Vi confesso che gli Smiths mi sono arrivati a giochi già fatti. Era uscito “The Queen is dead” da poco (correva l’anno 1986) e a Rai Sterenotte avevano passato il pezzo omonimo che è una delle canzoni mento smithsiane degli Smiths. Io ero più sul versante Cure anche se gli ottanta veri e propri avevano già passato la metà e la sicurezza della new wave andava disgregandosi. Da lì sono andato a ritroso ma, privi della componente elettronica che è poi quella che più mi manda in estasi, non hanno immediatamente scalato la classifica delle cose più appassionanti. Poi però è uscito “Strangeways, Here We Come” e le cose sono cambiate. Non certo per un sound più affine ai miei gusti, ci mancherebbe. Ma l’ultimo disco degli Smiths è spettacolare in tutte le sue parti e contiene il pezzo più bello che abbiano mai composto che è quello qui sotto. Buon compleanno Morrissey, a sessant’anni hai ancora una spina nel fianco così ingombrante che si vede da qui.
alti e bassi di fedeltà sonora
magnadyne
StandardIl televisore funziona benissimo. Peccato che, da quando è in voga il digitale terrestre, le antenne incorporate – una lunga lunga e una tonda tonda – non captino null’altro che il rumore bianco. Era l’apparecchio che d’estate portavamo nelle casa di campagna e che, d’inverno, si spostava di camera in camera a seconda se ci fosse qualcuno a letto con la febbre, per tornare nella stanza di mamma e papà come ubicazione principale. D’altronde il televisore portatile si chiamava così perché lo potevi muovere facilmente ovunque. Altro che quei madonnoni da millemila pollici che li devi fissare al muro tanto sono grandi e da lì non li rimuovi più finché i produttori non si inventano qualche altra diavoleria per renderli obsoleti. Il mio Magnadyne portatile arancione invece è durato quasi vent’anni, anche quando negli anni ottanta guardare i programmi in bianco e nero era anacronistico. Ci ho visto qualche partita dei mondiali del 78 e cose per bambini come Heidi e Orzowei. Ma soprattutto seguivo l’Eurofestival nel letto con mio papà, perché il televisore famigliare, quello posizionato in salotto, era sintonizzato sulle trasmissioni serie della RAI. Mio papà invece era più esterofilo, gli piacevano Tv Capodistria e Tele Montecarlo e seguiva quella produzione musicale bizzarra proveniente dall’Europa meno convenzionale del Regno Unito in quanto a pop e rock che si concentrava nella saga del kitsch che oggi fa il pieno di discussioni su Twitter. Su tutti, ricordo benissimo la partecipazione degli ABBA all’edizione dell’Eurofestival 74 con “Waterloo”. O almeno credo di averla vista, e quando penso a come si riesca costruire un ricordo artificiale di questo tipo mi convinco che non sia possibile e che, davanti a quel piccolo teleschermo della Magnadyne arancione a vedere il quartetto svedese, ci siano stati proprio due spettatori speciali come il mio papà e io, al suo fianco, nel sul letto. Quel televisore lo possiedo tutt’ora. Potete vederlo in bella mostra in cima al frigo, nella cucina di casa mia. Lo guardo, nello schermo non c’è niente, ma sento comunque subito un suono dentro di me, una musica proveniente dall’Europa del nord e, forse, da un tempo che non saprei dirvi ora dov’è.
inni sbagliati
StandardUno dei motivi di certi errori grossolani che commettiamo è l’eccessiva fiducia che riponiamo nelle cose che leggiamo su Internet senza prima verificare le fonti e cercare qualche conferma in più. Provate a pensare a qualcuno che raggiunge questo blog a seguito di una ricerca su Google, legge una delle tante cose che mi invento e poi la riporta come cosa veritiera. La rete è piena di stupidaggini e talvolta le conseguenza della faciloneria con cui abbocchiamo è esilarante. Non so come sia andata per la faccenda, verificatasi qualche settimana fa, dell’orchestra di Napoli che ha suonato l’inno franchista davanti al re di Spagna, però pare proprio che qualcuno del coro abbia cercato frettolosamente su Internet un testo dell’inno nazionale e si sia fermato al primo risultato ottenuto. Oggi che i canali ufficiali in cui cercare le cose hanno perso l’autorevolezza a causa delle democrazia diretta del web che ti permette di avere tutto senza sbattimento, incorrere in una gaffe di tale entità è abbastanza alla portata di tutti. Povere stelle anche quelli di Wikipedia a cui ogni tanto gli sfugge qualche modifica faziosa delle pagine. I fan di Mahmood, per dirvene una, hanno farcito di ingiurie la pagina sulla Danimarca rea di non aver assegnato i 12 punti al loro beniamino all’Eurofestival 2019. La mancata votazione ha impedito al cantante di aggiudicarsi il podio e il popolo della rete si è vendicato a modo suo. Ora immaginate un ragazzino intento a recuperare informazioni per una ricerca sulla Danimarca proprio nei pochi minuti in cui la versione della pagina è rimasta così. Su un volume della Treccani nella biblioteca comunale tutto questo non sarebbe potuto accadere, ma in giro c’è pieno di gente che dei professoroni che compilano le enciclopedie monumentali ne ha piene le tasche, ed è facile indovinare la loro preferenza elettorale.
Ma quello dell’inno spagnolo non è un caso isolato. Anche l’inno russo ha un testo diverso, introdotto dopo il crollo dell’Unione Sovietica. Quindi, amici musicisti, fate attenzione a quello che trovate perché sono certo che Putin sia meno indulgente di Felipe VI e di Juan Carlos. Quando però questa sorta di “Lost in translation” torna a nostro vantaggio non possiamo negare il brivido di soddisfazione che ne consegue. Alla Max Schmeling Halle di Berlino come musica per la premiazione delle due squadre italiane vincitrici della Champions di volley (Lube Civitanova e Igor Novara) anziché l’inno di Mameli hanno messo “Bella Ciao”, forse credendo che – considerata la melodia marziale – si trattasse di un pezzo istituzionale. Pensatela come volete, ma io sono convinto che in questo caso non si tratti di una svista. In Germania sono consapevoli delle condizioni in cui ci troviamo e qualcuno ha voluto farci sentire la sua solidarietà con un gesto molto apprezzato.
liberato
Standard[questo articolo è uscito su Loudd.it]
Quello che è certo è che gli owner del progetto Liberato non hanno fretta. Dal 13 febbraio 2017, data di rilascio del primo singolo “Nove maggio” su Youtube, di Liberato sono uscite una manciata di canzoni – undici – appena sufficiente a riempire un long playing di durata standard. Un disco che, com’era facilmente prevedibile, ha visto la luce proprio il nove maggio 2019, dopo che il nove maggio 2017 era stata la volta di “Tu t’e scurdat’ ‘e me” e, a ridosso della stessa data dell’anno successivo, Liberato aveva pubblicato altri brani.
Il punto è che con un fenomeno così sulla cresta dell’onda – quello che i giornalisti che invidiano il fatto che qualcuno nutra una passione chiamano hype – come lo è stato nei primi mesi dal lancio, qualunque discografico non ci avrebbe pensato due volte a spingere il sound dell’entità partenopea sui canali più redditizi, secondo il modello di coltivazione artistica intensiva tipico del nostro tempo e che, dello show business, è un po’ la morte sua.
Il rilascio a dosaggio a dir poco omeopatico invece è risultato una mossa vincente. La qualità è più efficace della quantità e a riportare il fenomeno Liberato, latente da qualche mese, al centro del dibattito dell’indie italiano, dell’élite culturale e dei social network, è stato sufficiente un nuovo set di brani abbinato ai consueti video-gioielli di Francesco Lettieri (i cinque episodi di “Capri-rdv”, per un vero e proprio video-ep), in un contenitore-full length – in un primo momento solo in formato Spotify – ma che trasmette l’impressione di essere già un greatest hits a proposito del quale parlare di una raccolta di singoli di successo, o di tutti i brani pubblicati, ad oggi è la stessa cosa.
Le chiavi di lettura e gli spunti per trattare di Liberato sono dunque molteplici, a partire dal fatto che attribuire alla sua musica l’etichetta trap – una semplificazione appena accettabile per i non addetti ai lavori – è estremamente riduttivo. Liberato con la trap ha in comune solo il fatto che è figlio del nostro presente, i bpm dimezzati sul tempo che qualunque ascoltatore poco avvezzo al nu-soul conterebbe al doppio del loro valore, i suoni di cassa che si schiantano al suolo esplodendo in un boato profondissimo di bassi in grado di coprire tutto il resto delle frequenze per qualche decimo di secondo, e infine il flow melodico stemperato comodamente nel beat.
Ma basta un ascolto consapevole per accorgersi di quanto le basi di Liberato siano distanti anni luce da quelle dei beniamini dei pre-adolescenti che impazzano su Youtube. Un tappeto di suoni sintetici, riconoscibilissimo per la componente di elettronica evoluta con cui Liberato marca prepotentemente la differenza. Non sono pochi i temi di synth, e l’impiego della ritmica (talvolta in levare) suonata con timbri di pad, ora dalla risonanza tagliata cupa e ora con filtri dall’apertura progressiva, è ricorrente in molte tracce e ormai un vero e proprio marchio di fabbrica.
L’uso dei sample è invece accuratamente misurato e intelligente, come il breakbeat jungle di “Guagliò” o la vibrazione dello smartphone campionata in chiusura di “Je te voglio bene assaje”, uno dei rumori più riconoscibili dalla generazione always on. Il baratro delle linee di basso, così sotterraneo da sfondare i subwoofer, si mescola alle kick intonate e agli handclap della drum machine, la body percussion artificiale a sostituzione dei colpi di rullante programmata per raddoppiarsi e quadruplicarsi, un escamotage pensato per guidare le aspettative dell’ascoltatore verso l’alto sino al raggiungimento della vetta del pathos, in un punto di non ritorno in cui non resta altra scelta che lanciarsi nello strapiombo del ritornello, svuotato di tutto.
Le melodie di Liberato sono uniche e si richiamano l’una con l’altra poggiando su arrangiamenti raffinati, mentre la ritmica – modernissima – spazia dalla trap, all’house, al dub e persino al trip hop. C’è chi ci coglie anche del reggae, ma non è un genere di moda ed è meglio non alzare tanto la cresta. In tutto questo emerge la voce del misterioso crooner partenopeo e il suo modo di trasformare la canzone napoletana – quella che va da Nino d’Angelo ai neomelodici, passando per Pino Daniele, la Nuova Compagnia di Canto Popolare e gli Almamegretta – grazie all’incontro con l’elettronica più spinta.
La tradizione più tradizionale che c’è e che non si stanca mai di parlare d’amore, in un esperanto frutto di una babele di dialetto, inglese, italiano e spagnolo. E poi, soprattutto, Napoli, la città colta nel paradosso dell’iperconnessione impiantata sul degrado della civiltà e della più moderna digitalizzazione contrapposta all’entropia con cui le periferie si divorano reciprocamente i confini creando il disagio che leggiamo nella cronaca nera o nell’epopea delle serie tv sulla mala del posto. Ma si tratta di mere constatazioni: nessuno denuncia niente (almeno non in modo esplicito) e nemmeno qui si chiede a qualcuno di ribellarsi, tanto che la citazione di “Get Up Stand Up” di Bob Marley – nella versione del “Live!” del 75 – che si trova ancora in “Guagliò” è solo una finezza per acchiappare il plauso di qualche cinquantenne irriducibile e idealista. Il tutto nell’idioma più musicale del mondo. Liberato è la conferma di quanto il napoletano sia secondo solo alla metrica anglosassone come ciliegina sulla torta delle canzoni, come ci avevano già dimostrato i Massive Attack nei loro “Napoli Trip” in compagnia di Raiz.
Ma “Liberato” è anche un album, che si conferma un prodotto che al momento in Italia non ha eguali e tutt’altro che pensato per il pubblico infantile della trap modaiola. Un disco più o meno d’esordio in cui si riesce a far passare una sostanza di una nobiltà senza tempo in una forma da millennials, con un sound costruito per essere amplificato con impianti di un certo livello e non solo alla mercè degli speaker portatili bluetooth, occultati in qualche modo negli zaini North Face all’uscita da scuola a far gracchiare uno sferaebbasta qualunque.
A prova di tutto questo c’è la componente video, che va considerata parte della materia stessa dei brani di Liberato. Per la prima volta, nella storia dei videoclip come li abbiamo conosciuti fino ad ora, il concetto di concept album è superato da un insieme complementare tra musica e video, una stagione immaginaria di una serie esclusiva di un canale streaming ad abbonamento, alla maniera di fruizione a cui la nostra società si è ridotta con puntate da divorare una dietro l’altra per arrivare il prima possibile all’episodio conclusivo.
Le canzoni che già conoscevamo – “Nove maggio”, “Tu t’e scurdat’ ‘e me”, “Intostreet” e “Je te voglio bene assaje” – sono raccontate dalla storia d’amore tra la ragazza upper class e il guaglione dei quartieri popolari. In mezzo “Gaiola” (nell’album in versione acustica rispetto al singolo Youtube) e la splendida “Me staje appennenn’ amò”, accompagnata dal docu-film sulla condizione dello transgenderism visto tra l’emancipazione nella vita notturna e le complessità dello stare a cavallo tra più sessi nelle relazioni quotidiane e familiari. Quindi i brani nuovi – “Oi marì”, “Tu me faje ascì pazz’”, “Guagliò”, “Nunn’a voglio ‘ncuntrà” e “Niente” – dedicati alla passione che irrompe tra Carmine Vuotto e la bella attrice francese Marì. Il cinema italiano dei grandi registi in bianco e nero degli anni sessanta e il gossip collaterale: la star internazionale che seduce il ragazzo chiamato ad accompagnarla in barca, nella cornice romantica dei faraglioni di Capri sullo sfondo. Una trama che si snoda lungo cinque episodi/tracce fino al finale in cui una Marì, oramai anziana nel 2019, nel brano “Niente” ritorna a Capri per l’ultimo omaggio al grande regista e, terminata la cerimonia funebre, trova il tempo per un saluto alla lapide del suo Carmine, scomparso qualche anno prima.
E, su tutti, è proprio il video dell’epilogo ad essere straordinario. “Niente” è una clip girata e montata come una lunga sequenza di jpeg in una sorta di stop-motion a larga frequenza di keyframe, una magistrale opera d’arte contemporanea realizzata con il susseguirsi di foto delle vacanze caricate dallo smartphone acriticamente in un album Facebook senza la preoccupazione di spostare nel cestino prima le immagini venute mosse, quelle con gente che non c’entra niente sullo sfondo, quelle inquadrate male, quelle esteticamente oltraggiose, perché comunque lo spazio sui nostri dispositivi e nei vari drive del cloud è infinito e non ha senso perdere tempo per buttare via qualcosa.
Lettieri si conferma ancora una volta il regista musicale del momento, una personalità unica nel modo di trasformare con il suo storytelling la trama delle canzoni. La grandezza di Liberato è anche la suggestività delle storie che lo accompagnano sullo schermo. E il punto è che anche le recensioni musicali dovrebbero adeguarsi a queste nuove pratiche: oggi è sempre più urgente considerare la musica un tutt’uno con i video, con i social che ne decretano la viralità, con la rete che li fa arrivare ovunque e on demand e con i meme che ne conseguono. Quella di Liberato è una musica aumentata, come la realtà su cui inseriamo un piano digitale di informazioni contestuali. Difficile dire se si tratta già della canzone italiana del futuro. Per non perdere tempo godiamocela nel presente, e chi se ne importa se, di Liberato, al momento non sappiamo nemmeno che faccia abbia.
a question of time
StandardOggi è stato il compleanno di Dave Gahan e per caso ho scoperto il video di “Martyr” che è davvero bello perché è stato realizzato con diversi passaggi tratti dai video dei Depeche Mode vecchi, sincronizzati con il pezzo. Una sorta di Bignami della sua vita artistica che oggi ha toccato quota cinquantasette. Come ogni anno si ripete la solita storia: il nove maggio è il suo compleanno e il giorno dopo, il dieci, tocca a me. Chissà se qualcuno mi sta preparando un video riassuntivo come questo.
ecco cosa dobbiamo imparare dal pubblico del concerto del Primo Maggio
StandardSono in molti a sostenere che il pubblico che si reca in piazza San Giovanni per assistere dal vivo al concertone del Primo Maggio sia cambiato rispetto all’idea che ne abbiamo noi che, quel concertone, lo abbiamo inventato, costruito, decantato, osannato, criticato. Io ci ho pure suonato, ma questa è un’altra storia.
Dove sono finite le belle ragazze di sinistra vestite solo con il top striminzito che, sulle spalle di qualche loro amico (di norma un maschio altrettanto di sinistra ma confidente nel fatto che le belle ragazze di sinistra vestite solo con un top striminzito siano poco rigorose riguardo ai parametri di avvenenza delle persone con cui condividere alcune parti del loro corpo e del loro spirito libero) cantano a squarciagola “I cento passi”, “Bella Ciao” e “Liberi tutti”, arrivando sfatte e sfinite a fine Primo Maggio, cotte dal sole e fiaccate dalla birra, ma comunque disponibili a sopportare per ideologia e per esasperazione sonora anche gli ospiti di fine serata (ma in prime time di RaiTre) combo improbabili come il cantautore ottantenne accompagnato dall’orchestra della RAI diretta dal chitarrista metal sulla cresta dell’onda oppure il caos della musica balcanica (prima che Elio finalmente dicesse che ha rotto i coglioni) con duecento tra ballerini e musicisti sul palco in un tripudio di danze e musiche popolari dell’ex-Jugoslavia? Dove sono i bei ragazzi di sinistra che sventolano con orgoglio le icone della sinistra, a partire dai quattro mori della Sardegna?
Se non ricordo male, è stata l’edizione dello scorso anno a segnare il punto di svolta. Da allora sul palco del concertone si alternano trappisti di grido – nel 2018 Sferaebbasta, quest’anno Ghali – e i ragazzini che manco sanno chi sono CGIL, CISL e UIL (e io credo nemmeno la sorella di Cucchi, ma spero di sbagliarmi) vanno sotto il palco per fare le story da vicino ai loro beniamini che non hanno mai visto più grandi delle dimensioni del loro smartphone. Non so se sia mai stata una celebrazione in musica del lavoro o un evento ebbasta, di certo ora il concertone del Primo Maggio è solo un evento ebbasta.
Confesso di non aver visto ieri tutto il concerto (su RaiSport c’erano le gare uno delle finali dei play off dei campionati di volley femminile e maschile) però ho assistito ad alcuni momenti che – a mio parere – sono significativi circa lo stato di salute del Primo Maggio, dell’omonimo concerto, della musica italiana tout court.
Intanto vi propongo un test: immaginate di essere un/una fan quattordicenne di Ghali, magari proveniente da una di quelle periferie romane che tirano i calci ai panini destinati a qualche minoranza affamata, in piazza San Giovanni in piedi da ore, e sul palco c’è Manuel Agnelli (il noto giudice cagacazzi di XFactor) che canta per voi una versione piano e voce di “Perfect Day” di Lou Reed. Potete scrivere nei commenti qui sotto, in modo creativo, quale potrebbe essere il vostro stato d’animo.
Poi vi tocca assistere a un gruppo di cinquantenni che solo per il fatto di avere con sé sul palco un rapper romano (Rancore), peraltro sconosciuto ai fan di Ghali, vi canta la storia del drop-out scolastico di un vostro coetaneo ma in una lingua arcaica, l’italiano di Daniele Silvestri del millennio scorso, che nessuna delle nuove generazioni nemmeno si fa la fatica di interpretare con Google Translate, e con il solito approccio degli adulti professoroni che insegnano ai giovani a essere giovani con la presunzione di aver capito tutto e di saperlo spiegare.
Quindi il leader della sinistra indie, che si contrappone alla destra trap, un certo Lodo Guenzi – anch’egli noto giudice buonista di XFactor – a un certo punto avvisa le centinaia di migliaia di fan di Ghali di stare pronti perché si balla. Salgono così sul palco i Subsonica, una band che sta ai fan di Ghali come Gino Latilla stava a me quando nell’84 giravo conciato come Robert Smith.
I Subsonica attaccano la loro performance allo stesso modo di tutte le altre vecchie partecipazioni al concertone del Primo Maggio: “Sole silenzioso” in versione reggae acustica, la canzone di “Amorematico” scritta per i fatti del G8 di Genova che stanno ai fan di Ghali come il Risorgimento stava a me nell’84 (ancora conciato come Robert Smith). Quindi, anziché puntare sulle canzoni dell’ultimo disco che magari, tra un brano di Ghali e un altro, ai fan di Ghali sotto il palco è capitato di skippare dalle loro playlist di Spotify, ripropongono un set da concertone del Primo Maggio per cinquantenni: “Liberi tutti”, che sotto non canta nessuno perché nel frattempo si sono avvicinati i fan di Gazzelle che suonerà subito dopo, ma che finalmente svela l’arcano della co-partecipazione di Daniele Silvestri alla composizione del brano, poi quella sintesi di subsonicità che è “Veleno”, per chiudere con “Tutti i miei sbagli” cantata senza stonare nemmeno troppo quando sale di tono. Un orgasmo per i cinquantenni, un punto interrogativo per tutti gli altri che invece dopo, con il romanissimo Gazzelle, tornano finalmente a dare un senso a quel carrozzone anacronistico per il quale sono in piedi da ore.
A questo punto, permettetemi una considerazione per il momento della rivalsa per quei cinquantenni appena soddisfatti dall’orgasmo di cui sopra. Pensavo giusto al fatto che la cosa che distanzia di più i trapper dal concetto di rock è il fatto di suonare dal vivo nemmeno con le basi, ma con le basi comprensive della voce passata all’autotune. Pensavo a come starebbe la trap con gente che suona sotto, ma il problema è che i ragazzi, oggi, non suonano più gli strumenti che suonavamo noi. La chitarra, la batteria, il basso, i synth. Stanno tutti attaccati a Fortnite o li trovi su Instagram a pubblicare foto in cui si drogano. Così mi ha piacevolmente sorpreso il fatto che Achille Lauro si sia esibito con una band, fino a quando ne ho riconosciuto i membri: il bassista delle Vibrazioni (classe 1978), Federico Poggipollini, chitarrista di Ligabue (classe 1968), Sergio Carnevale dei Bluvertigo alla batteria (classe 1970). La morale della storia è che i trasgressivi della trap, se devono suonare dal vivo, possono solo scendere a compromessi con gli idoli dei cinquantenni di cui sopra perché, altrimenti, non trovano nessuno e si attaccano al cazzo. D’altra parte, ai musicisti rock come il bassista delle Vibrazioni o il chitarrista di Ligabue non sembra vero di salire in cattedra per far vedere ai millennials (soprattutto a quelli con la faccia tutta impiastrata di scarabocchi) come si fa a fare il rock. Dulcis in fundo, quando sale sul palco Ghali e si capisce subito che suona con le basi comprensive della voce con l’autotune, i fan non si pongono nemmeno il dubbio della differenza, di come sarebbero le canzoni di Ghali se ci fosse uno di quei batteristi che sanno fare il breakbeat dal vivo come Ninja dei Subsonica, o un bassista con lo stick, una cosa che sta ai fan di Ghali come il clavicembalo a me che eccetera eccetera.
Avete capito cosa intendo. La lezione che ho imparato è che se hai più di quattordici anni quello che dice Ghali quando canta non si capisce, un po’ come gli ultrasuoni per i cani o certe frequenze che non cogliamo più diventando vecchi. Io non ci ho capito un cazzo, ma forse è perché a cinquant’anni suonati sono diventato sordo. Proverò ad ascoltare l’esibizione di Ghali con le cuffie wireless per la tv come fa mia suocera, classe 1930, quando guarda i film.
un minuto e trentadue secondi
StandardQuesta è la durata dell’intervista di Manuel Agnelli a Young Signorino, ammesso che quella specie di farsa andata in onda a “Ossigeno” la si possa far rientrare nella categoria delle interviste.
Ecco una fedele trascrizione:
M.A.: – Senti, io ti ho voluto a tutti i costi qua perché per me sei il più disturbante della tua generazione…
Y.S.: – Grazie
M.A.: – …ed è un grandissimo complimento, credimi. Alla fine, molti ti vedono strano in realtà perché non capiscono quello che sta succedendo e hanno paura di quello che non capiscono. Tu come vedi un po’ la tua vita e il tuo futuro?
Y.S.: – Io mi sono sempre visto come il bambino che non fanno giocare tipo scuole elementari, sono sempre stato in disparte e penso di rimanere in disparte e guardare sempre.
M.A.: – Be’ non è male avere un punto di vista… ti aiuta il fatto di buttare le cose in musica o semplicemente è un gioco anche questo?
Y.S.: – No dai mi aiuta abbastanza. Poi ci gioco anche, ovviamente.
M.A.: – Senti, mi ricordi, tra tutti quelli che fanno trap, sei l’unico che mi ricorda veramente qualcosa di punk. Le linee vocali che usi nella “Danza dell’ambulanza” o “Padre Satana” sono in mezzo alle note un po’ come il cantante dei Public Image Limited usava. Lo conosci questo gruppo, i Public Image Limited?
Y.S.: – Mmmm no
M.A.: – (Ride) Grande! Meglio ancora. Senti, tu ti senti rappresentante della tua generazione o non te ne frega un cazzo?
Y.S.: – No, non me ne frega un cazzo (ride)
M.A.: – (Ride) Va bene! Young Signorino (applausi)
Ecco la lezione che dobbiamo imparare da questa storia:
– per la prima volta nella storia una forma di ribellione giovanile – quella di Manuel Agnelli che per motivi generazionali è anche la mia – si è fatta superare da una contro-forma di ribellione così ribelle che ha fatto il giro. A quelli come me e come Manuel Agnelli urta moltissimo il fatto che ci sia gente giovanissima a cui non interessa quanto siamo stati trasgressivi noi anziani negli anni 80 e 90 e, dopo aver fallito cercando di insegnare loro come si fa a essere giovani, ora cerchiamo di unirci a loro cercando di fargli capire che, a loro modo, sono dei punk come noi e loro, essendo molto più punk di noi ma a loro modo, hanno una così scarsa considerazione di noi che nemmeno si privano del tempo necessario a mandarci affanculo (in questo caso un minuto e trentadue secondi di intervista)
– dovremmo finire di far rientrare questa cosa che fa Young Signorino e quelli con la faccia tutta impiastrata come la sua nella macro-categoria della musica rock intesa come espressione del disagio giovanile. Ma non perché quando noi eravamo giovani c’erano i CCCP o, peggio, i Clash e per lo meno noi sapevamo suonare la chitarra. Questa cosa che fa Young Signorino non ha ancora un nome perché c’è la musica ma anche i porno su internet ma anche gli all-you-can-eat cinogiapponesi ma anche il governo lega-cinque stelle ma anche le storie di Instagram ma anche l’analfabetismo di ritorno ma anche i genitori che si parlano addosso su Facebook e non conoscono i loro figli, figuriamoci uno come Young Signorino
– per il motivo di cui sopra, quelli come me e quelli come Manuel Agnelli dovrebbero togliere il disturbo mediatico o, per lo meno, mantenerlo sui canali dedicati a quella fascia di anziani che amano il rock perché portare Young Signorino in una trasmissione dove prima suoni “The Killing Moon” degli Echo & The Bunnymen (tornato alla ribalta, come dice Agnelli, grazie a certe serie tv) con le Savages è come mettere le forme nei buchi sbagliati in uno di quei giochi per bambini. Sono cose diverse ma nel senso che hanno proprio una natura differente, non so se mi spiego (è un po’ come ballare di architettura, per dire). Young Signorino a Ossigeno è come portare il fenomeno da circo a un pubblico di élite ma in una situazione in cui il fenomeno da circo è miliardario e pieno di figa e l’élite porta gli hamburger in bicicletta con turni da schiavitù d’altri tempi e guidata da un’app più intelligente di tutti noi (di me di sicuro), però si consola ascoltando musica e criticando una cosa che non si sa ancora cosa sia utilizzando i parametri della musica
– quindi, per evitare di fare ulteriori figure di merda, invito me stesso, Manuel Agnelli e tutti i trasgressivi della nostra generazione a rientrare nella nostra bolla fatta di Radiohead e di Public Image Limited tanto tra un po’ saremo finalmente morti tutti e state tranquilli che Young Signorino e quelli come lui ci metteranno in una fossa comune, culturale ancora prima che nell’accezione della sepoltura che ci meritiamo.
come rendere breve una storia lunga
StandardIl fatto è che a quelli del New Romantic, a un certo punto, deve avergli preso un po’ la mano. Giustificati della narrazione di Adam Ant, il cui primato nell’immaginario collettivo circa l’avvenenza dei pirati verrà solo spodestato venti anni più tardi da uno del calibro di bonaggine di Johnny Depp (ricordiamo peraltro che i costumi di scena di “Prince Charming” sono in esposizione permanente al Victoria and Albert Museum di Londra) ogni gruppo, dal punto di vista del look, ha iniziato a fare il cazzo che ha voluto. Non stupisce quindi vedere gli Spandau Ballet nel video di “To Cut a Long Story Short” conciati così, e la gonna di Steve Norman mi sembra l’ultimo dei problemi.
Chi ha seguito le cose sin dai primi anni 80 sa benissimo che il dualismo Duran Duran vs Spandau Ballet, cruento tra le fan per l’iconicità estetica, è stato pressoché inesistente dal punto di vista musicale. Pur superiori dal punto di vista tecnico, gli Spandau Ballet hanno virato verso il pop più commerciale sin da “Diamond”, il secondo album, mentre per la band di Simon Le Bon nel futile quanto evanescente “Seven and the ragged tiger” si percepiva ancora qualche eco del loro passato new wave (tra virgolette e all’acqua di rose, ma comunque dignitosissima) e comunque non vorrei dare il via a un flame. Ognuno si tenga stretta la propria opinione, tanto di quei tempi siamo qui a rimpiangere persino gli Alphaville.
Occorre ammettere però che un pezzo straordinario come “To Cut a Long Story Short” (un equivalente nell’opposta fazione potrebbe essere “Careless Memories” dall’album omonimo, ma ad accostare i brani proprio non c’è storia) ce l’hanno solo Tony Hadley e soci.
Cosa ha di ineguagliabile il primo singolo degli Spandau? È veloce. Ha un loop di synth che dura quanto la lunghezza del pezzo e che vi sfido a trovare qualcosa di simile nella letteratura musicale di tutti i tempi. Ti rimane in testa malgrado non ci sia un vero ritornello dal momento che la strofa, così invadente e con quel riff artificiale sotto, normalizza in eccesso la dinamica del brano e quando subentra il cambio, con il ritmo che si spezza nel pattern di tamburi, l’ascoltatore non vede l’ora di riprendere la marcia serrata, marcata dal sintetizzatore. Tony Hadley canta da dio. Dal vivo il pezzo spacca, anche in tempi non sospetti. Mantiene un approccio rock pur essendo palesemente synth-pop. Vi basta?
Ed è un vero peccato che gli Spandau Ballet, subito dopo, si siano dati alla melensaggine e che proprio quella merda da MTV li abbia resi famosi. Ascoltando “Lifeline”, “Gold”, “I’ll Fly for You”, per non parlare di “Through the barricades”, è difficile riconoscere la stessa band che, in quel primo videoclip, si atteggiava a comparse degne di Braveheart.
In pochi si ricordano delle loro movenze new romantic e dell’attitudine barocca degli esordi, un momento storico in cui per colpire il pubblico era sufficiente trascorrere dal parrucchiere altrettanto tempo di quello passato in sala prove. “To Cut a Long Story Short”, come certi singoli dei nemici Duran Duran, è la prova che nei primi ottanta chi suonava lo faceva anche per divertirsi sperimentando, ma con meno rigore di tutto ciò che c’era stato prima.
musiko, la rivincita dei giochi da tavolo
StandardDopo tre decenni di dittatura ludica digitale, finalmente gli appassionati delle battaglie in scatola, come vengono amorevolmente definiti dai detrattori dei passatempi unplugged, possono riprendere con orgoglio a dichiarare il loro standard di divertimento. Il successo che Musiko, il nuovissimo e geniale gioco da tavolo lanciato dalla multinazionale del gaming Giochisfarzosi, ha sorpreso infatti un po’ tutti. Nell’era di Minecraft e in un momento in cui non c’è millennial under 18 che non imiti uno di quei sciocchi balletti di Fortnite, nessuno si sarebbe mai aspettato che il trend virasse verso un passatempo senza computer e Internet. Il fatto è che Musiko va a stuzzicare dal vivo una delle passioni che giacciono sopite nel DNA dei giovani e che la sovraesposizione ai contenuti musicali, generata dalla disponibilità senza soluzione di continuità di sistemi di approvvigionamento gratuiti come Youtube e Spotify, aveva banalizzato. Al contrario, in Musiko sono i giocatori che devono affermarsi con i loro generi preferiti.
Quali sono le regole? Il piano di gioco di Musiko è la pianta di una metropoli suddivisa in quartieri che, all’inizio della partita, vengono assegnati a una banda giovanile. Ogni giocatore può scegliere tra dark, punk, metallari, tamarri, skinhead, fighetti che studiano musica classica, b-boy, sfigati ascoltatori di progressive, giovani vecchi-dentro fan dei cantautori italiani, discotecari, rockabilly, ignavi a cui sta bene tutto e che comprano persino le compilation di Sanremo e i musicisti jazz (sempre i soliti quattro gatti che se la suonano e se la cantano).
Ogni banda giovanile è rappresentata da una pedina verosimigliante a un tipico rappresentante del gruppo in questione. Attraverso il lancio dei dadi, si sceglie di invadere il quartiere limitrofo con un numero a scelta di artisti/band/cantanti tra quanti se ne hanno a disposizione, rappresentati da una stella. Ognuno di questi elementi di assalto è dotato ovviamente di un punteggio che fa riferimento al suo valore artistico che, nello scontro con un artista rivale, può fare la differenza. Facile fare un esempio: se ho i dark e invado il quartiere degli ignavi attaccando con la stella che rappresenta i The Cure la stella che rappresenta Anna Tatangelo, è chiaro che, grazie al mio punteggio determinato dal valore della band di Robert Smith, avrò la meglio e potrò contribuire alla conquista del quartiere. L’obiettivo finale è sbaragliare le bande giovanili nemiche assicurandosi l’intera città e imponendo il genere musicale professato attraverso l’affissione di poster di concerti dei propri beniamini, vietando il commercio e la diffusione di tutto il resto della musica e ridefinendo i parametri di buon gusto secondo il proprio.
La febbre di Musiko sta dilagando e non sempre è facile trovarne una confezione sugli scaffali dei negozi e dei supermercati. Siamo già alla quinta edizione e le scatole continuano ad andare a ruba. Su Amazon e presso gli altri portali di e-commerce non sempre il gioco è disponibile e, come avviene per le mode di tendenza, si è già sviluppato un mercato parallelo in cui venditori non ufficiali chiedono cifre di molto superiori al prezzo di partenza. Gli ideatori di Musiko stanno già pensando a una versione aggiornata del gioco con l’introduzione di nuovi protagonisti del disagio giovanile, a partire dai grunge, gli emo, i fan dell’indie italiano e gli impresentabili seguaci della trap con le loro tute da ginnastica sottomarca. A presto, quindi, con Musiko 2, il gioco da tavolo in cui è la musica a essere la protagonista.
la copia e l’originale
StandardShazam è l’app decisiva per i consumatori ossessivi e compulsivi di musica perché – inutile che ve lo spieghi – ci permette di dare un titolo e un autore all’istante al brano sconosciuto che stanno passando alla radio, come sottofondo in un documentario alla tele, in un negozio del centro commerciale mentre siamo in attesa che il nostro partner si provi decine di capi di abbigliamento durante i saldi, che poi è la situazione meno frequente perché la musica che trasmettono nei negozi fa quasi sempre cagare. Come funziona è chiaro a tutti: Shazam registra quello che percepisce e lo confronta con un database incommensurabile, quindi ci restituisce il suo responso. Il punto è che, come sapete tutti, dall’invenzione dei campionatori e dall’avvento dei samples nel pop – con il rap e l’house music, siamo verso la fine degli anni 80 ma potrei sbagliarmi – si è largamente diffusa la tecnica di rubare parti strumentali di brani per riciclarli in nuove canzoni. Questi inserimenti possono essere camuffati ed elaborati oppure utilizzati tali e quali l’originale, talvolta come vera e propria citazione più o meno dotta. Mi sono sempre chiesto, per farvi capire, come si comporti Shazam con le primissime battute di “Safe from harm” dei Massive Attack, in cui il campionamento di “Stratus” di Billy Cobham è nudo e crudo. Quale dei due brani riporta? Ieri, in auto, ascoltavo Lifegate Radio, il cui palinsesto è praticamente una riproduzione random dei miei svariati tera di musica accumulata nel tempo, fatta eccezione per i pezzi blues, quando è partito un pezzo che, dalla batteria iniziale, sembrava proprio “I need you tonight” degli Inxs ma c’era qualcosa che non mi tornava. Un sentore confermato dal cantato iniziato da lì a poco, completamente differente. Ho attivato così all’istante Shazam che, però, mi ha restituito proprio, come risposta, il titolo della celebre hit della band australiana, tratta da “Kick”. Ho pensato allora ai limiti che una tecnologia di questo genere può avere. Rientrato a casa, mi sono messo alla ricerca su Youtube e ho avuto il verdetto che, però, in parte mi ha smentito. Il pezzo in questione era “Mediate”, sempre degli Inxs, che è la traccia che nell’album “Kick” segue “I need you tonight” e che inizia proprio con la coda del singolo, in cui è presente lo stesso caratteristico pattern di batteria. Quindi niente, la morale è che ci sono modi davvero creativi per buttare via il proprio tempo facendo cose inutili e, soprattutto, scrivendo post a riguardo.