che ci lascia lo zampaglione

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Ho condiviso il palco con i Tiromancino nel novantasei o giù di lì. Noi eravamo il gruppo di supporto, savasandir, ma l’incommensurabile spazio concerti del Leoncavallo di Via Watteau era rimasto pressoché deserto per entrambi. Noi eravamo emeriti sconosciuti ma anche loro, ai tempi, non è che fossero proprio i Beatles. A discolpa di tutti c’è da dire che vivevamo un periodo di grande fermento, c’erano concerti ovunque, il pubblico si parcellizzava molto democraticamente tanto che se non era raro trovarsi a scegliere nella stessa sera tra cose del livello di Peter Gabriel e David Bowie (è successo a Milano nel 1987) figuriamoci tra band del nostro infimo livello schierate simultaneamente dai numerosi locali della metropoli. Le altre cose che ricordo sono il fascino della bassista e l’antipatia del cantante che, ancora distante dai due destini uniti nella descrizione di un attimo, con il suo accento da borgataro romanesco apostrofava il tecnico di palco, sfoggiando lunghi boccoli neri e un modello di occhiali anni 70 molto in voga ai tempi. Ho pensato a Zampaglione perché ho scoperto che è da poco uscito un disco con i maggiori successi del gruppo che lo ha sopportato fin troppo tempo rivisitati in chiave – diciamo – moderna. L’album si chiama “Fino a qui” ed è un perfetto compitino per chi vuol tornare sulla cresta dell’onda chiamando i nomi del momento a dargli man forte. I fenomeni indie, il guru del buonismo fine a se stesso, il rapper in quota zarri, il cantante pop tornato di moda nel giro di due estati (come a dire “se ce l’ho fatta io ce la puoi fare anche tu”) fino a un pessimo remake della mia loro canzone preferita interpretata con una delle cantanti italiani che detesto di più di tutti i tempi che è Alessandra Amoroso. Perché se Zampaglione non mi sta per niente simpatico (in parte perché, nel bene e nel male, mi ricorda Battisti, un altro mostro di cordialità) devo ammettere che quei due o tre dischi centrali della carriera dei Tiromancino, usciti tra il duemila e il duemila e quattro, mi sono piaciuti parecchio. Per questo sono rimasto doppiamente deluso. Che bisogno c’era di rovinarli così?

foto di gruppo

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La prima volta in cui ho iniziato a dubitare della loro efficacia e di quanto poco verosimilmente riuscissero a trasmettere l’anima di una band è stata quando, in un’unica pubblicazione che celebrava il rock locale, ero presente in tre profili dedicati ad altrettanti gruppi in cui militavo simultaneamente. Un musicista che si dà da fare in tre situazioni artistiche e, soprattutto, in tutti i casi presta la sua faccia a provarne la serietà non è assolutamente credibile, tradisce un approccio tutt’altro che ammesso dall’etica del rock e agisce del tutto oltre i parametri della lealtà che lega nel profondo i paladini delle sette note (che poi sono dodici e anzi, qualcuno dice che prendendo in considerazione il comma addirittura infinite). Trovare foto non dico fatte ad arte ma almeno decenti di complessi musicali emergenti, quindi non in grado di pagare professionisti per documentare la loro genuina anima posseduta dal rock, è pressoché impossibile. Le facce da duri, gli sfondi con le macerie, gli stabilimenti desueti, l’archeologia industriale e quanto di più deprimente possa venire in mente per rappresentare il disagio urbano o dell’hinterland collaterale sono temi più che ricorrenti nell’iconografia dei giovani che prendono sul serio la loro musica e sposano la causa del successo. Sorridere in questo genere di immagini promozionali è fuori discussione. Vietato l’abbigliamento non consono alla cattiveria delle intenzioni. Ammessi invece monumenti o architetture riconoscibili sullo sfondo in grado di connotare il background sociale di appartenenza. Oggi questo succede spesso con gli artisti trap e rap esordienti, che non mancano di registrare in completa autarchia il loro primo video nel quartiere malfamato in cui hanno mosso i primi passi nel mondo della tamarraggine. Un tempo si tendeva a lasciarsi fotografare con cappotti, impermeabili e cappelli in esterno, ma c’era ben altra attenzione al look e allo stile. Altrettanto diffusa l’abitudine delle foto in campagna, nei boschi più fitti, sdraiati sul prato o in riva al fiume. I più temerari si fanno le foto al cimitero, un genere che spopola tra i metallari e o gruppi più gotici. Un classico è anche la foto in sala prove, davanti al portellone del box in cui ci si esercita con enormi sacrifici per il successo di pubblico, oppure con l’espressione rigorosamente incazzosa e le spalle al muro ricoperto di cartone per le uova, che la leggenda metropolitana impone come materiale fonoassorbente più in voga tra chi vive la scarsità dei fondi di autofinanziamento. A fare le foto solitamente la fidanzata di uno del gruppo, che poi immancabilmente si mette con un altro (solitamente il cantante) per cui il gruppo si scioglie e delle foto promozionali non se ne fa più nulla.

massive factor

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La proposta dei Massive Attack, da un punto di vista stilistico, può essere identificata come una delle più longeve della musica moderna. Il loro trip-hop, per dare un’etichetta, ormai in auge dal secondo album “Protection” uscito nel 1994, si caratterizza per un mix di dub-reggae, rock, psichedelia, new wave ed elettronica pesante. Che, detto così, può sembrare così ampio e onnicomprensivo da significare tutto e niente. Ma se conoscete la band di Robert “3D” Del Naja e Grant “Daddy G” Marshall saprete meglio di me che loro e solo loro, nella storia recente, sono stati in grado di rivoltare la musica come un calzino partendo dall’interno e, apparentemente, senza inventare nulla di nuovo. Il fatto è che dal 1994 in poi il genere dei Massive Attack non è mai passato di moda. Basta guardarsi intorno e vi accorgerete che ogni scenario musicale comprende almeno una band tipo i Massive Attack. Ora i Massive Attack sono sbarcati persino a X-Factor. Se avete seguito la prima fase del programma televisivo, ovvero le prime selezioni da cui fuoriescono i concorrenti che formeranno le varie squadre dopo i bootcamp, avrete notato i sorprendenti Bowland, progetto di tre ragazzi di Teheran di stanza a Firenze che ai Massive Attack attingono a piene mani. Non c’è niente di male, sia chiaro. Peccato che in Italia ci si approcci a questo sound solo nel 2018. Come tutto, del resto. Accontentiamoci.

la ginnastica dei metallari

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Quest’anno ho abbandonato, dopo una fedeltà senza confronti, l’attività motoria globale che ho praticato per lungo tempo insieme a un gruppo di anziani. Non mi sono più iscritto al corso di Giorgia che metteva sempre la stessa scaletta di canzoni durante le sedute, con picchi del calibro di Biagio Antonacci, i Thegiornalisti e gli Stadio. Visto che ho cambiato lavoro ho pensato anche di cambiare disciplina. Ho appena versato la quota quadrimestrale per quello che chiamo il corso di ginnastica per metallari.

Si tratta di un’attività dal nome motivante per chi ha la forma mentis dei loop, del pensiero ricorsivo, dell’ossessione per le cose ripetute ad libitum. Mi sono iscritto a Circuit Training, un corso che ha una formula molto interessante. Si ripetono a ogni lezione 10 minuti di tre esercizi per gruppo muscolare. Siamo partiti con 10 minuti di 3 esercizi ripetuti per braccia e pettorali, 10 minuti di 3 esercizi ripetuti per addominali, 10 minuti di 3 esercizi ripetuti per le gambe, e il resto stretching. Man mano l’intensità degli esercizi sale, diminuiscono i recuperi, si fatica di più. Mi trovo molto a mio agio con questo modello e, completata la lezione di prova, non ho avuto esitazioni

Ma la lezione di prova è filata liscia senza musica. Il maestro, che insegna anche arti marziali nella stessa associazione sportiva, aveva dimenticato infatti lo stereo a casa. Ho così potuto scoprire l’amara verità solo ala seconda lezione: il maestro usa come sottofondo per il Circuit Training una selezione di nu-metal-punk decisamente devastante. L’intento è chiaro: si tratta di un genere che l’opinione pubblica associa alla potenza, alla sfida per superare se stessi, alla forza, all’impeto, al machismo. Io invece l’ho sempre associato ai tamarri.

La grave lacuna del corso di Circuit Training risulta quindi molto ingombrante, considerando che il volume della musica con cui i miei compagni di corso si allenano è vergognoso. Mi verrebbe voglia di dirgli di abbassare quella merda, ma come avrete inteso non ho più a che fare con le carampane e Luigi l’ultrasettantenne con cui trascorrevo un’oretta di ginnastica posturale e di tonificazione. Qui sono in mezzo a giovani maschi appassionati di kick-boxing e kung-fu con cui discutere risulta problematico.

Non saprei dire nemmeno i titoli e gruppi che fanno parte della tracklist del mio nuovo maestro. Ieri però, tra le varie tamarrate a cui sono stato esposto, è partita una canzone dei Limp Bizkit, che in mezzo a quel frastuono di chitarre inutilmente distorte e rullanti di plastica hanno fatto la figura degli Smiths. Mi stavo spostando dalla stazione degli addominali a quella delle gambe, e in quel momento mi sono sorpreso a camminare a tempo, facendo oscillare la testa, e sono certo che qualcuno l’ha notato.

gioia e resistenza

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[questo pezzo è uscito su Loudd.it]

Dalla gioia come forma di rivoluzione alla gioia come atto di resistenza. La morale ce la fanno degli inglesi, questa volta. Che smacco per noi piccoli italiani. Noi che la resistenza l’abbiamo inventata, oggi così presuntuosi da non voler accettare lezioni da nessuno. Noi che proprio ora, in pieno coma della ragione, abbiamo dato fondo alla follia scegliendo una classe dirigente miserabile come mai successo nella nostra storia.

Il paradosso è che siamo i primi a sfogare il prurito alle mani applaudendo la violenza di certi dischi così punk da lasciarci senza fiato. Non ci siamo ancora ripresi dal potere dirompente di una band come i Protomartyr da Detroit che già ci tocca tornare in piazza (in senso metaforico, che cosa avete capito, rimettete pure gli auricolari) a manifestare la disillusione con una nuova colonna sonora, ancora una volta in una lingua che non è la nostra e contro un sistema che non ci appartiene. Siamo al fianco degli americani contro Trump. Supportiamo lo sdegno degli inglesi contro chi ha voluto la Brexit. Tutto ciò ascoltando post-punk. In questo, siamo indubbiamente insuperabili.

E se non conoscessimo gli Idles probabilmente acquisteremmo “Joy as an Act of Resistance” in un impeto di idealismo, solo per la copertina. Visto e piaciuto, come si dice per gli oggetti di seconda mano. La foto trasmette l’idea della follia, l’ebbrezza della rissa, l’astrazione assoluta della rabbia. Il disco, per continuare la tradizione inaugurata con “Brutalism”, l’incredibile esordio della band di Bristol, poi però è il primo a prenderci a ceffoni per aver pensato una cosa così superficiale.

I due pezzi in uno di “Colossus” costituiscono le due facce della musica degli Idles: l’alienazione dark che ritroveremo nelle tracce successive lungo brani come “Never Fight a Man With a Perm” o “Love Song” e la brutalità sparata a ritmi inumani che caratterizza “Danny Nedelko” e il trittico centrale “Television”, “Great” – nell’insieme un blocco di cattiveria post-hardcore da cui è difficile riprendersi – completato da “Gram Rock”, canzone d’altri tempi, con un riff di chitarra tormentoso e dolce allo stesso tempo a caratterizzarne il ritornello.

Ci sono poi apparenti oasi in cui intavolare un dialogo con il gruppo inglese risulta più semplice e costruttivo. Ecco la scarna “June”, scandita dall’ossessiva regolarità dei battiti di cassa e timpano, “Cry To Me”, una veloce parodia del rock’n’roll più tradizionale, e soprattutto la travolgente “Samaritans”, pezzo in cui Joe Talbot alla voce alterna un semi-parlato dall’incedere biascicato e angosciante a un ritornello che, rispetto al resto dell’album, risulta persino orecchiabile. Se mi permettete di scegliere per voi, eleggo il crescendo finale di “Samaritans” a momento più suggestivo di tutto l’album. Da solo, è sufficiente a restituire la perfetta sintesi della bellezza di questo disco superlativo.

“Joy as an Act of Resistance” è un long playing maledettamente complesso e crudelmente completo perché è pregno di gioia a pressione, un sorta di fastidiosa scomodità compressa che, traccia dopo traccia, svela però il trucco per essere risolta e superata. Un sentimento costretto dai limiti della registrazione dentro uno strato di punk che si crepa agli urti del suono fino a spaccarsi e a esplodere, alla fine. Non osiamo pensare alla sua resa dal vivo con la distorsione senza speranza della chitarra, il basso che non dà tregua, la compattezza della batteria e la gente sotto il palco che poga.

Gli Idles suonano e cantano stremando il loro pubblico con una cupezza così ruvida da risultare unica, creando trame in grado di indurre al masochismo dell’ascolto e a lasciarci in balia della disperazione. Come per i Killing Joke nella loro forma più impietosa, dopo gli Idles c’è il rischio che non ci sia futuro e che occorra rifare tutto da capo.

dieci cose che dovete smettere di fare ai concerti

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Il concerto è una metafora perfetta della coesistenza in natura di amore o odio, perché il concerto vede presente simultaneamente e nello stesso luogo ciò che adorate di più, ovvero la band per vedere la quale avete speso cinquanta euro, e ciò che detestate di più, ovvero la gente. Perché non è vero che la gente è lì per il vostro stesso motivo. La gente va ai concerti per presenzialismo perché sono eventi a cui non è possibile rinunciare. Va ai concerti per far bella mostra di sé sui social network. Va ai concerti per attendere, per tutta la durata dell’esibizione, l’unico pezzo conosciuto. Va ai concerti per l’errata convinzione che i concerti sono eventi pensati per il divertimento fine a se stesso, allo stesso modo per cui le persone vanno in discoteca o, paragone più calzante, al multisala decidendo all’ultimo momento che film vedere, magari in relazione esclusivamente alla disponibilità di posti.

Se vi siete riconosciuti in una di queste categorie, è giusto che sappiate quanto vi detesti. Perché il problema non è tanto che vi troviate al concerto insieme a me. Gli spazi spesso sono abbastanza grandi. Il problema è che se andate ai concerti non esclusivamente per sentire e vedere il concerto sarete inesorabilmente indotti a tenere comportamenti che recano fastidio a me, soprattutto. E la compresenza di due fenomeni sempre più marcati e destinati ad aumentare col tempo, ovvero la mia età anagrafica e la stupidità delle persone, sta mettendo seriamente a rischio una delle mie più grandi passioni, la musica live. Che bello, direte voi: finalmente un altro anziano che si atteggia a ventenne desiste lasciando noi giovani liberi di comportarci ai concerti come vogliamo. Su questo non ci piove. Mi permetto così di levarmi dai coglioni lasciandovi una serie di cose che, davvero, ai concerti rompono notevolmente il cazzo.

1. ok va bene fare le foto con i telefonini, resta una brutta abitudine e guasta l’esperienza a chi sta dietro di voi ma le faccio anch’io. Quello che mi chiedo è che cosa ve ne fate dei video, in cui magari avete ripreso solo il pezzo di una canzone. Si vede di merda, si sente di merda, quindi dubito che poi a casa vi mettiate con le cuffie a rivivere il ricordo. Che ricordo è uno spezzone mosso, con l’audio distorto e la gente che ci canta sopra? Quante volte vi viene voglia di rivederlo? Quando siete davanti a me e tenete in alto e a lungo il vostro telefono di merda per fare video di merda mi viene da prendervelo e fracassarvelo per terra.

2. mi dite che senso ha parlare tutto il tempo? Capisco scambiarsi qualche impressione, ma ricordatevi che se chiacchierate lo fate sicuramente a voce alta per il volume del suono quindi, inevitabilmente, date fastidio. Per non parlare dei pezzi lenti: ieri sera, al concerto dei National a Milano, c’era gente che conversava su un pezzo come “About today”. Andate al bar a parlottare, vi assicuro che è anche più economico.

3. è bello vedere i concerti con il partner, ma limonare tutto il tempo per chi vi sta dietro è una tortura. Fate una colletta e pagatevi una camera in albergo e poi, una volta consumato, riprovate con la musica dal vivo.

4. se la densità di spettatori per metro quadro è oltre le soglie del benessere individuale, cercate di non cantare. Soprattutto se la band è anglofona e voi a malapena sapete l’italiano con il vostro accento dialettale. Soprattutto se le orecchie di chi avete davanti sono a pochi centimetri dalla vostra voce di merda.

5. se non sapete andare a tempo evitate di ballare. Il rischio di scontro con chi vi sta dietro e, come me, ha il ritmo nel sangue, è elevatissimo. Superato il numero accettabile di scontri, fate un’autoanalisi delle vostre abilità coreutiche e verificate che dietro non ci sia io che vi sto puntando i gomiti nella schiena per indurvi a stare fermi.

6. quando vi dovete spostare in mezzo alla folla cercate di verificare che gli spazi che percorrete tra le persone siano i più intelligenti in cui addentrarsi. Se trovate difficoltà a intrufolarvi tra una persona e quella davanti è perché uno dei due si è rotto il cazzo di sentirsi spostare e fa forza per non essere spostata.

7. se siete alti due metri e venti o siete più bassi ma sfoggiate acconciature alla Sigue Sigue Sputnik – che se non conoscete è bene che cambiate passione dedicandovi al calcio anziché alla musica – fate come si faceva alla elementari e mettetevi dietro di tutti. Capisco che tutti abbiamo il diritto di posizionarci dove vogliamo, ma il vostro atteggiamento trasuda presunzione. Siamo tutti responsabili dei nostri ingombri e non è giusto che il prossimo paghi le conseguenza della natura altrui.

8. quando la band sul palco è al decimo disco della sua carriera non rompete il cazzo con il fatto che la scaletta non comprende il lato B del primo quarantacinque giri autoprodotto nel 75. Non siete solo voi puristi i detentori dell’esclusiva emozionale di quello che si sta svolgendo. Ciascuno di noi, del proprio gruppo preferito fa quello che vuole. Solo io, al massimo, posso esprimermi in questo senso e questo vale anche per il punto successivo.

9. se avete vent’anni e non capite la differenza tra le band da ascoltare con concentrazione e quelle della vostra generazione i cui brani si possono anche sentire con la cassa dello smartphone non è un mio problema. Anzi lo è se vi recate a vedere un concerto a cui sono presente anch’io, vi piazzate vicino a me e seguite il concerto in un modo sbagliato.

10. come avrete capito, sono un esperto dell’approccio e dell’atteggiamento che si deve tenere ai concerti e non solo. Evitate, quindi, di farmi innervosire, di farmi pensare a ogni concerto che questo sarà l’ultimo a meno di una reunion degli Smiths, di contribuire a peggiorare la mia già scarsa stima per le nuove generazioni. Resto a vostra disposizione per organizzare un corso privato per insegnarvi a stare al mondo e, in particolare, come ci si comporta ai concerti a cui partecipo anch’io e, per i quali, anch’io ho speso 50 euro di biglietto.

non fare il prezioso

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[questo articolo è uscito su Loudd.it]

Non passano nemmeno tre minuti dall’inizio del disco che Chrissie Hynde ha già mandato qualcuno a farsi fottere. Attenzione, però. “Precious” è la traccia uno del lato A dell’album d’esordio che qualunque gruppo al mondo vorrebbe comporre e mettere come brano iniziale per introdurre sé nel mondo dell’arte, ma non lo si può certo definire un biglietto da visita per i Pretenders. Intendo dire che, se vi piacciono le front-woman aggressive, con Chrissie Hynde è meglio non prenderci troppo gusto. L’esperienza insegna che la matrice dei Pretenders viri decisamente più sul pop-rock che sul punk-wave, e già alla fine di quel primo (comunque ottimo) 33 giri ci pervade la consapevolezza di non trovarci di fronte a una band di paladini della trasgressione. Ma qui ci limitiamo a parlare di “Precious”, emozioni da una botta e via, un pezzo con cui stupire i nostri amici quando le aspettative d’ascolto sono alte in termini di canzoni che spaccano, con ritmi veloci e da pogo.

Siamo alla fine degli anni 70 e a una personalità così forte e superiore come quella di Chrissie Hynde i limiti di un posto come Akron, Ohio, non possono che indurre una claustrofobia senza speranza. Mentre i concittadini Devo subiscono la provincia industrializzata tanto da mettere la paranoia dell’essere umano al centro della loro ispirazione, Chrissie Hynde non ci sta e scappa, appena è in grado, per raggiungere la culla della civiltà del momento e coronare, a Londra, il suo sogno di fare una rock band.

Agli abitanti della sua cittadina di provenienza decide però di dire addio con una canzone, un concentrato di chitarra graffiante, suoni elettrici, ritmo serrato, parole taglienti e cinismo. Ce li immaginiamo, così come ce li descrivono i Pretenders, il jet-set locale in passerella per le vie del centro, gli scorci più in vista, i bei vestiti e le storie di sesso più torbide consumate sul pavimento, tutti in una gara a chi è troppo prezioso rispetto allo scenario sullo sfondo. Una corsa che Chrissie Hynde vince, alla fine, con il suo vaffanculo nell’ultima strofa, preludio per la fuga verso un ambiente più adatto alle sue potenzialità da cui poi, non a caso, prenderà il volo per il successo.

La cosa paradossale è che, per essere un pezzo così movimentato ed esplosivo, il cantato di Chrissie Hynde sembra pensato per domare un ritmo incontenibile con un flusso tra il parlato e la melodia, accelerazioni e pause, e le sue varianti nel timbro a volte sexy e altre dileggianti. Complice il tempo di batteria con quel modo, in auge all’epoca, di contenere la velocità anziché assecondarla, come invece faranno poi i musicisti punk più preparati tecnicamente negli anni novanta. Un effetto confermato dai rapidi botta e risposta di basso e chitarra nelle strofe e da certi cliché rock di altri tempi: il brano che si svuota e lascia tamburi e basso a lanciare il climax finale, il solo di chitarra che riproduce la sirena di una macchina della polizia (senza doppler, però, ed è sempre un peccato), e il one-two-three-four iniziale dato con le bacchette, che permette di sincronizzare l’entusiasmo degli ascoltatori con il feeling della canzone. Fino a quel tenero “Fuck off” conclusivo, il passaggio per il quale la canzone è marchiata ancora oggi, siamo nel 2018, per i suoi contenuti espliciti sulle piattaforme digitali, roba che in confronto un qualsiasi brano trap verrebbe precluso ai minori per il resto della storia del genere umano.

mi han detto che ti piacciono i ragazzi col ciuffo

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Con la competenza che ho maturato in ambito musicale e con i gusti raffinati che sfoggio qui e sui socialcosi mi vergogno un po’ a confessare qual è stato il mio primissimo amore. Da bambino impazzivo per il rock’n’roll ma quello vero. Quello di Bill Haley, di Chuck Berry e di Little Richards. Ma la passione per questo genere già vintage all’epoca – correvano i primi anni settanta – me l’avevano trasmessa i Kim & The Cadillacs, non chiedetemi perché. Avevo appreso i primi rudimenti di piano ma, quando ero solo in casa, mi atteggiavo a Jerry Lee Lewis. Avevo imparato a fare la linea di basso del rock’n’roll con la mano sinistra e a suonare l’accompagnamento con gli ottavi ripetuti con la destra, scoprendo che bastava sostituire l’accordo di quarta con la tonica minore settima per aver un effetto armonicamente coinvolgente. Ancora oggi non so resistere a quella rigida sequenza che poi altro non è che un blues accelerato. Non caso Marty McFly, quando accetta di eseguire ancora un brano sul palco dell’Incanto sotto il mare”, impartisce le sue istruzione alla band dicendo “Ok ragazzi questo è un blues con il riff in si perciò occhio agli accordi e statemi dietro. Ok?”. Non escludo quindi che ritornerò alla prima cotta, quando sarò ancora più vecchio di adesso. La fiamma mi si è riaccesa qualche sera fa quando sul primo hanno passato uno dei più sinceri interpreti del rock’n’roll di casa nostra, che risponde al nome di – non ridete, per cortesia – Little Tony. C’è poco da scherzare. Ma non è qui che volevo arrivare, perché poi, diventato grande e in quota punk e dintorni, mi divertivo tantissimo con gli Stray Cats. Da non credere, vero?

ma non per te e per me, amore mio

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I capolavori della musica del novecento non li tiriamo fuori spesso per ascoltarli, preferendo qualche novità, qualche gruppo più di tendenza o comunque più attuale, una playlist meno impegnativa che ci accompagni mentre facciamo altro. Sono dischi che abbiamo messo tante volte, sui social li citano ogni due per tre, in certe monografie che passano nei programmi TV ci sono esperti che li sezionano nei minimi dettagli tanto da farli sembrare reperti archeologici da conservare nelle teche asettiche per preservarli dal deterioramento. Un po’ come per la Cappella Sistina, in cui l’accesso è consentito a numero limitato per volta. Avevo visto un programma dedicato a “Heroes” di Bowie in cui il brano veniva analizzato traccia per traccia. Una procedura un po’ nerd che, per quello che ho scritto prima, è affascinante come quando ci fanno vedere con qualche diavoleria elettronica i disegni a matita sotto i grandi dipinti della storia dell’arte. L’esempio di “Heroes” è calzante anche sotto un altro punto di vista: sembra che il nastro che contiene la registrazione sia comunque destinato a rovinarsi ed è per questo che è stato tutto passato su un supporto digitale e l’originale sia conservato come una reliquia. Il modo più efficace per svecchiare le canzoni da museo è sentirli come se li passassero alla radio, come una nuova uscita qualunque, come un’anteprima a Discoring, se ci fosse ancora Discoring. In questo modo possiamo considerare certi 33 giri alla stregua di quando li abbiamo comprati venti, trenta, quaranta anni fa. “The Queen is Dead” è uno di questi, e ogni volta che lo ascolto la sua bellezza mi sorprende in un’esperienza per nulla guastata dalla sua diffusissima celebrità.

campo minato

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Mi capita sovente di spendere qualche minuto su “Techetechetè” dopo cena, il blobbone sul primo canale dedicato ai personaggi dello spettacolo di ieri e oggi: cantanti, attori, comici e soubrette della tv passata e presente, come è specificato nella descrizione del programma. Quello di spulciare nelle teche Rai credo sia il lavoro più bello del mondo. Pensate se esistesse un canale sul digitale in cui ogni giorno viene trasmesso l’intero palinsesto RAI andato in onda lo stesso giorno di un anno del passato. Ve lo immaginate? Ma, a parte questi sogni irrealizzabili, ho notato che quando passo su “Techetechetè” facendo zapping sul divano la sera le probabilità che, in quel momento, su “Techetechetè” ci sia Mina sono altissime, secondo me almeno l’85%, giusto per sparare una percentuale a cazzo ma abbastanza verosimile. Mi sono chiesto quindi se questo accade perché Mina, soprattutto negli anni 60, partecipava a tutti i programmi della RAI oppure perché il resto delle trasmissioni RAI senza Mina non era altrettanto degno di essere ricordato da noi posteri o anche perché chi cura le selezioni per il programma “Techetechetè” è un fan di Mina e quindi la propone e ripropone in tutte le salse. Sapete infatti che ogni serata di “Techetechetè” è caratterizzata da un filo conduttore, e sembra che per ogni argomento trattato Mina possa essere riesumata per dare un contributo adeguato. Si parla di contestazione giovanile? Mina. Si parla di Maurizio Costanzo? Mina. Si parla di trasgressione? Mina. Si parla di mainstream? Mina. E, in tutto questo, la domanda sorge spontanea: ma Mina, ora, cosa fa?