[questo articolo è uscito su Loudd.it]
Che poi, a dirla tutta, nel 1982 non è che ci fosse tutto questo “fervore del momento” per chi suonava progressive o arrivasse da quell’ambiente lì. In pieno riflusso e disimpegno persino gli artisti più visionari del post-punk si leccavano le ferite dando alle stampe dischi da classifica. Facile immaginare come ci si dovesse sentire, ai tempi, a girare negli studi di “Top of the pops” marchiati a fuoco addirittura nei campi di prigionia artistica dalla generazione rock precedente, quella tutta tempi dispari, assoli infiniti, elfi, tappeti di mellotron e altre creature mascherate e leggendarie. Solo i King Crimson di Adrian Belew erano riusciti a staccare la spina a un genere ormai superato e obsoleto dando alla luce tre capolavori assoluti di modernità lungo la parentesi più originale della carriera della band più longeva del progressive (“Beat”, “Discipline” e “Three of a perfect pair” lasciano, ancora oggi, senza parole anche gli ascoltatori più esigenti).
A dire la verità, a pensare al futuro ci avevano provato anche gli Yes ingaggiando, probabilmente in un momento di lucida follia, due volponi come Geoff Downes e Trevor Horn che, grazie al singolo più orecchiabile della storia reso in un video sfacciamente iconoclasta, con i Buggles avevano definitivamente sancito la morte degli anni settanta, star radiofoniche comprese. Facile immaginare la fanbase degli Yes di fronte all’uscita di “Drama” (era il 1980) che, inutile dirlo, poteva avere solo due interpretazioni estreme e opposte. Horn e Downes, ovvero due canzonettari messi a contratto dalla band di “Fragile”. Uno scandalo o un’opportunità di crescita? In effetti, in quell’epoca di passaggio e gran confusione, di religione ce n’era davvero ben poca e, visti da qui, i Genesis – alla fine rimasti in tre – non hanno poi avuto tutti i torti a concentrarsi sui tormentoni estivi.
In questo scenario è evidente quanto l’industria musicale cercasse di fare cassa il più possibile dai vecchi dinosauri della musica criptica e concettuale del decennio precedente, affinché non si trasformassero in un inutile accollo e in una ingiustificata voce di costo fisso. Non a caso è di questo periodo la formula dei supergruppi, band ad alta concentrazione di virtuosismo formate da membri di progetti già archiviati o temporaneamente messi in stand-by, proprio come gli Asia. Un po’ di Yes classici, un altro po’ di Yes dell’ultima formazione, un pizzico di Emerson, Lake & Palmer e un quarto di King Crimson. Un insieme che, in un mercato discografico invaso da synth pop e new romantic, correva il rischio di dare luogo a una cagata pazzesca. La sorprendente “Heat of the moment” risulta, invece, la prova che la musica non è mai stata affatto matematica ma, in quanto a prevedibilità, somiglia di più a un laboratorio di action painting.
“Heat of the moment” è il primo singolo tratto dal primo album del dream team Asia, un disco omonimo che risulterà il 33 giri più venduto negli USA in quell’anno. Nel brano sono riconoscibilissime alcune trame di altre canzoni legate, in qualche modo, alla carriera precedente e successiva di John Wetton (voce solista e basso), Steve Howe (chitarra), Geoffrey Downes (tastiere) e Carl Palmer (batteria). Troveremo frammenti del convincente riff di chitarra in “Owner of a lonely heart” degli Yes, mentre il ritornello strizza l’occhio a “Video killed the radio star”, ma si tratta di speculazioni possibili solo a posteriori e che non sminuiscono per nulla il valore di questa canzone.
Il brano, di portata clamorosamente commerciale, ha comunque una matrice progressive non così evidente ai tempi della pubblicazione che oggi, a menti e orecchie lucide, si legge a caratteri cubitali tra le righe del pentagramma. “Heat of the moment” avrebbe potuto avere un andamento regolare, con un incastro ritmico omogeneo in grado di condurre l’ascoltatore dall’inizio alla fine con la massima fluidità e, magari, di consentire versioni più ammiccanti di quella ufficiale, con una cassa in quattro e il temperamento spensierato di una “Abacab” qualunque.
Invece no. Ogni fottutissima strofa e dopo ogni fottutissimo ritornello, “Heat of the moment” si ferma, cambia, lancia il solo di chitarra, gira, si accende con parti corali, si capovolge, introduce strutture differenti, dando persino l’impressione che in certi frangenti il bpm acceleri di qualche comma per correre alla parte successiva, ma forse è solo un’impressione dovuta proprio all’impeto del momento, perché è un singolo costruito per trascinare chi lo ascolta. Il punto è che qualunque band con un po’ di sale in zucca e lungimiranza in chiave marketing ricaverebbe almeno tre canzoni diverse da “Heat of the moment” e non sprecherebbe così tanti spunti in tre minuti e mezzo scarsi di musica. Se smanettate con i software di audio editing, provate a tagliuzzare il brano in tutte le parti che volete utilizzando i continui stop come riferimento, e ditemi se non è vero.