sembra un secolo fa, vero?

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Quando, nel 2000, Deeder Zaman lascia gli Asian Dub Foundation per l’altrettanto nobile causa dei diritti civili, per la band londinese comincia una nuova fase. Abbandonata necessariamente l’identità di gruppo, com’è naturale per chi resta orfano di un frontman positivamente ingombrante, gli ADF a partire da allora adotteranno la formula del collettivo aperto ad accogliere rapper e cantanti diversi in ogni occasione, sia in qualità di ospiti che per fare gli onori di casa, con l’aggiunta di sporadici cameo del calibro di Sinead O’Connor.

Senza nulla togliere alla qualità del progetto che proseguirà a partire proprio dal seguito di “Community Music”, i primi tre album degli Asian Dub Foundation con Deeder Zaman restano unici per motivi che è facile desumere. La freschezza del genere jungle e drum’n’bass nato dalle postazioni dei dj set e cresciuto con batteria e basso suonati in carne ed ossa. Il mix tra big beat e musica asiatica, cose che solo in un posto come Londra possono avere origine. Gli sforzi intregrazionisti e terzomondisti del periodo pre-11/9, prima che la faccenda delle Torri Gemelle e tutto ciò che ne è derivato inducesse i guardiani da una parte e dall’altra del mondo a serrare i portoni, abbassare le saracinesche e buttare via la chiave.

Non è un caso che gli album degli Asian Dub Foundation, dopo la tragedia newyorkese, abbiano titoli come “Enemy of the Enemy” mentre, da questa parte della “Fortress Europe”, ci sia ancora posto per la “Community Music”, anche se accompagnata dall’effige di un inquietante mirino in copertina. Non che fossero assenti le tematiche già urgenti legate ai flussi migratori e alla forzata commistione tra popoli, ma i toni risultavano ancora qualche tacca più sotto del livello di guardia.

Più maturo e convincente dei precedenti “Facts and Fictions” e “Rafi’s Revenge”, “Community Music” costituisce così l’apice degli Asian Dub Foundation. Questo significa che Deeder Zaman lascia la band proprio sul più bello e il carattere di caducità che ne deriva dopo il suo forfait contribuisce a prolungare il successo del disco e induce gli ascoltatori, da lì in poi, agli inevitabili paragoni tra il prima e il dopo. Resta il fatto che il disco è una vera e bomba grazie alla rumorosissima compresenza di punk, reggae, jungle e cultura anglo-indo-qualcosa, un supporto musicale su cui primeggia il ragga di Deedar, il suo timbro inconfondibile e, se come me avete avuto la fortuna di vederli live, il suo modo di stare e di saltare sul palco.

La tracklist di “Community Music” è ricca e abbondante, come tutti gli album pensati per trovare posto in un compact disc, e introdotta da una sequenza mozzafiato – “Real Great Britain”, “Memory War”, “Officer XX” e il singolo “New Way, New Life”- in cui il ritmo tiratissimo tra drum’n’bass e jungle non lascia tregua. Il resto è tutto un alternarsi di reggae, dub, elettronica frutto di una lunga militanza dietro alle console dei club londinesi e continui richiami a quel minestrone di origini Punjab e radici bengalesi trapiantate nel sottosuolo della metropoli più multietnica del mondo in cui gli Asian Dub Foundation hanno trovato ispirazione.

Sitar, campionatori, melodie tradizionali e chitarre elettriche coesistono negli stessi solchi dei brani senza farsi mai sentire reciprocamente strumenti fuori luogo o chiamati a interpretare sonorità estranee alla loro natura perché la natura è comune, in ogni dove. “Community Music” probabilmente ha chiuso un’epoca forse meno cupa della nostra, un tempo in cui mescolare le cose era considerato ancora un arricchimento globale e un modello di convivenza in grado di permettere a chiunque, in ogni latitudine del mondo, di avere sempre qualcosa di nuovo da imparare.

la nostra meravigliosa toponomastica

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Da quando non c’è più il Festivalbar le nostre estati sono più vuote. Restano il mare, le vacanze, l’afa in città, le zanzare e persino i tormentoni estivi, ora senza più un juke-box a contenerli. Manca però un filo conduttore per i topos della bella stagione e una serata conclusiva all’Arena di Verona a rappresentarne la sintesi come la celebre manifestazione canora apoteosi del pop in bermuda e infradito. La cultura di massa dal 2007 – anno dell’ultima edizione del format di Vittorio Salvetti – è corsa ai ripari con simulacri del Festivalbar, auto-dotandosi di concerti itineranti da presentare nelle piazze delle città italiane con le celebrità del momento. L’ultimo esperimento di questo genere si chiama “Battiti Live” e ha una formula analoga. Sul palco si susseguono cantanti e gruppi a presentare un paio di brani davanti a una folla in delirio in una cornice coloratissima, chiassosa e piena di effetti speciali per rendere lo spettacolo il più televisivo possibile. Manco a dirlo, è un programma di Italia 1. La puntata di ieri sera è stata trasmessa da Melfi, cittadina di Potenza, Basilicata, e più precisamente da una piazza che, per ospitare la manifestazione, deve essere bella grande. La piazza di Melfi in cui è stato ripreso “Battiti Live” di ieri sera si chiama Piazza Craxi. I presentatori del programma e i cantanti stessi, per coinvolgere il numeroso pubblico, hanno più volte ripetuto il nome della piazza. “Su le mani Piazza Craxi!”, “Piazza Craxi fatevi sentire!” e cose così. Le ragazzine nelle prime file sotto il palco sono state riprese spessissimo nei botta e risposta con gli incitamenti provenienti dalla scena, oltre a cantare a squarciagola le loro canzoni preferite. A dire la verità, sul palco si sono avvicendati emeriti sconosciuti che poi ho scoperto essere principianti usciti dalle scuderie dei talent Mediaset, alcuni con nomi da personaggi biblici: Nesli, Baby K., Annalisa, Alessio Bernabei, Benji & Fede, Irama, Einar, Vegas Jones, Jake La Furia. La serata poi ha avuto il suo culmine con la presenta di un certo Gabry Ponte, un disc jokey che ha saltato un po’ sul palco mixando brani del calibro di “Amore Capoeira” di Giusy Ferreri e una bizzarra versione da lezione di aerobica di “Tu” di Umberto Tozzi. Alla fine ho pensato che fosse giusta la presenza, nelle città italiane, di Piazza Craxi. Ogni centro abitato dovrebbe avere una Piazza Craxi per ospitare cose di questo di tipo.

il suono

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Ciascuno di noi ha almeno un conoscente che, ogni 18 maggio, anniversario della morte di Ian Curtis, si rammarica del fatto che il 26 aprile il grande popolo dei cultori della musica doc non celebri con la stessa enfasi l’analogo amaro destino di Adrian Borland, il cantante dei The Sound morto suicida sotto un treno nel 99. Di tutte le dinamiche a cui il rock è soggetto la presunta rivalità postuma con i Joy Division per l’abisso di fama riscossa è quella di più dubbio gusto, anche se è chiaro a tutti che nel rock (che nel nostro caso è post-punk ma il principio è lo stesso) puoi essere in gamba quanto vuoi ma c’è sempre un fattore X (ci hanno fatto pure un programma di successo in proposito) che non dipende da niente e nessuno e che decide la vita e la morte (al momento solo in senso figurato) degli artisti.

Una variabile che fa sì che un album come “Jeopardy” sia diventato negli anni molto meno iconico di un “Unknown Pleasures” anche solo a partire dalla copertina, altrettanto emblematica ma che, al momento, non troverete stampata sulle magliette a 14.99 da H&M. Non so se sia un peccato o no. Il fatto è che “Jeopardy” è un disco straordinario e merita, ancor prima della giusta fama e di un posto tra i primi dieci album new wave di tutti i tempi, ascolti attenti.

E il problema di “Jeopardy” forse è che è troppo bello e anche troppo unico per un gruppo dal nome semplice e dall’approccio defilato come i The Sound. Un disco che quasi suona come un greatest hits, qualcosa di mai più raggiungibile, l’apice di un estro esploso forse troppo in anticipo, difficile da coltivare e far crescere ancora. Almeno questo è quanto sostengono la critica specializzata e l’opinione pubblica. Se vi va, potete dissociarvi con me da questa linea a partire da oggi stesso. A me dei The Sound piace tutto, anche “Thunder Up”, anche il materiale che Adrian Borland ha pubblicato da solo.

La sua chitarra inconfondibile è la prima cosa che si nota nel fade-in di “I can’t escape myself”, seguita dalla goccia dissonante di synth e dalla più che ossessiva sezione ritmica di basso e batteria. Il testo e la fuga da sé di cui racconta non lasciano dubbi: nella prima traccia di “Jeopardy” c’è già tutto. Tutto il suono e lo stato d’animo di chi è già stato e che verrà, tutte le band che daranno al post punk un ruolo primario nella storia della musica, tutto quello che Adrian Borland inseguirà fino alla morte.

E poi c’è l’esplosione: “Heartland” con quella soluzione armonica così in controtendenza rispetto allo scarso amore per l’abbinamento degli accordi tra di loro che ha fatto del post-punk un pugno in occhio, anzi, nelle orecchie degli ascoltatori mainstream del tempo. Poi, se volete i Joy Division, eccovi accontentati in “Hour of Need”. Preferite gli Ultravox di John Foxx e di “Young Savage”? Provate con “Wold Fail Me”, c’è persino un po’ di sax.

“Missiles” è un’altra traccia monumentale, con Borland che grida una risposta di pace in un tempo di forti tensioni politiche, in piena guerra fredda. “HeyDay”, “Resistance” e “Jeopardy”, la titetrack, sono new wave allo stato puro, mentre “Night Versus Day” spinge il disco a un registro più dark, portato all’estremo dalla struggente “Unwritten Law” e quel suo testo così testimonianza di una verità elementare: una mano è una mano, un coltello è un coltello, il sangue è sangue, la vita è la vita. E quindi, all’apice del parossismo, ecco la no-wave di “Desire” a raffreddare gli animi, a smorzare l’impeto, a chiudere il disco sullo stesso identico registro con cui era iniziato.

In “Jeopardy” c’è molto e forse c’è troppo. È un disco schizofrenico come il disagio che ha accompagnato Borland lungo la sua esistenza. E comunque, se proprio volete fare la gara, secondo me tra “Unknown Pleasures” e “Jeopardy” non c’è proprio paragone. I The Sound vincono a mani basse.

cibo per la mente

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È 1980 e il reggae e i suoi derivati stanno attraversando uno dei periodi più floridi della storia. La musica in levare è uno dei generi più popolari soprattutto in UK, un primato a cui contribuiscono diversi fattori. L’ambasciatore ufficiale della musica giamaicana, Bob Marley, a giugno pubblica l’album definitivo (in tutti i sensi, considerando che sarà l’ultimo) con tanto di successi internazionali quali “Could you be loved?” e “Redemption Song”. Ai concerti punk, prima dell’esibizione dal vivo, l’usanza è quella di scaldare il pubblico con del reggae e a Londra giamaicani e inglesi si contaminano con i rispettivi ascolti. Lo ska della 2Tone è sulla cresta dell’onda e le band di punta come i Selecter, gli Specials e i Beat mescolano musicisti neri e bianchi tra le loro fila per fare una sintesi del meglio dei generi e della società in circolazione. In tutto ciò, la recente elezione di Margaret Thatcher, il consenso suscitato dal National Front e la disoccupazione crescente contribuiscono a confondere le cose e a minare la solidarietà tra le classi meno abbienti, alimentando le tensioni tra chi non se la passa troppo bene.

L’Unemployment Benefit Form 40 è il modulo per la richiesta al dipartimento del lavoro del governo britannico del sussidio di disoccupazione ed è ancora un cardine dello stato sociale inglese. La sigla e il progetto UB40, nel senso della band, hanno quindi un significato ben definito: il colore della pelle non comporta differenza se il problema è come garantirsi una vita dignitosa.

Certo, in tutto questo impegno e in un tripudio di messaggi di socialismo militante è difficile riconoscere lo stesso gruppo protagonista dell’esplosione commerciale e pop a metà degli 80. Anzi, se non fosse così inequivocabile il timbro della voce di Ali Campbell potremmo sbatterci a dimostrare che quelli di “Madam Medusa”, dedicato alla Iron Lady, e gli interpreti di “I Got You Babe” al fianco di Chrissie Hynde sono proprio due realtà che non ci azzeccano l’una con l’altra.

Eppure i solchi di “Signing Off” non lasciano dubbi e, peraltro, “Signing Off” è senza ombra di dubbio uno dei migliori dischi di reggae inglese di tutti i tempi. La genesi dell’album, che è poi la genesi degli UB40 stessi, la trovate descritta al meglio su Wikipedia. Ci sono alcuni passaggi divertenti, a partire dalle condizioni in cui è stato registrato il disco determinate dal budget limitato e l’atmosfera di entusiasmo portata nello studio casalingo di Bob Lamb dalla grande famiglia della band (comunque mica pochi) con il loro entourage.

Il suono che ha “Signing Off” è unico ed è facile confermare la stessa caratteristica oggi, a quasi quarant’anni di distanza. Il reggae è tutt’altro che roots, le canzoni affatto monotone nel loro incedere armonico, i pattern ritmici molto vari e con diverse sfumature di shuffle. Le chitarre graffianti nel loro inarrestabile levare si alternano a fraseggi o assoli accennati, spesso con effetti tipici del suono dell’epoca. Il basso è magistrale, come da copione nel reggae, e sostiene tutto l’apparato di pulsazioni dub, con alcuni sconfinamenti antesignani della drum’n’bass, come il finale di “Burden of Shame”. Pochissimi organi ma tanti suoni innovativi di tastiere, che ci proiettano già in quello che avverrà dopo – anche nel reggae – ma senza alcuna deriva nei suoni di plastica che invaderanno l’estetica musicale del decennio appena agli albori.

Non solo. Osservando “Signing Off” da qui, risulta inalterata l’attualità conscious dei testi: l’ingiusta sentenza ai danni di “Tyler”, un 17enne nero alla mercè di una giuria di bianchi accusato e poi condannato per l’omicidio di un ragazzo dalla pelle più chiara; “King”, dedicata all’omonimo Martin Luther; la dicotomia tra nord e sud del mondo di “Food for Thought” il cui tema di sax, nella sua semplicità, resterà uno dei cavalli di battaglia degli UB40.

questo è il modo in cui dovrebbe iniziare

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Non ci ho messo né uno né due a pensare a loro quando la NASA mi ha chiesto di un suggerimento su quale band ingaggiare da mandare su Marte come la più rappresentativa del genere umano e di tutti i tempi per far conoscere al resto dell’universo che cosa intendiamo sulla Terra quando parliamo di rock. Il “Sistema Solare Tour” dei Led Zeppelin al completo, comprensivi quindi anche di John Bonham alla batteria e con Page, Plant e John Paul Jones poco più che ventenni, comincerà il prossimo autunno dal pianeta rosso e prevederà tappe in tutti i pianeti più cool dello spazio come lo conosciamo. Per mettere subito le cose in chiaro con i fan dei Beatles, Stones, Queen eccetera vi dico solo che se la consulenza è stata chiesto a me, un motivo ci sarà. Studiate quanto ho fatto io, candidatevi al mio posto e poi vediamo che succede.

il disco con le cinquemila lire in copertina

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Con i cantautori degli anni settanta c’era poco da ridere. Le canzoni non dico spigliate ma almeno non deprimenti sono una rarità. Guccini e la sua “Avvelenata”, “Vaudeville” di Vecchioni, quasi tutta la discografia di Bennato ma perché lui ha una matrice anomala. Lo specifico del cantautore di quegli anni era tutt’altro quello del buontempone e, credetemi, meglio così perché con questa gravità di contenuti abbiamo fatto scuola e si ricordano ancora di questa cosa tutta nostra anche all’estero. “Aspettando Godot” è uno di quei dischi che noi che siamo cresciuti con dei fratelli maggiori in quegli anni lì custodiamo gelosamente nella nostra collezione anche se, a dire il vero, raramente ci viene voglia di metterlo sul piatto. Non sono tempi di metasignificati, questi. Si punta sulla generalizzazione e sulla semplificazione, la sintesi che il nuovo ciclo (sub)culturale impone non lascia spazio agli approfondimenti. Se ci si guarda dentro è per accedere alla cronologia dei social. Non c’è spazio per riflettere, in così pochi caratteri a malapena ci sta il titolo. Tantomeno se le parole di certe canzoni della cui esistenza ci ricordiamo quando è il loro autore a lasciarci ci buttano giù di morale: l’amarezza della vita, gli amori non corrisposti, gli ostacoli più alti per i più deboli e persino la morte. Stamattina mi è sembrato doveroso ascoltare la mia copia del 33 giri di “Aspettando Godot” di Claudio Lolli. Poi mia moglie ed io ci siamo guardati e nemmeno a metà della titletrack, la prima traccia del lato A, abbiamo spento, cogliendo l’inappropriatezza del tempo che viviamo rispetto alla canzone, mica il contrario, cosa credete.

i pezzi costruiti su quattro accordi ripetuti all’infinito che non annoiano sono molto pochi

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I pezzi costruiti su quattro accordi ripetuti all’infinito che non annoiano sono molto pochi. Quelli che, oltre a non annoiare, spaccano di brutto si contano sulle dita di una mano. È il caso di “Leave them all behind” dei Ride e della formula chimica sulla base della quale il capolavoro del shoegaze inglese è stato composto.

“Leave them all behind” è un pezzo unico in tutti i sensi. I Ride sembrano infatti aver preso un blocco di materia grezza musicale sul quale è stato possibile scolpire tutto il brano nel suo insieme. Lo si evince dalla totale assenza di giunture, fughe, incastri o saldature tra componenti diverse, nemmeno quando alla metà precisa del brano, con un senso della simmetria unico, una modulazione verso toni vicinissimi fa intendere un giro di boa per il rush finale, o quando a un minuto dalla conclusione l’esecuzione inizia ad inacidirsi con un vortice sempre più stretto di passaggi armonici che fa girare la testa.

Nonostante le innumerevoli stratificazioni di chitarre acustiche ed elettriche, il cardine del brano è una sequenza di bicordi eseguiti con il sintetizzatore che, attraverso un loop dagli accenti tutti sballati, descrive dall’inizio alla fine l’orbita intorno alla quale, come satelliti, ruotano a loro volta pattern di batteria molto regolari e ricchi di rumorosissimi piatti insieme al basso portante, che ne segue il rotondo incedere. Il ritmo straripa da un giro a quello successivo con passaggi sempre diversi tra di loro, ogni volta. In cima svettano le voci, rigorosamente in coppia ad armonizzarsi a vicenda con note lunghe, un espediente in grado di portare il brano a livelli di psichedelia da record.

Tutto questo sembra andare avanti da sé dopo un moto iniziale, una sorta di causa prima del divenire che ha dato origine al tutto, grazie alla quale si può eseguire “Leave them all behind” ad occhi chiusi, o anzi con i capelli sugli occhi senza vedere nulla, o ballarlo scuotendo la testa in una coreografia rotante volta al raggiungimento di un’estasi mistica. Potete mettere “Going blank again”, di cui “Leave them all behind” è la prima traccia del lato A, e poi per più di otto minuti di autonomia andare in trance e non pensarci più, non pensare più a nulla. Muovetevi a tempo e basta ma, appena la canzone volge al termine, siate pronti a spegnere tutto prima che inizi “Twisterella”, il brano successivo. Dal sogno alla realtà, il contrasto può risultare letale.

il parco della musica

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Quella di suonare in strada, nelle piazze e nelle stazioni della metropolitana è un’arte che i musicisti italiani da sempre invidiano ai musicisti delle grandi città all’estero perché, fondamentalmente, da noi è una pratica ostacolata e preclusa come in nessun altro posto al mondo. Pensate alla compresenza di alcuni fattori quali un corpo di polizia preposto alla tutela del decoro cittadino come quello dei vigili urbani unito all’esistenza della SIAE che, con la sua rete capillare di rigida burocratizzazione applicata acriticamente, non distingue procedure di gestione tra un concerto di Vasco Rossi a San Siro rispetto al tizio che canta “La canzone del sole” chitarra e voce al parchetto per rimediare due spiccioli e farsi una birra. Si tratta di un controsenso vecchio quanto la nostra povertà culturale: siamo rigidi in campi come l’arte in cui si dovrebbe lasciare libertà d’espressione e ammettiamo allo stesso tempo il caos interpretativo in campi come il fisco in cui, invece, occorrerebbe esercitare un controllo adeguatamente serrato.

Se, per dire, il Parco Sempione fosse un teatro di spettacoli e concerti improvvisati come quelli che si tengono al Mauerpark di Berlino, e non sto parlando di quelli che si cannano nemmeno fossimo a Trenchtown e ci danno dentro fuori tempo con i bonghi, probabilmente arriverebbero nel giro di qualche minuto le teste di cuoio armate di borderò. Nelle nostre città ci dobbiamo accontentare di qualche orchestrina d’archi gitana e dei flautini indiani che coverizzano con arrangiamenti aleatori il peggio del pop mondiale. Ed è un peccato, perché per strada si manifesta il massimo dell’incontro tra domanda e offerta. Oggi, inoltre, la tecnologia consente a singoli e band di non rinunciare alla loro componente elettrica ed elettronica per rendere al meglio la loro proposta e, almeno all’estero, ai busker con strumenti acustici tradizionali si alternano loop station, postazioni da djset e impianti audio di una certa portata. Questo non significa che ogni punto di una delle nostre città d’arte debba essere necessariamente teatro per esibizioni pubbliche. Però avere spazi come quelli di Berlino in cui la gente va apposta per godersi le proposte dei musicisti di strada mi sembra un modo intelligente per favorire l’arte estemporanea che va oltre gli uomini-statua, premesso che ho molti amici uomini-statua.

momenti di Gloria (Jones)

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È ora che sappiate che “One Step Beyond” non è dei Madness, “You Keep Me Hangin’ On” non è di Kim Wilde e, soprattutto, “Tainted Love” non è dei Soft Cell, tantomeno di Marilyn Manson. Se siete ragazzi degli anni 80, un buon modo per uscire dall’adolescenza è accertarsi della paternità di certi brani e vedrete come l’immaginario delle canzoni che vi hanno fatto idolatrare questo o quell’artista crolla con naturalezza, come un castello di carte a cui ne è stata mossa una dalle fondamenta.

La bella notizia però è che, ad ascoltare l’archetipo di una delle canzoni più coverizzate della storia della musica, si può ricevere in cambio una sorpresa. L’originale ha mantenuto nel tempo una carica che nessuna versione successiva è mai riuscita a eguagliare.

“Tainted Love” venne composta nei primi anni 60 da Ed Cobb per i suoi Four Preps, un quartetto vocale americano, una specie di Platters bianchi tutto al maschile, ma fu registrato e pubblicato dalla cantante Gloria Jones solo nel 1965. Non fu un brano di particolare successo (era addirittura la b-side di un altro singolo) almeno fino a quando, a metà degli anni 70, non divenne un classico del Northern Soul inglese ed è molto probabile che il colpo di fulmine tra “Tainted Love” e Marc Almond si sia manifestato proprio grazie a un dj durante una serata dedicata al genere in voga ai tempi, in qualche club britannico.

I Soft Cell incisero “Tainted Love” nel 1981 in una versione che si caratterizza per la forza iconoclasta del synth pop/new wave dell’epoca nei confronti della musica precedente, da una parte, e per il sentito tributo che i cantanti dotati di spiccate capacità vocali nel periodo (come Marc Almond) hanno comunque voluto offrire alla Motown. L’arrangiamento – lo conoscete tutti – è una sorta di voluta riduzione all’essenziale, propria della musica elettronica, della forza viscerale degli strumenti acustici del soul, la sezione fiati in primis. Il ritmo è più lento rispetto all’originale e la tonalità è abbassata di qualche tacca, anche se la voce di Almond è tutt’altro che baritonale. Il paradosso è che comunque la registrazione dei Soft Cell a suo modo è riuscita a mantenere un tiro inconsueto per un brano composto unicamente da suoni finti tanto che, ancora oggi, fa la sua discreta figura.

Grazie al duo inglese, dagli anni 80 la popolarità di “Tainted Love” è salita alle stelle tanto da dare il via a una lunghissima serie di cover della cover della cover eccetera eccetera. Marilyn Manson, grazie a “Tainted Love”, ha messo a segno uno dei più importanti successi della sua carriera, tanto per iniziare. E se date un’occhiata alla lista delle volte in cui è stata riproposta e, soprattutto, alla varietà di nomi da cui è stata interpretata potreste rimanere stupiti. C’è stato persino un ottimo tentativo anche qui dalle nostre parti: il gruppo rockabilly/psychobilly catanese dei Boppin’ Kids ne ha inciso una versione alla Stray Cats nel 1986, comparsa persino nella compilation delle band partecipanti all’edizione di quell’anno di Sanremo Rock.

Possiamo dire che ogni versione di “Tainted Love” ha le sue peculiarità. Il fatto è che, quando un brano spacca in questo modo, puoi rigirarne i fattori a piacimento senza che il prodotto cambi. Resta sempre bello. Sentire però la primissima registrazione, magari per chi arriva dalle versione più recenti, fa comunque rimanere di stucco. Possibile che, nel 1965, ci fossero brani che suonavano davvero così?

non so se esista l’invidia dell’hashtag, di sicuro c’è l’hashtag dell’invidia

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I socialcosi hanno fatto esplodere come una molotov il vaso di pandora delle nostre rosicate perché hanno portato su scala globale il livello del confronto. Mentre prima ci facevamo del nervoso solo nel raggio del nostro metro quadro in cui viviamo e lavoriamo, e non a caso il celebre motto sull’erba del vicino non lascia dubbi sulle distanze entro le quali hanno effetto le gittate della nostra bile, oggi grazie all’Internet possiamo odiare persino gente nata a migliaia di km di distanza da noi solo perché incarna ciò che non potremo mai essere, fermo restando che qui in Italia continuiamo ad odiare gente che incrociamo per strada e sui mezzi solo perché non risponde ai nostri canoni di italianità ma questo purtroppo è un altro discorso.

Il mio consiglio quindi è di non imitare il mio comportamento. Ho commesso l’errore di far sì che Instagram mi visualizzi sulla mia home page tutte le immagini pubblicate con l’hashtag #synthesizers e non ho messo ancora volutamente il link per farvi capire cosa intendo perché se siete tastieristi falliti come me le foto a cui sarete esposti potrebbero danneggiarvi fortemente nei sentimenti. Allora, siete pronti? Ecco qui, date pure un’occhiata a tutto il ben di dio che sfoggiano quei maledetti tastieristi che pubblicano foto con il loro equipaggiamento da tutto il mondo ma poi non dite che non ve l’avevo detto.