tempo scaduto

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In previsione della Giornata della Memoria, introdotta dalla collega di italiano, ho presentato alla mia classe il “Quartetto per la fine del tempo” di Olivier Messiaen, corredato dalla lettura della storia romanzata da Richard Powers (che se vi interessa trovate qui) e facendone ascoltare alcuni passaggi tratti da questa esecuzione live

per rimarcare il contrasto che può aver suscitato una composizione di musica da camera del novecento in un campo di concentramento nazista e tutti gli aspetti relativi alla forza che ha la musica come espressione degli stati d’animo più controversi, per non parlare della metafora dell’apocalisse con la prigionia e l’assenza di speranza.

Si tratta di musica piuttosto complessa per una quinta elementare, lo so, e infatti i ragazzi sono rimasti sbigottiti. Hanno cercato così di proteggere la loro vulnerabilità emotiva causata dall’uscita dalla confort zone delle sonorità a cui sono abituati cogliendo l’involontario umorismo insito nella mimica facciale dei musicisti. D’altronde, chi suona, fa le facce indipendentemente dal genere. Magari i dj che supportano i trapper dal vivo un po’ meno, ma probabilmente perché salgono sul palco belli cotti. Chissà se rimarrà loro qualcosa.

l’unico suono di chitarra non riproducibile con la bocca

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When the song shifts from the verse to the chorus, Jonny Greenwood plays three blasts of guitar noise (“dead notes” played by releasing fret-hand pressure and picking the strings). Greenwood said he did this because he did not like how quiet the song was; he explained: “So I hit the guitar hard—really hard”.[3] O’Brien said: “That’s the sound of Jonny trying to fuck the song up. He really didn’t like it the first time we played it, so he tried spoiling it. And it made the song.”

Questo è quello che si dice su Wikipedia degli strappi di chitarra elettrica che anticipano il ritornello di “Creep” dei Rdiohead che, per quello che mi riguarda, dovrebbero essere dichiarati patrimonio dell’umanità. Ho sentito la cover nella colonna sonora de “La compagnia del cigno” e per ristabilire l’equilibrio dell’universo ho pensato di riproporla qui. Da italiano, chiedo scusa al resto del mondo per quello che abbiamo fatto.

nulla è più divisivo nella coppia del progressive

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Qualcosa dei King Crimson, Supper’s Ready dei Genesis, certe solfe in tempi dispari degli Yes, ma se volete divorziare all’istante vi consiglio qualche brano di progressive italiano di metà anni settanta. Io ho rischiato grosso qualche giorno fa perché volevo ascoltare questo pezzo.

terrorismo, post-rock e musica libera da diritti

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La colonna sonora del video allucinante commissionato da Bonafede a qualche smanettone di Final Cut per far commuovere d’orgoglio gli italiani per la cattura di Battisti si chiama “Silent Partner”, è stata composta da Ether ed è uno di quei pezzi liberi da copyright che può usare chiunque in una sua produzione. Questo per dire che se catturate Delfo Zorzi o un altro terrorista neofascista e volete cimentarvi in un analogo tentativo per sembrare più diligenti qui trovate il link per scaricarlo. Ed è un peccato perché, pur dozzinale, la canzone non è davvero niente male.

we will rock e basta

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In occasione dell’uscita di “Bohemian Rhapsody”, il film sulla vita di Freddie Mercury, è stato pubblicato il remix in tre quarti di “We will rock you”. Chissà chi è l’autore di questa versione. Comunque, se sentite qualche imperfezione la colpa è dei Queen che non hanno usato il clic in studio.

la musica in grande

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Le dimensioni contano? Noi di “Alcuni aneddoti dal mio futuro” pensiamo proprio di sì. Ma non fraintendetemi. Intanto non siamo in tanti in questa redazione di ciarlatani, nel senso che difficilmente superiamo il valore di zero e quando c’è uno a scrivere, l’unico, talvolta risulta persino assente a se stesso. E poi mi riferivo ai supporti musicali e spero che l’incipit di questo post non vi abbia tratto in inganno. Il tema è l’annosa questione materializzazione versus dematerializzazione, analogico verso digitale, fisico verso virtuale, e l’occasione viene da una foto che ho visto (fidatevi sulla parola) e che ritrae una songwriter americana che sfoggia con un sorriso a trenta e rotti denti una copia in vinile del suo primo lavoro discografico.

La cosa curiosa è che la cantautrice in questione risulta piuttosto minuta di corporatura, perché la copertina del disco nelle sue mani appare gigantesca e non si tratta, ve lo assicuro, di un’illusione ottica. L’artista è ritratta in posa con l’album ben serrato contro il petto e l’assenza di altri termini di paragone in grado di conferire la corretta percezione delle proporzioni tra i soggetti ritratti fa sembrare il 33 giri davvero grande. Ho pensato così che sarebbe davvero bello se il diametro dei dischi e la superficie delle relative cover fossero molto più ampi di quanto sono in realtà perché chi ama il vinile è attratto proprio dalle dimensioni del supporto, molto più appaganti rispetto al cd, per non parlare dell’mp3 o di Spotify in cui è tutto ridotto a bit, a scapito della sinestesia.

Certo, questo aumenterebbe ulteriormente la difficoltà della loro conservazione domestica. Ad oggi solo l’Expedit dell’Ikea e pochi mobili pensati su misura possono accogliere comodamente i 33 giri. A chi, come me, è ricorso a un sistema standard e ha dovuto chiedere una customizzazione dell’altezza dei ripiani la vita si complicherebbe ulteriormente perché nella civiltà dei socialcosi nessuno si cura più degli oggetti ingombranti e ai detrattori del supporto fisico do appuntamento al giorno in cui qualcuno romperà l’Internet e si troveranno con un pugno di mosche.

prendimi

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Molte delle mie nuove colleghe sono grosso modo della mia età. Così quando qualcuna di loro tira fuori per qualche motivo un vecchio successo dei nostri anni mi sale una strana sensazione. Sono donne molto austere, sobrie e forgiate da quel temperamento che impone la didattica nella scuola primaria che non saprei definire e che, alla lunga, ti fa somigliare alla pedagogia. Ma lo dico in senso positivo. Io che sono appena arrivato e che conservo quell’approccio un po’ cialtrone di chi ha un blog e ci scrive quello che gli succede le invidio. Poi però vedo che anche loro, come me, hanno le radici negli anni 80 e ne ho avuto la certezza perché una di loro mi ha raccontato di aver passato ore a diciassette anni ad ascoltare (era il 1985) “Take on me” degli A-Ha. Da quel momento mi sono sentito di più uno di loro anche io. Tutto perché ho trascorso diverso tempo a sentirla pure io, ma a cinquantuno anni e pochi giorni fa, visto che è stata eseguita recentemente in versione rock da un gruppo partecipante a un noto talent musicale. Tra parentesi, la cover dei Seveso Casino Palace non mi convince del tutto perché trasposta in una tonalità dannatamente sbagliata per la linea vocale. Ho provato ad ascoltarla cercando tracce della versione esilarante che aveva portato alla ribalta nel 1996 i Reel Big Fish, ve la ricordate?

Ma, come al solito, nessuno mi chiede mai consiglio quando si tratta di musica in tv. Comunque alla fine sono giunto alla conclusione che la complessità di ogni epoca storica va di pari passo con la minore o maggiore semplicità delle ritmiche di batteria che si ascoltano sotto ai pezzi pop che l’epoca produce. Non è difficile immaginare che parte di batteria avrebbe “Take on me” se gli A-Ha o un qualsiasi gruppo di oggi la componesse nel 2018. Un brano di quella velocità ne risulterebbe fortemente appesantito (il che non è detto che ne peggiorerebbe il risultato, anzi) ma comunque ci rimanderebbe alla difficoltà del momento storico che viviamo, tutto fatto di gesti e parole che, per noi uomini condizionati dai nuovi media e dalla illusoria popolarità che promettono, devono sempre e per forza essere pensati per lasciare il segno, per sedurre, per prenderti e portati via. Pensate invece agli A-Ha e alle mie sobrie e austere colleghe, che sono cresciute con il cuore che batteva sopra a una batteria (sintetica e ingenua ma sincera) che faceva così:

lui quella sera era un lampo e guardarlo era quasi uno shock

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La storia della canzone italiana è costellata di grandi storie che, per tantissimo tempo, hanno costituito l’alternativa più credibile ai testi d’amore. Pensate al pericoloso slalom tra una bomba e l’altra, in un’Italia fiaccata dagli attentati, che mosse Venditti da Bologna a Roma o l’epopea strappalacrime con cui Guccini portò in trionfo la giustizia proletaria raccontando una vicenda avvenuta prima che qualcuno finalmente si decidesse a far arrivare in orario i treni. Poi è seguito l’avvento dei cantanti del riflusso a parlare per immagini e cose senza capo né coda, mi riferisco ai cori russi e la musica finto-rock, per non parlare di quello che è successo dopo e degli sproloqui che caratterizzano il presente. Ma le storie, finito il primato dei cantautori italiani, non è che sono cadute nel dimenticatoio. Semplicemente sono diventate più usa e getta, pronte all’uso, riflesso ed espressione di un’epoca meno angosciosa. Stamattina hanno trasmesso alla radio “Amore disperato” di Nada, all’ascolto del quale ho pensato trattarsi dell’ultima storia con una trama vera e propria messa in canzone. “Amore disperato” è il brano con cui la cantante livornese è tornata al successo nel 1983. Si tratta di un pezzo molto interessante ma fortemente penalizzato da un andamento pop e apparentemente scanzonato, complice il giro di accordi elementare, il ritmo che non si capisce bene sia da intendersi veloce o dimezzato, i suoni di plastica tipici dell’epoca. Il pezzo racconta di una storia d’amore con un lieto finale ma è bello come ci si arriva dopo le descrizioni del modo di scoprirsi che hanno i due protagonisti. “Amore disperato” è stato un vero tormentone di quell’estate e ricordo che andava fortissimo nel juke-box. Ma ripensarla in mezzo ai colossi pop balneari del 1983 del calibro di “Vamos a la playa”, “I like Chopin”, “Paris latino”, “Billie Jean”, “Do you really want to hurt me” o “Sunshine reggae”, fa un po’ di tenerezza proprio perché si capiscono le parole e si può seguire la vicenda. E il problema era proprio quello. Talvolta le casse del juke-box non consentivano una dizione impeccabile dei cantanti e, in più, la possibilità di ascoltare in silenzio nei luoghi pubblici non era così scontata. Magari ne coglievamo solo qualche verso, qualche passaggio, con la ripromessa di fare più attenzione alla volta successiva ma sapete come vanno le cose, in estate. Meglio non legarsi troppo alle persone e alle cose. Tutto è volatile, a partire dall’amore (disperato).

raccontare la musica senza mettere nemmeno una canzone

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Ricordate quel celebre aforisma attribuito a Frank Zappa che ci ricorda che parlare di musica è come ballare di architettura o qualcosa del genere? A me è sempre sembrata una stronzata e mi auguro che un genio come Zappa si sia permesso una cosa simile solo perché in preda ai fumi dell’alcool o ai fumi e basta. Poi Facebook è subentrato al buon senso della gente e, da lì, con gli aforismi di cani e porci è iniziata l’era del vale tutto. Riconosciamo però che è vero che raccontare la musica senza la musica è una pratica altrettanto sconclusionata, soprattutto se la narrazione è televisiva, ha un titolo e un regista e viene confezionata in un programma trasmesso l’unica volta in cui ho un’oretta libera da trascorrere stravaccato sul divano con il potere del telecomando e con ben altre aspettative.

Ho assistito alla trasmissione di “Pink Floyd Behind The Wall” su Rai5 proprio ieri sera. Si tratta di un documentario sulla celebre band inglese realizzato nel 2011 in cui sono i membri stessi – a parte il compianto Richard Wright mancato nel 2008 – a raccontare parte della loro storia. Le origini del gruppo e tutta la fase con Syd Barrett sono approfondite nei minimi particolari, mentre dall’ingresso di Gilmour in poi il programma pigia sull’acceleratore e tocca solo alcuni aspetti del periodo di maggior successo dei Pink Floyd. Ma questo potrebbe essere un non-problema. Magari è stato pensato appositamente per presentare solo i dettagli delle loro origini.

L’aspetto paradossale è invece che, pur trattandosi di un documentario musicale, per tutta la durata del programma non si sente nemmeno una loro canzone. Nemmeno una nota di un pezzo se non un cenno del celebre riff iniziale di “Wish you were here” suonato dal vivo davanti alle telecamere. Per il resto niente.

La componente sonora è interamente occupata da musiche che richiamano alcuni pezzi dei Pink Floyd:  le parti di chitarra elettrica con il delay ricorrenti in “The Wall”, la coda blues in quattro quarti di “Money” con quel celebre ostinato di basso, le atmosfere psichedeliche dei primi album e altri fake, passatemi il termine. Cloni che rimandano ai successi dei Pink Floyd ma che non sono loro, come una borsa Addas o la sosia di Melania Trump che interpreta l’originale in un video di un cantante rap del momento. Avete mai fatto caso a certe musiche che si sentono nelle pubblicità e che sembrano canzoni di successo? Ecco, in “Pink Floyd Behind The Wall” è tutto così e fa venire il nervoso perché quando parlano di “The Dark Side of the Moon” ti aspetti “Breathe”, o a proposito degli esordi fremi nell’attesa del celebre inizio di “Arnold Layne”. Invece si arriva dopo più di un’ora ai titoli di coda e, pur con il pieno di belle e interessanti informazioni e tutto quanto, si resta a bocca asciutta.

Ho pensato allora che possa trattarsi di un problema di diritti. Usare “The great gig in the sky” o “Another brick in the wall” in un documentario non se lo può permettere nessuno, nemmeno i membri stessi dei Pink Floyd che parlano dei Pink Floyd. Mi chiedo però il senso di tutto ciò. Per i Pink Floyd ricorrere ai plagi controllati è fortemente riduttivo.

like a record baby right round round round

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Avete presente quando fate sogni bellissimi e la sensazione che si prova al risveglio, realizzando che non c’era niente di vero? Eravate a fianco della persona di cui siete innamorati e che nella realtà non vi corrisponde, oppure stringevate tra le mani una cosa che desiderate fortissimamente ma che non potete possedere e che a un certo punto puff, la luce del mattino volatilizza come un alito di vento dissipa un anello di fumo.

Ieri ho partecipato a una riunione con il dirigente e un docente della secondaria incaricato, fino al giugno scorso, della gestione del sito dell’istituto. Quest’anno il prof è andato in pensione e lo scopo della riunione era proprio il passaggio di consegne con il nuovo incaricato, facile indovinare di chi si tratta. Prima di entrare nel merito, il preside aveva un po’ di ritardo, ci siamo messi a chiacchierare di musica. Con noi c’era la vicepreside che ci ha raccontato del famoso (e unico) concerto dei Led Zeppelin in Italia al Vigorelli di Milano, quello interrotto a tempo record a causa dei disordini tra chi voleva entrare senza biglietto e le forze dell’ordine e che sancirà l’addio definitivo della band di Robert Plant ai palchi italiani.

Da lì io e il prof ci mettiamo a parlare del comune amore per il progressive, quindi si passa ai dischi in vinile e ai rispettivi impianti hi-fi. Gli rivelo la mia passione per l’insuperabile supporto e gli trasmetto tutto il mio entusiasmo. Mi racconta così del suo piatto originale Dual CS 503-1 e mi rivela di averne un altro identico in garage, in ottime condizioni ma inutilizzato. Mi dimostro così interessato a un possibile acquisto e dell’eventuale costo. Mi viene la bava alla bocca ma la conversazione si interrompe all’ingresso del dirigente e con l’avvio della riunione.

Poi, alla fine, ecco il miracolo. Poco prima di accomiatarci, senza che io gli chieda nulla e senza nessun motivo se non l’altruismo, il prof mi dice che, se voglio, mi regala il giradischi. Mi dice che tanto non se ne fa nulla, che non pensava di venderlo ma che così è possibile restituire dignità al piatto. Ridargli il suo lustro. Per farla breve, una manciata di minuti dopo mi trovo nel suo box a prendere il Dual dalle sue mani, metterlo in macchina, e a coprire di ringraziamenti il mio benefattore per il gesto straordinariamente cortese.

Ho trascorso il resto della giornata ad ascoltare dischi con il nuovo giradischi, installato immediatamente nel mio impianto stereo, appena rientrato a casa. Non avete idea del suono che ha. Ieri sera, poi, mi sono coricato, ancora con il pieno di felicità per il gesto del prof della mia scuola e, al risveglio, per prima cosa, sono corso in sala per vedere se il Dual CS 503-1 c’era realmente. Mi sono accertato di non aver sognato e, infatti, il giradischi era ancora lì, pronto a passare il resto della sua vita con me. Ho pensato così che non siamo più abituati a gesti del genere. Alla bontà disinteressata. Oggi sono così contento che spero ardentemente di ricambiare con altrettanta generosità qualcuno, prima o poi. Ma scordatevi che vi regalo un giradischi.