Asia – Heat of the moment

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[questo articolo è uscito su Loudd.it]

Che poi, a dirla tutta, nel 1982 non è che ci fosse tutto questo “fervore del momento” per chi suonava progressive o arrivasse da quell’ambiente lì. In pieno riflusso e disimpegno persino gli artisti più visionari del post-punk si leccavano le ferite dando alle stampe dischi da classifica. Facile immaginare come ci si dovesse sentire, ai tempi, a girare negli studi di “Top of the pops” marchiati a fuoco addirittura nei campi di prigionia artistica dalla generazione rock precedente, quella tutta tempi dispari, assoli infiniti, elfi, tappeti di mellotron e altre creature mascherate e leggendarie. Solo i King Crimson di Adrian Belew erano riusciti a staccare la spina a un genere ormai superato e obsoleto dando alla luce tre capolavori assoluti di modernità lungo la parentesi più originale della carriera della band più longeva del progressive (“Beat”, “Discipline” e “Three of a perfect pair” lasciano, ancora oggi, senza parole anche gli ascoltatori più esigenti).

A dire la verità, a pensare al futuro ci avevano provato anche gli Yes ingaggiando, probabilmente in un momento di lucida follia, due volponi come Geoff Downes e Trevor Horn che, grazie al singolo più orecchiabile della storia reso in un video sfacciamente iconoclasta, con i Buggles avevano definitivamente sancito la morte degli anni settanta, star radiofoniche comprese. Facile immaginare la fanbase degli Yes di fronte all’uscita di “Drama” (era il 1980) che, inutile dirlo, poteva avere solo due interpretazioni estreme e opposte. Horn e Downes, ovvero due canzonettari messi a contratto dalla band di “Fragile”. Uno scandalo o un’opportunità di crescita? In effetti, in quell’epoca di passaggio e gran confusione, di religione ce n’era davvero ben poca e, visti da qui, i Genesis – alla fine rimasti in tre – non hanno poi avuto tutti i torti a concentrarsi sui tormentoni estivi.

In questo scenario è evidente quanto l’industria musicale cercasse di fare cassa il più possibile dai vecchi dinosauri della musica criptica e concettuale del decennio precedente, affinché non si trasformassero in un inutile accollo e in una ingiustificata voce di costo fisso. Non a caso è di questo periodo la formula dei supergruppi, band ad alta concentrazione di virtuosismo formate da membri di progetti già archiviati o temporaneamente messi in stand-by, proprio come gli Asia. Un po’ di Yes classici, un altro po’ di Yes dell’ultima formazione, un pizzico di Emerson, Lake & Palmer e un quarto di King Crimson. Un insieme che, in un mercato discografico invaso da synth pop e new romantic, correva il rischio di dare luogo a una cagata pazzesca. La sorprendente “Heat of the moment” risulta, invece, la prova che la musica non è mai stata affatto matematica ma, in quanto a prevedibilità, somiglia di più a un laboratorio di action painting.

“Heat of the moment” è il primo singolo tratto dal primo album del dream team Asia, un disco omonimo che risulterà il 33 giri più venduto negli USA in quell’anno. Nel brano sono riconoscibilissime alcune trame di altre canzoni legate, in qualche modo, alla carriera precedente e successiva di John Wetton (voce solista e basso), Steve Howe (chitarra), Geoffrey Downes (tastiere) e Carl Palmer (batteria). Troveremo frammenti del convincente riff di chitarra in “Owner of a lonely heart” degli Yes, mentre il ritornello strizza l’occhio a “Video killed the radio star”, ma si tratta di speculazioni possibili solo a posteriori e che non sminuiscono per nulla il valore di questa canzone.

Il brano, di portata clamorosamente commerciale, ha comunque una matrice progressive non così evidente ai tempi della pubblicazione che oggi, a menti e orecchie lucide, si legge a caratteri cubitali tra le righe del pentagramma. “Heat of the moment” avrebbe potuto avere un andamento regolare, con un incastro ritmico omogeneo in grado di condurre l’ascoltatore dall’inizio alla fine con la massima fluidità e, magari, di consentire versioni più ammiccanti di quella ufficiale, con una cassa in quattro e il temperamento spensierato di una “Abacab” qualunque.

Invece no. Ogni fottutissima strofa e dopo ogni fottutissimo ritornello, “Heat of the moment” si ferma, cambia, lancia il solo di chitarra, gira, si accende con parti corali, si capovolge, introduce strutture differenti, dando persino l’impressione che in certi frangenti il bpm acceleri di qualche comma per correre alla parte successiva, ma forse è solo un’impressione dovuta proprio all’impeto del momento, perché è un singolo costruito per trascinare chi lo ascolta. Il punto è che qualunque band con un po’ di sale in zucca e lungimiranza in chiave marketing ricaverebbe almeno tre canzoni diverse da “Heat of the moment” e non sprecherebbe così tanti spunti in tre minuti e mezzo scarsi di musica. Se smanettate con i software di audio editing, provate a tagliuzzare il brano in tutte le parti che volete utilizzando i continui stop come riferimento, e ditemi se non è vero.

premiata simmetria marconi

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I primi due album della PFM, “Storia di un minuto” e “Per un amico”, si chiudono entrambi con due pezzi stranissimi e che ci azzeccano davvero poco con il resto dei dischi in cui sono contenuti. L’avevate mai notato?


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fino a nuovo ordine – S1E1

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In un futuro distopico la new wave ha vinto la guerra civile in Italia e i suoi sostenitori hanno occupato tutte le stanze dei bottoni culturali e sociali del paese. La tv in bianco e nero ha preso il sopravvento a scapito di quella a colori e nelle scuole, durante l’ora di musica, si suona l'”Inno alla gioia” con il sintetizzatore. Grazie al suo trionfo a Sanremo 84 con “Radioclima”, Garbo è stato eletto con percentuali bulgare primo ministro per quattro mandati di fila, mentre Franco Battiato – un vero e proprio padre della patria – è una presenza costante nell’iconografia sovranista. “La voce del padrone” è riconosciuto la bibbia del pensiero unico nazionale e il verso “non sopporto i cori russi, la musica finto rock, la new wave italiana” dell’inno “Centro di gravità permanente” è stato oggetto di una campagna di riqualificazione in “non sopporto i cori russi, la musica finto rock-new wave italiana” con l’obiettivo di smascherare i veri nemici della cosa pubblica che occultano generi musicali non ammessi dal regime in canzoni imbellettate da estetica post-punk  dozzinale ma che con il verbo, purtroppo, non c’entrano affatto. Le foto-tessera sui documenti ufficiali sono valide solo se il soggetto è ritratto secondo “Il libro delle pose di Robert Smith” ed è ripreso adorno di monili riconducibili allo storytelling governativo. Musicisti come Diaframma e Litfiba (fino a “17re”) sono considerati gente normale che fa il suo dovere senza infamia e senza lode.

In questo scenario in scala di grigio, Piero Marfi, uno dei più valorosi artefici della rivoluzione sociale, giunto alla terza età, ravvede in sé i nefasti presagi della malattia che resetta la memoria e teme che, una volta raggiunto l’oblio del passato, lasciato nelle grinfie di qualcuno poco avvezzo alle linee guida nazionali, gli vengano sottoposti ascolti inopportuni approfittando del suo stato di squilibrio mentale. Piero sogna da sempre di avere – prima di sparire dalle scene – il tempo sufficiente per ascoltare “Dark entries” dei Bauhaus per un’ultima volta. Un nucleo di terroristi sovversivi, mossi da un impeto situazionista volto a restaurare la canzone italiana come principale status melodico-armonico nella popolazione, si introduce nella dimora di Marfi per sostituire nei punti chiave della sua discografia di una vita alcuni 33 giri di new wave con le hit più intriganti che si sono sviluppate, di nascosto, nell’underground cospirativo. Con questo obiettivo, riescono a corrompere la sorella della colf di Marfi per convincerla a tradire la causa e passare nelle fila dei sovversivi.

Electronic – Disappointed

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Ci piace pensare che a un certo momento gli artisti più impegnati degli anni ottanta abbiano raggiunto un punto di non ritorno e si siano liberati, abbandonandosi a una corrente di riflusso per decomprimere un po’ le tensioni del decennio musicalmente più contraddittorio del secondo dopoguerra. Immaginiamo quindi uno come Bernard Sumner cercare una valvola di sfogo dopo essersi fatto carico di una band con un suicidio alle spalle e un suono tutto da reinventarsi tra l’elettrico e l’elettronico, allo stesso modo in cui vediamo uno come Johnny Marr che, stufo di condividere il palco e il lavoro stesso con un frontman presuntuoso e ingestibile, cerca una situazione con meno pretese, compagni di strada più alla mano e senza limitazioni di genere.

E chissà se per gli Electronic è andata proprio così. Due personalità giovani e all’apice della maturità artistica che danno vita a un progetto per ricominciare daccapo ma con ben altre priorità, il divertimento innanzitutto. E forse la scelta di farsi coinvolgere da un poppettaro come Neil Tennant dei Pet Shop Boys è un po’ come quelli che, scaricati da un partner ingombrante, cercano di fare tutto il contrario di quello a cui si sono dedicati nella vita precedente per marcare il più possibile la distanza, demolendo i valori impartiti dall’ex fresco di divorzio.

Perché, diciamocelo, se non sapeste come sono andate le cose, direste davvero che dietro “Disapponted” ci sono il chitarrista degli Smiths e la mente dei New Order oppure mettereste la mano sul fuoco sul fatto che si tratta di un nuovo singolo pensato per scalare le classifiche del duo di “Paninaro”? Ma siccome viviamo a ventisette anni di distanza e oramai la nostalgia si è impadronita delle nostre vite tanto da convincerci a scrivere articoli su canzoni come queste, un brano dance e synth-pop come “Disapponted” mai come oggi ci sembra un prolungamento di due dei nostri gruppi preferiti, così vicino da poterlo toccare, così attuale e regolare nel ritmo da poterlo ballare, così di moda da poter farlo ascoltare a chi vive il presente unicamente come retaggio del passato e a chi ha il mito di quello che, per noi, era consuetudine.

Quindi sì, è il 2019 e “Disapponted” resta il pezzone che è, con quella ritmica di piano da discoteca e con quel modo subdolo di rendere difficili i pezzi ingenui che solo le menti geniali come Sumner e Marr riescono a mettere in pratica. La cassa dritta genera infatti l’illusione che tutto proceda con la massima regolarità per conciliare l’oblio del dancefloor e delle strobo in pista, ma armonia, melodia e arrangiamenti risultano complessi, in alcuni passaggi addirittura sghimbesci, con quei due accordi che chiudono le strofe per lanciare il ritornello che sembrano messi apposta per destabilizzare i puristi della musica commerciale, fino ai cori onnipresenti che anticipano certe atmosfere trance ancora in erba, per il 92. La chitarra di Marr, in questo tripudio di elettronica, è appositamente camuffata in secondo piano per poi fare capolino con grande disinvoltura e lucidità nei punti in cui c’è spazio per un protagonista unico, con quella ritmica funky da cui poi emerge il cantato al quale è doveroso dedicare qualche precisazione.

Neil Tennant, pur nel suo essere artefice di musica di merda (perché va bene tutto ma i Pet Shop Boys, per cortesia, proprio no) ha infatti indubbiamente un timbro originalissimo e straordinario. La sua voce è identificabile ovunque proprio come lo è quella di Sumner stesso, un registro del quale, per certi aspetti, ne costituisce la versione aumentata grazie a parametri più accondiscendenti di gradevolezza, affabilità e radiogenicità.

E come i migliori brani dei New Order, anche “Disapponted” non è presente in nessun album se non in una raccolta di singoli uscita quindici anni dopo, una specie di “Substance” con le cose più interessanti che gli Electronic hanno prodotto. Ma ci pensate? Gli Electronic. Una band con il destino nel nome. Un complesso sicuramente minore e allo stesso tempo annoverabile nella categoria dei supergruppi, amato dai fan delusi dai tira e molla di Sumner e soci e da quelli degli Smiths, ancora in lacrime per la scomparsa dalle scene così prematura dei loro beniamini.

“Disapponted” resta una canzone fatta della stessa materia delle hit industriali dei grandi gruppi dance dell’epoca – il 92 è l’anno di “Rhythm Is a Dancer” degli Snap – ma con le caratteristiche di un prodotto creato in una bottega di artigianato. D’altronde, parafrasando un verso della canzone, ci siamo innamorati tutti di qualcuno che non fosse un “qualcuno” stanco di sognare. E su un brano come “Disapponted”, così apparentemente facile da risultare inconciliabile con le semplificazioni che mettiamo in campo per districarci nelle scelte da cui dipende la nostra sopravvivenza e così evocativo da farci perdere il sonno, ci siamo cascati davvero in tanti.

Un extracomunitario avvicina un ragazzino finlandese nella metropolitana di Helsinki. Guarda cosa gli succede

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“Un extracomunitario avvicina un ragazzino finlandese nella metropolitana di Helsinki. Guarda cosa gli succede”. Ecco. Se “Freestyler” fosse un video virale del 2019, con tutta la cecità sociale che si consuma quotidianamente dalle nostre parti, Facebook sarebbe invasa da fake news sull’accaduto e un clickbait di questo tipo farebbe il pieno di visite da parte dei populisti poco informati e rimandati in storia con cui siamo costretti a condividere il presente.

Per fortuna “Freestyler” è un brano uscito nel 1999, esattamente vent’anni fa, in un momento in cui non c’era ancora tutta questa smania di smantellare l’Europa socialdemocratica per un’illusoria democrazia diretta pilotata dalle fatiscenti piattaforme digitali controllate dalle aziende private, secondo una formula spacciata per antipolitica. In realtà anche allora le cose si potevano cambiare con un clic ma – come ci insegnano i Bomfunk MC’s nel video in questione – rigorosamente su un lettore Minidisc, l’ultimo dei grandi formati proprietari spazzato via dalla banda larga. Il ragazzino finlandese arriva sano e salvo a destinazione – perdonate lo spoiler – ma nel suo viaggio sui mezzi pubblici ferma, riavvolge, accelera le sequenze remixando a modo suo la realtà secondo una perfetta metafora delle potenzialità offerte dalla drum’n’bass.

E, della drum’n’bass, “Freestyler” dei Bomfunk MC’s – progetto che da lì in poi, ricordiamolo, è svanito nel nulla – è l’ultimo baluardo. Finisce il secolo e si cambia ritmo con un brano d’addio che fa il pieno di ascolti. C’è l’intro con il dobro, ci sono le sequenze, gli stop and go, le tipe maggiorate dai lineamenti misti (come tutti, del resto, nel video) che ballano il mistero di questo breakbeat raddoppiato che però, sotto sotto, ha il tempo di un reggae a velocità normale, e ognuno può scegliere davvero come muoversi sulla pista. Il problema è che già nel 99 oramai c’è davvero poca roba con cui mixarlo. Da lì a poco inizierà la restaurazione della cassa dritta e dovremo aspettare almeno sino ai Rudimental di “Not Giving in” o ai 21 Pilots della coda di “Lane boy” per riaccendere i motori, anche se a più di dieci anni di distanza.

Tutto questo per dire che ancora oggi c’è gente che farebbe carte false per amalgamare fattori così genuini e dare alle stampe una canzone così fortunata e travolgente anche se poi, a leggere il testo, non è che “Freestyler” sia un vettore di messaggi epocali. Puro ballo e flow scorrevole. Questo non ha impedito alla band finlandese di fare jackpot, considerando che il singolo ha raggiunto la vetta delle classifiche di diversi paesi europei fino all’Australia, alla Nuova Zelanda e alla Turchia, conquistando persino la posizione numero due nel Regno Unito, in cui è stato il singolo più venduto del 2000.

E allora, come fa il giovane protagonista del video in metropolitana, riavvolgiamo la traccia e riascoltiamola da capo, vent’anni dopo. E non mi riferisco al rifacimento del video appena pubblicato, in cui si vedono i Bomfunk MC’s, a differenza del loro successo, appesantiti da vent’anni in più sul groppone. Usiamo la fantasia. Notate le differenze? Il ragazzino, come i suoi coetanei, oggi vive secondo la moda maschile del momento che impone tagli di capelli che sfidano la gravità, altro che dreadlock da centro sociale. Si diletta con la depilazione totale e ha la pelle impiastrata da tatuaggi senza senso, comprese le scritte sulla faccia. L’abbigliamento è sempre sportivo ma le taglie XXLL lasciano il posto alle linee super slim fit e alle altre vestigia del poverismo della migliore trap di periferia. Al posto della Sony con il suo supporto – sparito dal mercato in tempi record – c’è la Apple con un modello di smartphone ultimo grido.

Per il resto, ditegli di continuare pure ad ascoltare la sua musica con le cuffiette senza preoccuparsi del prossimo: anche se la politica del terrore sfrutta la paura dell’immigrazione come diversivo, il massimo che può capitare a noi bianchi occidentali in metropolitana è che qualcuno ci tiri in ballo in un contest estemporaneo di streetdance per il quale, con il ritmo nel sangue che ci ritroviamo, ci spettano ben poche possibilità di vittoria.

l’urlo ribelle

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La mia compagna di banco si chiamava Anna e aveva incollato sul diario di terza una foto ritagliata dal settimanale “Ciao 2001” che ritraeva Billy Idol con una tuta da aviatore o da meccanico – quelle composte da un unico pezzo, per capirci – e la zip aperta dal collo fino all’altezza dell’inguine, in una posa che non lasciava dubbi sulla scarsa dimestichezza dell’ex leader dei Generation X con la biancheria intima. Prima dell’avvento di Internet l’immaginario sulla pornografia maschile era di dominio esclusivo degli addetti ai lavori e quell’immagine lasciva in un contesto sobrio e tradizionale come l’aula di un liceo aveva scardinato le mie priorità di maschio eterosessuale e di adolescente ancora prima di quelle di studente mediocre qual ero. La mano di una popstar dalla smorfia poco accomodante si insinuava a stringere chissà che cosa, là sotto, proprio all’altezza delle indicazioni sulla versione di “Urbis et Orbis” da ultimare per il giorno successivo. Anche alle ragazze piacciono le foto audaci, avevo pensato, e chissà se qualche porzione scoperta del mio corpo avrebbe avuto sulle femmine effetti paragonabili a quella macchina da sesso che sembrava essere Billy Idol. Senza contare che il cantante di “Flesh for Fantasy” esulava dai miei gusti sin dalla sua esperienza musicale precedente, da tutti considerata punk ma – oggettivamente – caratterizzata da molti più punti in comune con quel glam-pop a tinte hard rock che andava di moda a cavallo dei due decenni. E vi giuro che non credo di aver mai più pensato a Billy Idol nella mia vita da allora fino a ieri, quando un amico ha postato su Facebook la copertina di una sua raccolta a 33 giri. Ho fatto qualche ricerca in rete e ho così scoperto che, come la totalità di star degli anni ottanta, Billy Idol sta vivendo una seconda stagione di gloria interpretando se stesso e il suo urlo ribelle a sessant’anni suonati, suonando i cavalli di battaglia della sua stagione più fortunata, accompagnandosi peraltro con quel chitarrista suo compagno artistico di una vita, il vecchio (anche in senso anagrafico) Steve Stevens, che, incredibile a vedersi, risulta persino quasi più tamarro di lui.

da una sorpresa su cinque a una canzone su tre

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Chi vuole imporre più musica italiana nelle radio probabilmente non ascolta la radio. Alla radio suonano molta musica di merda e la maggior parte di questo schifo è tutto italiano. E la cosa assurda è che non è che alla radio si senta l’indie o la trap, che per lo meno hanno una loro dignità. Alla radio potrei scommettere che due canzoni su tre sono di quel pop italiano da quattro soldi con i rapper che sciorinano strofe che si alternano alle cantanti che fanno i ritornelli, roba che in confronto a Sanremo ci vanno i King Crimson come concorrenti. Non ricordo un periodo più a sfavore della musica americana o inglese nella hit parade e, di conseguenza, nelle scalette delle emittenti commerciali. Per non parlare del rock: chi lo porta più tra i canali della cultura nazionalpopolare, e non valgono gli over 40? Per cui non ho nessun dubbio che se passasse una legge di questo tipo tornerebbe a vantaggio degli stranieri. Senza contare che, prima o poi, tutto il sommerso indie e trap sarà mainstream e così cantanti o progetti come i Coma Cose ce li ritroveremo da Fazio (o da chi prenderà il suo posto dopo il reset della RAI fasciogrillista) come se fosse una cosa normale e, finalmente, tre pezzi su tre saranno cantati in quella lingua che parlano i giovani e che non si capisce bene cosa sia.

attaccabrighe

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Ci sono diversi motivi per apprezzare i Prodigy. Primo perché si chiamano come un Moog che faceva parte della mia strumentazione. Un bel sintetizzatore analogico con la cassa in legno, piccolino ma bastardo nella cattiveria con cui strizzava i suoni con i suoi filtri. Poi perché i Prodigy hanno campionato Max Romeo di “Chase the devil” e lo hanno spalmato come la Nutella in “Out of space” e quando ascoltavo Max Romeo in ufficio i colleghi giovani mi venivano a chiedere informazioni. “Ma chi ha fatto questa versione reggae dei Prodigy?”, obiettavano. Poveri ingenui. Ho visto i Prodigy dal vivo a Milano nel novantasette, avevano i Marlene Kuntz come supporter e, obiettivamente, hanno fanno entrambi la loro sporca figura. I Prodigy in concerto hanno lo stesso limite di tutti i gruppi elettronici, e cioè non capisci se suonano o è tutto registrato. Ho trovato però su Youtube alcuni filmati da tournée recenti e ho scoperto con piacere che mettere una batteria acustica sotto “Firestarter”, che in italiano ho sempre tradotto con “Attaccabrighe”, ha un suo perché. E ho sempre pensato che Keith Flint, il folle urlatore e front-man con quelle pettinature assurde, una specie di Johnny Rotten in versione pasticche e roba chimica, nella vita di tutti i giorni fosse proprio così. Un attaccabrighe pronto a importunare il prossimo solo per passare il tempo.

cosa resterà di questi anni ottanta

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Posso capire che il tempo ci abbia preso gusto a toglierci gente come Bowie, George Michael e Prince con il fine ultimo di sottrarci quell’identità che ancora nel 2519 probabilmente sarà insegnata sui libri di storia. “Vedete le foto di questi tizi che si pitturavano la faccia” racconteranno gli insegnanti a scuola, “riempivano gli stadi e facevano tirar tardi ai ragazzini nell’attesa delle trasmissioni di videoclip musicali alla tv perché Youtube non esisteva ancora e nemmeno giravano così tanti soldi per acquistare tutti i dischi in cui trovare le migliori parole per far capire le cose che ci si portava dentro? Questa dimensione così difficile da comprendere a chi, grazie al virtuale, è passato definitivamente dall’altra parte oltrepassando quel confine che tante volte i ragazzi degli anni ottanta del ventesimo secolo hanno provato a scavalcare con la sola forza della musica?”.

Posso capire che smantellare un intero immaginario di icone pop sia utile a far tornare con i piedi per terra una generazione, oggi cinquantenne, che è stata tirata su con una mitologia di benessere impossibile da sostenere in un mondo a elevata complessità, ai tempi difficile da prevedere: la fine dello stato sociale, la solidarietà come motore del progresso e, a quanto si legge in giro, la democrazia stessa e i valori fondanti della libertà.

Posso capire che dopo aver dilapidato una delle più corpose banche dati artistiche della storia dell’umanità per fornire ispirazioni a un’industria musicale di lì a breve condannata all’estinzione dalla scarsa lungimiranza della sua stessa classe dirigente e per raschiare sul fondo del barile i rimasugli da spartirsi, si continui a riproporre le stesse sonorità, gli stessi generi e persino gli stessi artisti che probabilmente preferirebbero godersi serenamente la pensione anziché calcare le scene con i reumatismi e la cataratta perché gli unici ancora in grado di trasmettere emozioni con le loro canzoni.

Posso capire tutto, ma che cosa vi ha fatto Mark Hollis per indurvi a riprenderlo indietro così presto? Per dire, io non avevo ancora capito con che synth facessero il suono di gabbiani di “It’s my life”, pensate un po’.

anche quando non fanno rima

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In fondo le canzoni sono poesia musicata. Ce lo insegnano anche a scuola gli autori dei libri di testo più innovativi quando mettono nei capitoli dedicati alla letteratura contemporanea i vari De André e compagnia bella e noi pensiamo che, a differenza della poesia vera e propria che parla di noi ma con un linguaggio autoreferenziale, i testi delle canzoni fanno lo stesso con le parole di tutti i giorni, messe comunque in un modo che noi non riusciremmo mai a imitare. Ecco perché ci piacciono così tanto e perché le troviamo fortemente evocative. Un fattore che si avverte anche dal vero, provateci anche voi. Si sente quando qualcuno dice qualcosa aumentando la mole di significati delle sue parole rispetto a quanto richiesto da una normale conversazione. Lo sforzo di attribuire più chiavi di lettura a ciò che si intende comunicare viene riconosciuto da chi assiste alla vostra poesia in potenza come cosa intelligente, profonda, divertente, stimolante, comica, motivante, romantica, piacevolmente deprimente, malinconica, straniante e in mille altre manifestazioni della sensibilità umana. In questi casi le parole assumono la dignità di essere scritte, riportate, citate, virgolettate e tramandate. Potete immaginare gli effetti della magia di saper modulare questi impeti sulla musica. Lo proviamo ogni volta che ascoltiamo una canzonetta, e a me è successo ancora ieri, ascoltando questa canzonetta qui.