ancora adesso ci chiediamo come sia stato possibile.

non togliertelo dalla testa

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[questo articolo è uscito su loudd.it]

Questa storia, una storia personale che sta dietro a “In my head” dei QOTSA, ha un risvolto amaro ed è un peccato perché, per come è stato inventato, il rock non dovrebbe far soffrire. Quando lo fa è perché ci lancia dei segnali di soccorso nella voce di chi canta, segnali che noi rockettari siamo pronti a cogliere e ad adattare alla nostra esperienza, alla nostra vita. Questo è uno dei motivi per cui con il rock ci sono possibilità di diventare universalmente conosciuti in quanto interpreti di sentimenti condivisi e, aspetto a volte collaterale, di fare i soldi.

Poi la sofferenza degli artisti si spinge a punti in cui si fa senza speranza e, chi canta o suona, capita che muoia. Ed ecco perché, raggiunta questa dimensione, il rock, che è espressione pulsante della vita, altrettanto pulsante, fa soffrire. Nel paradiso (perché per il popolo del rock non può essere che così, non me ne vogliano i metallari satanisti) ci sono i nostri idoli che, precocemente o meno, per malattia o per propria scelta, sono passati a miglior vita (per loro) rendendo la nostra di qualche tacca peggiore. Nel paradiso del rock ci sono frontman che sono entrati nella leggenda e camminano insieme a noi stampati sulle nostre magliette, e turnisti che hanno fatto la loro parte contribuendo affinché qualcun altro lo diventasse e che capita di sapere chi sono per caso, come è successo a me per Natasha Shneider.

Ho scoperto Natalia Mikhailovna Schneiderman, o come si faceva chiamare in USA Natasha Shneider, per pura combinazione. “In my head” è la mia canzone preferita dei QOTSA, band che non rientra tra le mie venti preferite ma che comunque mi sta simpatica, soprattutto per la presenza di Josh Homme, personaggio che su di me suscita un interesse che non saprei spiegare (a parte quando prende a calci i fotografi sotto il palco durante i suoi concerti).

“In my head”, oltre a essere un gran bel pezzo di rock’n’roll, è il secondo singolo tratto da “Lullabies to Paralyze”, album uscito nel 2005 e che ritengo complessivamente il più interessante dei QOTSA, insieme a “Villains” del 2017. Qual è il link tra “In my head” e Natasha Shneider?

Natasha Shneider era la tastierista/cantante di una band chiamata Eleven e ha collaborato con Josh Homme nel suo progetto delle “Desert Sessions”, l’iniziativa intorno alla quale si è raccolto un gruppo di musicisti e ospiti vari per dare vita alla pubblicazione di dieci dischi, tra il 1997 e il 2003. Anche “In my head” è un brano frutto delle “Desert Sessions”, compare infatti nel volume n. 10 con il titolo “In My Head Or Something”, qui trovate la versione originale.

Natasha Shneider ha inoltre partecipato al tour live successivo alla pubblicazione di “Lullabies to Paralyze” come tastierista e vocalist dei Queens of the Stone Age, almeno fino quando, dalla sua lotta contro il cancro, ne è uscita sconfitta. Il 2 luglio del 2008 l’annuncio della scomparsa di Natasha Shneider è stato dato anche sull’home page del sito dei QOTSA e, poco più di un mese dopo, la band di Josh Homme ha organizzato un concerto a Los Angeles con numerosi artisti, i cui proventi sono stati devoluti per contribuire alla copertura delle spese dovute alla sua malattia.

Ho scoperto tutto questo – e la storia di Natasha Shneider – però molto tempo dopo. Cercavo su Youtube una versione di “In my head” dal vivo per verificare la portata rock di una canzone che mi piace tantissimo eseguita live e ho trovato il video che vedete qui sotto. Oltre al pezzo, sono rimasto subito colpito da Natasha Shneider dietro alle tastiere, dalla sua presenza sul palco, dalla sua bellezza (anche se non sono più ufficialmente un tastierista non ho perso l’interesse per gli ex colleghi) e mi sono precipitato a cercare tutte le informazioni che ho riassunto qui.

Da allora “In my head” dei Queens of the Stone Age mi è entrata ancora più nella testa, tanto che provo il bisogno di riascoltarla con una certa continuità soprattutto in questa versione live per soffermarmi nel punto in cui Natasha Shneider dietro alle tastiere inizia a ripetere, come un mantra, il ritornello:

“I keep on playing our favorite song
I turn it up while you’re gone
It’s all I’ve got when you’re in my head
When you’re in my head, so I need it”

Ed è lì che mi viene da chiederle di suonarla ancora, questa nostra canzone preferita.

è il 2018 è c’è ancora gente che acquista gli ellepì dei Cure

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È il 2018 è c’è ancora gente che acquista gli ellepì dei Cure. Io, per esempio. Avrete letto infatti che ci sono due belle novità per gli estimatori più anziani della band di Robert Smith. Intanto è stato ristampato su vinile quel “Mixed Up” che a me piace tanto e di cui avevo parlato qui. Era ora, considerato che l’edizione originale era ormai diventata una rarità e l’acquisto di una copia usata un’impresa proibitiva. Io – non chiedetemi perché – l’avevo preso ai tempi su cassetta e, al milionesimo ascolto, il nastro si era distrutto. La seconda notizia è che i Cure hanno finalmente dato seguito a questo progetto di brani remixati con “Torn Down: Mixed Up Extras 2018”, un ellepì doppio nuovo di zecca che comprende altre 16 canzoni remiscelate:

01. Three Imaginary Boys – Help Me Mix by Robert Smith
02. M – Attack Mix by Robert Smith
03. The Drowning Man – Bright Birds Mix by Robert Smith
04. A Strange Day – Drowning Waves Mix by Robert Smith
05. Just One Kiss – Remember Mix by Robert Smith
06. Shake Dog Shake – New Blood Mix by Robert Smith
07. A Night Like This – Hello Goodbye Mix by Robert Smith
08. Like Cockatoos – Lonely In The Rain Mix by Robert Smith
09. Plainsong – Edge Of The World Mix by Robert Smith
10. Never Enough – Time To Kill Mix by Robert Smith
11. From The Edge Of The Deep Green Sea – Love In Vain Mix by Robert Smith
12. Want – Time Mix by Robert Smith
13. The Last Day of Summer – 31st August Mix by Robert Smith
14. Cut Here – If Only Mix by Robert Smith
15. Lost – Found Mix by Robert Smith
16. It’s Over – Whisper Mix by Robert Smith

Se volete c’è anche poi una versione su CD con un bel po’ di gustosissimi remix d’epoca:

01. Let’s Go To Bed – Extended Mix 1982 – 2018 remaster
02. Just One Kiss – Extended Mix 1982 – 2018 remaster
03. Close To Me – Extended Remix 1985 – 2018 remaster
04. Boys Don’t Cry – New Voice Club Mix 1986 – 2018 remaster
05. Why Can’t I Be You? – Extended Mix 1987 – 2018 remaster
06. A Japanese Dream – 12″ Remix 1987 – 2018 remaster
07. Pictures of You – Extended Version 1990 – 2018 remaster
08. Let’s Go To Bed – Milk Mix 1990 – 2018 remaster
09. Just Like Heaven – Dizzy Mix 1990 – 2018 remaster
10. Primary – Red Mix 1990 – 2018 remaster
11. The Lovecats – TC & Benny Mix 1990 – 2018 remaster

batteristi presi da dietro

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Prima di Dave Grohl, il batterista allo stesso tempo spassoso e superbravo, tecnicissimo ma scazzato, serio ma incline al punk da ammirare e venerare era solo Steward Copeland. Steward Copeland, tra i settanta e gli ottanta, è stato il principale punto di riferimento per intere generazioni di batteristi che non se la sentivano di suonare per forza fusion o jazz o, peggio, progressive senza però rinunciare a mostrare ciò che avevano imparato a lezione dai loro maestri. Abbiamo detto più volte che se certi gruppi new wave avessero avuto sezioni ritmiche più precise o teniche avrebbero spaccato molto di più. Steward Copeland, nei primi dischi dei Police, mischia punk, reggae, rock con una tecnica impeccabile nel suo originalissimo stile, unico al mondo, il primo e probabilmente l’unico batterista ad aver stravolto le priorità di ascolto in una band. Nei pezzi di “Outlandos d’Amour”, “Reggatta de Blanc” e “Zenyatta Mondatta”, per la prima volta in un gruppo non di estrazione rock classico, è possibile seguire la sezione ritmica come tracce a sé, cosa che fino ad allora si poteva fare solo con i mostri sacri come Phil Collins dei Genesis o dinosauri simili. Di Steward Copeland era anche sorprendente il suo non-look, con pantaloncini e calzettoni da basket che nemmeno i turisti tedeschi. Un’idea di come suonasse dal vivo il batterista dei Police possiamo farcela da video come questi, in cui qualcuno si è posizionato con una telecamera dietro di lui durante un concerto. Il risultato è impressionante.

di tanto in tanto un grido copriva le distanze

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“La voce del padrone” di Franco Battiato, uscito nell’autunno nel 1981, risulta comunque un album che è facile legare all’estate successiva, quella del 1982, considerando che al primo posto della Hit Parade c’è schizzato solo allora. Solo per modo di dire, naturalmente, se considerate quante copie ha venduto. Questo significa che si tratta di un disco per tutte le stagioni. “Centro di gravità permanente”, con quel video assurdo dei tizi che ballano un discutibile twist, è un brano provocatoriamente invernale. “Cuccurucucù” risveglia dai torpori e ti sbatte in faccia la primavera e le serenate in senso lato e in balia degli ormoni. Ma “Summer on a Solitary Beach”, sarà perché l’estate la cita nel titolo, è l’inno dell’agosto che volge al termine, fa un caldo pazzesco ma alle otto la canicola lascia il posto già all’imbrunire come l’autunno alle porte, ci sono gli echi del cinema all’aperto e tutte quelle cose poetiche che non mi stancherò mai di ascoltare perché mi soffocano di malinconia per le cose che finiscono. Ieri sera, giunto a casa dal lavoro, ho spalancato le finestre sul balcone e l’ho messo a un volume smoderatamente eccessivo, soprattutto per il tipo di musica di cui è espressione e considerando che non ricordo affatto i sentimenti che mi muovesse nel 1982. D’altronde voi a cinquantun anni riuscireste a ripercorrere la cartina muta del vostro animo di trentasei anni prima? Però “La voce del padrone” è considerato il secondo disco più bello di sempre nella classifica dei 100 dischi italiani di Rolling Stone Italia, così ho deciso che d’ora in poi farò miei tutti i primati di quelle esperienze che, in quanto universali, devo aver provato anch’io per forza.

take a sad song and make it better

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Se un giorno mai dovessi fare l’insegnante in una qualsiasi scuola di qualsiasi ordine o orientamento e, soprattutto, indipendentemente dalla materia insegnata, inizierei ogni lezione con la canzone del giorno. Proprio così. E il primo giorno di scuola la canzone sarebbe “Hey Jude” anche solo per suonarla e cantarla tutti insieme come la fanno Paul McCartney e James Corden alla fine di questa che è la più bella puntata ever del programma “Carpool Karaoke”.

la seconda volta nella vita

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Angélique Kidjo ha praticamente rifatto “Remain in light” dei Talking Heads in versiona afro-beat e vi assicuro che è una figata senza precedenti, anche se un precedente c’è ed è “Remain in light” dei Talking Heads.