non erano questi gli accordi

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I Bauhaus e Peter Murphy nel frattempo ci devono spiegare perché, nella loro versione di “Ziggy Stardust” di Bowie, terminano il ritornello con quei LA e SI confusissimi e stonati anziché con i due accordi del pezzo originale (RE e MI) che lanciano il ritorno al riff di chitarra in SOL. Che cosa hanno voluto dimostrarci?

come vuoi che vada

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Il recente trionfo pilotato dal complotto anti-grillista dell’élite contro la gente che ha visto Mahmood vincere a Sanremo è solo l’ultimo caso. La storia della musica è zeppa di testi di canzoni in cui l’interprete chiede “come va” o “come stai” a un indefinito interlocutore, avviando un dialogo che, al momento, non ha ottenuto ancora nessuna risposta. E come vuoi che vada, ci verrebbe da incalzare così ogni autore che ha rilasciato, nel tempo, questo quesito nell’universo probabilmente nella speranza che qualcuno abbia la voglia di munirsi di carta e penna e restituire al mittente un feedback retorico. “Va peggio, va meglio, non so dire, non lo so” è la risposta più intelligente che sia mai stata data conformemente a qualche strana posa. Ma, CCCP a parte, proviamo a fare un po’ d’ordine e vediamo qualche esempio in cui la fatidica domanda è un elemento fondamentale della lirica di un brano. Se vi viene in mente qualcos’altro, nei commenti c’è spazio per tutti.

Dalida – Ciao come stai

Garbo – Cose veloci

Albano e Romina – Cara terra mia

Premiata Forneria Marconi – Come ti va?

Sfera Ebbasta – Tran Tran

Mudimbi – Il Mago

Shade – Bene ma non benissimo

Ligabue – Tutti vogliono viaggiare in prima

Mahmood – Soldi

per finire con il classico dei classici: Oye como va

corto circuito

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Non è facile mettere in sequenza quello che significa questo video, ma ci proviamo lo stesso. I Weezer sono una band di gente più o meno cinquantenne come me, quindi cresciuta nel brodo culturale degli anni ottanta. Qualche settimana fa i Weezer hanno pubblicato un disco di cover con molti brani degli anni ottanta che si intitola “The Teal Album”. Il bello di questo disco è che i pezzi non sono stravolti, come spesso è successo in passato da parte di gruppi rock o alternative rock che sono riusciti a mettere in luce la bellezza di certe canzonette eseguite in versioni agli antipodi, come approccio. Pensate a “Big in Japan” dei Guano Apes o le numerose versioni nu-metal di “Enjoy The Silence”. In “The Teal Album” i brani riproposti sono pressoché identici. Di questo disco, i Weezer hanno appena pubblicato un singolo con annesso video, ovvero “Take On Me” degli A-Ha. Il video è interpretato dai Calpurnia, la band che ha come frontman Mike Wheeler di “Stranger Things”, e cioè il giovane attore Finn Wolfhard. È inutile che vi ricordi l’ambientazione della serie “Stranger Things”, gli innumerevoli richiami culturali e, manco a dirlo, la colonna sonora. Il video di “Take On Me” degli A-Ha rifatta dai Weezer è ambientato proprio nel 1985, che è più o meno l’anno di uscita del successo della band di Morten Harket. Nel video si vede Finn Wolfhard disegnare fumetti che si animano, proprio come nel video originale della canzone. Poi l’attore raggiunge gli altri membri del gruppo che simulano l’esecuzione del brano. E comunque anch’io ho suonato con un chitarrista che aveva la chitarra synth Casio DG-10. Ecco, questo è tutto, ma ho fatto così tanti giri che ora devo sedermi per non cadere. Dovete comprendermi, sono un ragazzo degli anni ottanta.

Delta V – Heimat

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[quest’articolo è uscito su Loudd.it]

Lessico famigliare. Heimat, appunto. Ma facciamo un passo indietro. I Delta V sono una delle band più sottovalutate tra quelle nate e cresciute durante il boom della scena alternativa e/o indipendente locale, quella che si è sviluppata negli anni 90, quella dei vari Subsonica, Afterhours e Scisma, per farci capire. Emersi per lo più grazie a un’esigua manciata di revamping di brani della canzone italiana degli anni 70 e 80, pezzi ricondizionati con uno stile inconfondibile che è valso al gruppo un’adeguata risonanza, l’efficacia dei loro remake ha fatto passare però in secondo piano una produzione originale parallela corposa e di qualità sulla quale, forse, si è investito non sufficientemente.

Ecco: questo è l’incipit che avevo pronto nel cassetto (virtuale) dal 2006 o almeno dai postumi di quello che, fino a qualche mese fa, è stato il loro ultimo album ufficiale, nella speranza che prima o poi Carlo Bertotti e Flavio Ferri tornassero insieme in studio, preferibilmente con una delle tre cantanti che si sono avvicendate nella line-up dei Delta V lungo la loro carriera, per rimettersi a fare quello che sanno fare bene.

Senza contare che “Pioggia.Rosso.Acciaio”, il disco dell’addio (ma che se siamo qui si è trattato fortunatamente di un arrivederci) pubblicato tredici anni prima del nuovissimo “Heimat”, è passato poco più che inosservato malgrado costituisse il momento forse più importante nell’evoluzione del gruppo, con il ritorno della primissima vocalist (quella di “Se telefonando”, per intenderci) Francesca Touré e una serie di composizioni originali in grado di bilanciare la portata dirompente della consueta cover di modernariato vintage lanciata come singolo. In quel caso si trattava di “Ritornerai” di Bruno Lauzi, in effetti sin troppo azzardata per un pubblico non sempre a proprio agio fuori dagli schemi consolidati.

E se i Delta V sono stati una delle band più sottovalutate forse è proprio a causa del loro essere difficilmente addomesticabili e inquadrabili. Troppo fighetti e ricercati (a tratti leziosi) per far parte della schiera degli alternativi/indipendenti e troppo riconducibili ai gruppi alternativi/indipendenti per entrare nell’olimpo della melodia all’italiana, in cui comunque la loro ricercatezza sarebbe stata incompresa e il loro essere fighetti sarebbe stato frainteso per snobismo. Ma nulla mi toglie dalla testa la convinzione che la formula stessa del progetto attraverso la quale i Delta V, a ogni disco o al massimo due, si sono avvalsi di una cantante diversa, non sia stata accettata fino in fondo dal nostro mercato, italiano come la gente che lo popola. Nella musica, proprio come nella politica, abbiamo bisogno di identificarci in formazioni definite e capitanate da una figura forte, stabile, riconoscibile e in grado di contenere in sé la semplificazione del contesto di cui costituisce il principale contatto con l’esterno, l’interfaccia con il pubblico.

Ma ora possiamo lasciarci alle spalle il passato. Se avete seguito su Facebook, negli ultimi anni, Ferri e Bertotti, da un certo punto in poi è risultato sempre più chiaro che ci fosse del fermento. Fino a quando è spuntata dal nulla Martina Albertini, o Marti DV (come si firma sul social di Zuckerberg) e da allora è stata solo una questione di mesi, poi settimane, quindi giorni e dopo una manciata di anticipazioni – quasi tutte raccolte nel nuovo lavoro – ecco finalmente il ritorno ufficiale. “Heimat” è il sesto disco dei Delta V, uscito a tredici anni di distanza dal precedente, e Martina Albertini è salita prepotentemente e meritatamente al numero uno delle cantanti più adatte alla musica della band. Lo stile di “Heimat” è infatti in linea con i dischi precedenti ma è chiaro, sin da un rapido ascolto, che la vena compositiva è sensibilmente più cupa e il timbro di Martina, in questo mood, calza a pennello. La speranza è che Marti DV sia la scelta definitiva e che resti in pianta stabile, d’ora in poi e per sempre.

Con “Heimat” torna di moda il background culturale e stilistico che da sempre alimenta l’ispirazione dei Delta V. Un electropop ultra-raffinato nobilitato da un vero compendio della storia dell’elettronica in cui si ritrovano echi delle prime sperimentazioni di sintetizzatore fino al trionfo del suono artificiale degli anni 90 e duemila (gli Air in primis), a cui il trio ha aggiunto l’interpretazione artificiale della realtà alla luce dell’esperienza sonora e degli ascolti moderni e contemporanei che, nel tempo, la band ha assimilato. Sopra, i temi cari ai Delta V resi in liriche profonde ed efficaci: le trame del nostro passato vissute nelle esperienze autobiografiche, il quotidiano trasformato in poesia, l’eccezionale raccontato con le parole di tutti i giorni.

E, come risultato, “Heimat” è un ottimo album, il meglio che si possa produrre quando ci si rimette in gioco. Undici brani al netto della ghost track (in coda al fiume di emozioni di “Disubbidiente”, la traccia conclusiva, e peraltro uno degli episodi migliori del disco) più la cover per dare, comunque, un segnale di continuità con i lavori che l’hanno preceduto. Un segnale forte, considerando che le mine e i battisti qui lasciano il posto ai CCCP di “Io sto bene”.

Ma è tutto il resto che fa la differenza. I singoli pubblicati nei mesi scorsi, come “Domeniche d’agosto” e “Il cielo che cambia colore” con quel tema di sintetizzatore che, in una sequenza distribuita simmetricamente nella successione di accordi, ci riporta ai ricami analogici di “Oxygene” di Jean-Michel Jarre, si alternano a brani tutti da scoprire: la struggente “Disturbano”, la base drum’n’bass de “Gli aeroplani”, il dialogo intimo de “L’inverno e le nuvole”, il trip-hop di “Il mondo brucia” e il macigno dell’avere “30 anni” (che pezzo!) in una società che fa confusione con l’età in cui si diventa adulti. Insomma, cari Delta V, bentornati nei nostri ascolti, bentornati a casa. Heimat, appunto.

la droga nascosta nei titoli: dai Beatles ad Achille Lauro

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Oramai i cani all’aeroporto vi sgamano qualsiasi trovata. La valigia con il doppio fondo, le paste nella crema per le mani, gli ovetti con le bustine ficcati nel didietro nemmeno foste un kinder sorpresa qualunque, i panetti alloggiati nei case dei dispositivi elettronici, la chimica nel retro dei francobolli. Oggi lo sanno tutti che il modo più efficace per trasportare la droga con sé è quello di nasconderla nei titoli delle canzoni. Dai più criptici a prova di solutori di enigmistica come “Lucy in Sky with Diamonds” o “Bollicine” ai più espliciti “Kaya”, “Cocaine”, “Brown Sugar” ed “Heroin”, se avete sostanze illegali la cosa migliore è occultarle in liriche stupefacenti. Parlate nelle vostre canzoni di persone su cavalli a dondolo che mangiano torte di marshmallow, di vespe e di pere, di sentirvi liberi, di correre ancora a fine giornata, di belle ragazze afroamericane, di essere i figli di Gesù, e avrete a disposizione voluminosi anfratti culturali protetti da intercapedini a prova di raggi x per nascondere qualunque tipo di porcheria e perfette per superare ogni tipo di controllo delle forze dell’ordine. Pensate a quanto mdma si può sottrarre alla vista dell’opinione pubblica dietro a una canzonetta vasco-rockeggiante intitolata “Rolls Royce”, e pensate all’effetto allucinogeno che potrebbe avere un acido che si chiama “supercalifragilistichespiralidoso”.

binario o ternario

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Chissà come sarebbe cambiata la storia se Battiato avesse inciso “Summer on a solitary beach” con la batteria in sei ottavi.

quest’anno sanremo è abbastanza una merda

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Quest’anno Sanremo è abbastanza una merda, soprattutto per i continui stacchetti musicali dei presentatori e degli ospiti senza capo né coda, dell’ingombrante presenza di rap e perché sembra che stecchino tutti, ma vi assicuro che da che sono nato non ho mai sentito una merda più merda de “Il volo” e non solo la canzone di questa edizione del festival ma tutto il progetto per intero. Però c’è un pezzo che spacca ed è quello di Daniele Silvestri che, peraltro, parla di scuola e di ragazzini con l’argento vivo che la scuola tenta di omologare. Non è sempre così, però: è bene vederla anche dal punto di vista degli insegnanti. Nell’attesa di un contraddittorio, ecco la denuncia cantata con Rancore e Manuel Agnelli.

Sharon Van Etten – Remind Me Tomorrow

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[questo articolo è uscito su Loudd.it]

Il disco della maturità arriva per tutti e solitamente coincide con qualcosa di piacevolmente ingombrante, un desiderio privato che va a insinuarsi tra le dinamiche artistiche, mette a repentaglio le priorità e apre pericolose falle nella comfort zone ispirativa. Sposta il baricentro dall’ego e, come per incanto, la musica ne trae beneficio. Sharon Van Etten ora è madre e, di conseguenza, cardine di una dimensione in qualche modo strutturata. Una pienezza che dalla vita inevitabilmente tracima in un disco e va a mettere in discussione il presente, offrendo al contempo una nuova lettura del passato e tentando qualche previsione sul futuro.

“Remind me tomorrow” è un album così piacevole da riuscire a rimettere in ordine nel giro di una decina di tracce il fastidioso caos che regna in quell’assurda foto di copertina. Un disco che sancisce la conquista di una vetta compositiva raggiunta grazie a tutta l’esperienza sviluppata in passato nei tortuosi sentieri dell’alternative folk e del songwriting, nobilitati qui da un raffinato indie-rock di matrice alternative ed elettronica. “Remind me tomorrow” è sicuramente qualcosa di veramente differente da quanto prodotto in precedenza. Sharon Van Etten non è più solo la cantautrice delle origini. Cercate la prova di questa sorprendente trasformazione nella ricchezza dei synth, nei ritmi corposi e trascinanti, nelle atmosfere a tinte fosche frutto della collaborazione con il produttore John Congleton. Fattori che fanno di “Remind me tomorrow” un lavoro originale e intenso. Un album ambizioso ma in cui Sharon Van Etten si legge pienamente consapevole dei suoi punti di forza e, di certo, il migliore della sua carriera.

Tutto torna. Oggi la cantautrice statunitense si fa chiamare addirittura Sharonvanhalen su Instagram e dai brani del suo nuovo disco sembra così completa da non lasciare nemmeno un solco al dubbio. Le storie della sua vita passata le ha definitivamente archiviate, relegate all’ultima traccia dei suoi album precedenti, assieme al dolore indotto dagli amori ormai remoti. “Remind me tomorrow” è un disco granitico, la cosa più solida di quanto si possa immaginare prodotta dalla stessa cantante di un brano come “Serpents”. Una vita fa.

Così ci piace pensare che quanto di straordinario sia accaduto nel periodo che separa “Remind me tomorrow” da “Are we there?” e dalla sua appendice alternative country “I Don’t Want to Let You Down” – l’amore, la maternità, fare l’attrice in The OA – sia la matrice delle dieci canzoni che compongono il suo ultimo lavoro e ne rispecchi l’essenza. Ed è sufficiente fare un po’ di attenzione per cogliere tutto questo nella sua nuova musica, come un velo di un qualcosa di mai sentito in Sharon Van Etten che, a contatto con l’esperienza di ascolto, porta la materia sonora verso uno stato di completezza che è in grado di commuovere, tanto è piacevole. Quella serenità che solo l’equilibrio è in grado di far provare, oltre ogni conflitto, al di là di qualunque turbamento.

Per questo risulta anche difficile entrare nel merito dei brani. “Remind me tomorrow” si lascia percepire come un’opera scolpita da un unico blocco di materia, senza la minima giuntura, un flusso continuo di rimandi a una dimensione in cui il basso è continuo, gli accordi una corrente che trascina via, la voce il riferimento costante che non concede margini di smarrimento, nemmeno quando si sdoppia per lasciarci nell’ingrato compito di scegliere quale melodia seguire a scapito della sua gemella. “No one’s easy to love”, canta Sharon Van Etten, ma per noi amare lei questa volta è ancora più facile.

the others

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A bordo della mia auto che è vecchia come il cucco ho un autoradio che non è da meno. Si tratta di un dispositivo così obsoleto che legge appena i compact disc originali, quelli tarocchi o quelli con gli mp3. Ma siccome a casa non ho nemmeno più un masterizzatore per prepararmi le compilation, alla fine finisce che ascolto solo la radio, andando e tornando dal lavoro. Poi mi sono ricordato però che la mia collezione domestica comprende anche diversi cd originali – in verità non tantissimi – acquistati in quel fugace interregno durante il quale i vinili erano usciti fuori produzione e scaricare la musica illegalmente da Internet e con il peer to peer non era ancora una pratica in auge. Qualche giorno fa, tenendone uno in mano, mi sono sorpreso di come sia stato possibile aver pensato, anche solo per un istante, che della plasticaccia così esteticamente repellente potesse prendere il posto degli ellepì. Quanta ingenuità. Nonostante ciò i compact disc hanno l’unico merito di aver introdotto il vezzo delle ghost track, le tracce fantasma posizionate in coda alla riproduzione dell’album e accessibili solo al termine dell’ultimo brano indicato nell’elenco stampato sul leaflet. Una tecnica mai utilizzata su vinile, forse perché è più difficile occultare il solco che separa una canzone da quella successiva mentre nel cd alle linee di demarcazione dei settori ci si fa meno attenzione. Le tracce fantasma sono sempre una bella sorpresa. Quando pensi sia tutto finito ecco, all’improvviso, ritornare la vita, la musica al posto del silenzio come qualcosa di magico, di soprannaturale, un segnale dal regno dei suoni morti. O magari, come nel film “The Others”, sono loro le tracce vere in carne e ossa e noi solo degli ascoltatori incorporei.

uscite

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Mentre stavamo parlando è anche uscito il primo singolo del nuovo album dei Foals: