La maggior parte della musica pop può essere ricondotta a un numero ridotto di macro-categorie:
– le canzoni sulle quali si può cantare più o meno agevolmente “With or without you”
– quelle costruite sugli accordi di “What’s up” delle 4 Non Blondes o sull’omologa “Don’t worry be happy”
– le melodie che stanno sopra “Clocks” dei Coldplay
– e una categoria supplementare riservata alle colonne sonore che hanno una struttura armonica e una successione di accordi molto simile all’inno sovietico.
In un passato ucronico derivante da una precedente visione distopica del futuro è il 1978 ed è un gran casino perché, nel presente che ne consegue, si scontrano le peggiori condizioni in cui possa crescere un bambino in una città di provincia del nord. Il centro storico è un vero e proprio ghetto fatiscente, un agglomerato di case diroccate sopravvissute a stento dai bombardamenti della seconda guerra mondiale in cui risiedono le famiglie più povere e disagiate della società di origine meridionale i cui figli – ampiamente esposti a violenza e droga – si riuniscono in bande minorili dedite alla vita di strada. Dal 2019 invece arrivano direttamente la musica trap e la moda delle tute da calcio dilettantistico Givova, Legea e Errea che presto diventano l’outfit standard antesignano del poveraccismo aggressivo del duemila e rotti. Ferdinando, un giovanissimo studente di organo iscritto a una scuola di musica che ha la sede a ridosso di quel pericoloso quartiere, attende che qualcuno, da dentro, apra il cancello esterno e gli consenta di partecipare alla lezione settimanale di teoria e solfeggio con il direttore della locale corale di canto gregoriano. Insiste suonando il citofono mentre, con l’altra mano, regge una borsa in nylon quadrata decorata con il logo di un negozio di dischi cittadino, contenente i primi due volumi e l’appendice al secondo del metodo Pozzoli. Si chiede per quale motivo la segretaria nonché receptionist dell’istituto musicale non si trovi al suo posto per assolvere al suo compito quando un gruppo di ragazzini si riversa all’altro capo della piazza da uno dei bui vicoletti che ne permettono l’accesso. Ferdinando li conosce tutti: sono pluri-ripetenti della sua scuola media, esemplari figli di una fase storica in cui ancora si boccia senza scrupoli nella scuola dell’obbligo imponendo a studenti di sedici o diciassette anni – totalmente inadatti all’istruzione tradizionale – di completare il ciclo di studi inferiori ripetendo più volte ogni classe. Da un radioregistratore portatile, in mano al gregario del capo della banda, fuoriescono le graffianti quanto incomprensibili parole di una canzone di Speranza. Ferdinando torna a premere ostinatamente il campanello sperando che il cancello si apra e lo inghiottisca nella salvezza, prima che la furia di quell’agglomerato di bulli si avventi su di lui.
In un momento in cui la musica dava il meglio di sé, David Bowie ha scelto di andare in controtendenza e di arrangiare i suoi brani con uno stile vistosamente inadeguato al periodo storico. Chi ama Bowie a prescindere alzerà la manina – prima di abbandonare questo blog – sostenendo che il valore artistico del Duca Bianco era proprio anche quello di sapersi mettere in discussione e riuscire a re-inventarsi e sfoderare una maschera pop in un momento in cui, se avesse spinto sui registri post-punk di “Scary Monsters (and Super Creeps)”, avrebbe reso felici per sempre una pletora di darkettoni come il sottoscritto. Invece, imprevedibile come solo lui sapeva essere, nell’83 si mette nelle mani di Nile Rodgers degli Chic e passa sull’altra sponda, quella ben più remunerativa e appagante dello show business (anche se stiamo comunque parlando di Bowie, quindi a un livello ineguagliabile).
Sapete come funziona Bowie, vero? La sua carriera è divisa in periodi artistici piuttosto eterogenei. Il momento di “Let’s dance”, che è quello più disco e che prelude al “Serious Moonlight Tour”, ha imposto il ricorso a musicisti che poi, alle prese con il periodo berlinese o quello glam-rock, hanno giustamente lasciato la loro impronta. Questo per dire che, seguendo il programma di Morgan in tv ieri sera, ho rivisto dopo tantissimo tempo gli estratti dal film realizzato durante il tour in questione. La sezione ritmica (Carmine Rojas al basso e Tony Thompson alla batteria, che avevano già suonato in “Let’s dance”) risulta totalmente fuori luogo in brani come “Heroes” e in “Life on Mars?”, per non parlare del resto, mentre “China Girl” e gli altri brani dell’album in studio da cui sono tratti sono pienamente in linea. Tenete conto che possiamo lanciarci in simili considerazioni perché arriviamo direttamente dall’esperienza di una vetta come “Blackstar”, album che definire sperimentale è riduttivo e nel quale si Bowie si è avvalso di gente dal gusto sopraffino e soprannaturale come Mark Guiliana.
Mi trovo quindi d’accordo con Morgan quando dice, come si legge qui
Se fosse stato nelle mie facoltà avrei sicuramente optato per trasmettere un concerto da una tournée degli anni novanta, magari Outside o Earthling tour, perché avremmo visto un David Bowie molto più moderno e valido per i nostri tempi, molto più inedito, e se mi permettete anche più interessante dato che personalmente, conoscendo tutta la sua storia musicale, ritengo che dal vivo l’apice si trovi proprio in quella decade dove c’è stata molta innovazione ma anche molta maturità. Bowie ha fatto dei capolavori negli anni 90 e 2000 e ancora siamo qui a parlare di Ziggy che, per carità, è una cosa storica e mitologica, ma c’è molto altro se proprio vogliamo ‘raccontare’ chi è stato veramente David Bowie.
Comunque, se avete visto il suo programma, ammetterete che Morgan ha eseguito una delle migliori cover di “Ashes to Ashes” in circolazione, pezzo difficilissimo e sghimbescio che difficilmente si riesce a rendere con lo spirito con cui è stato composto senza cadere in inutili manierismi strumentali. Se lo avete perso, potete recuperare su RaiPlay.
Se avessi il potere assoluto imporrei a tutte le band di tutto il mondo di inserire obbligatoriamente come ultima traccia del lato B dei loro dischi, in chiusura dell’ascolto, “Decades”.
La distanza tra il giorno di oggi e l’uscita dell’album di esordio dei Joy Division è la stessa che passa tra il 1900 e l’entrata dell’Italia in guerra. Le date della liberazione o dello scoppio del conflitto più cruento del novecento le tiro in ballo spesso per rendermi conto di quanto tempo è trascorso tra un fatto e un altro. Per esempio io sono nato a tanti anni di distanza dal 1945 quanti ci separano oggi dal 1997 che poi è un anno dietro l’angolo, basta allungare il braccio e lo si può ancora toccare con il dito, fresco di stampa e di avvenimenti che ci portiamo ancora dentro proprio come il 25 aprile più famoso della storia. Quarant’anni sono una bella fetta di secolo e la cosa sconvolgente è che il disco con la copertina più iconica della storia della musica vive e lotta come allora sullo scaffale in cui tutti i 33 giri della mia collezione aspettano che io li estragga dal loro posto per scatenare per l’ennesima volta la magia della puntina sul vinile. Leggerete quindi milioni di aneddoti sulla storia di “Unknown Pleasures” in questo anniversario e se volete sapere il mio sappiate che preferisco di gran lunga “Closer” ma non ditelo troppo in giro. Vi segnalo solo questo articolo di Giulia Cavaliere pubblicato sul Corriere online in cui, a proposito dell’album, si dice che
“I pezzi scritti e finiti nell’album erano già stati suonati live molte volte nella loro forma più pura, più calda, più rock e insomma meno algida: solo in seguito sono diventati vere e proprie tracce su cui sperimentare con registrazioni localizzate fuori dalla sala d’incisione, campionamenti, sovraincisioni e un utilizzo dello spazio e della tecnologia funzionale alla resa voluta da Martin Hannett.
In realtà i campionatori non erano ancora stati inventati o, meglio, c’era in giro il mellotron – vera e propria arma di distruzione di massa del progressive – a cui si faceva ricorso per riprodurre suoni ma in “Unknown Pleasures” non è stato mai usato. Il Fairlight (quello di “Owner of a lonely heart” degli Yes, per intenderci) doveva ancora arrivare a portare i suoi suoni artificialissimi nelle hit degli anni ottanta. Comunque non importa. “Unknown Pleasures” resta una pietra miliare dell’evoluzione dell’umanità.
Ogni volta è sempre la stessa storia: mi riprometto di stirare pochi capi più stesso e poi finisce sempre che mi trovo tonnellate di roba nell’armadio perché non lo faccio mai. Così devo farmi coraggio e gettarmi a capofitto in una full immersion con ferro e caldaia. Monto l’asse proprio davanti all’impianto stereo e, tra una camicia e una di quelle magliette acquistate in un negozio di una catena fast fashion tessuta (per modo di dire) in uno di quei materiali che, appena gli posi il ferro sopra, la piastra non si muove di un millimetro e si spande quel puzzo di fibra artificiale sbruciacchiata, metto dischi a raffica. Inizio da quelli che non ascolto mai e poi finisco, come da tradizione, con il vinile di “OK Computer” che è un disco che, nel formato analogico, non ha tanto senso considerando che in un caso ci sono solo due pezzi su una facciata ed è tutto un andare avanti e indietro dal giradischi. Ma chi se ne importa: l’album è talmente bello che lo ascolterei anche dovendo girare la facciata solco dopo solco. L’ultimo pigiama – perché l’ottanta per cento dell’abbigliamento da stirare è composto da pigiami di mia moglie e di mia figlia – va stirato, come da tradizione, sulle note di “No Surprises” perché da sempre funziona così. Mi piace seguire i riti proprio per evitare sorprese.
Non c’è storia più triste di “Bitter Sweet Symphony” dei Verve. Ve la riassumo brevemente: i Verve compongono un pezzo della madonna e poi, per fare i fighi, gli mettono sotto il campionamento di “The Last Time” dei Rolling Stones eseguito dalla Andrew Loog Oldham Orchestra. Nel 1997 siamo ancora in piena anarchia per la gestione dei copyright dei sample altrui, tanto che non si capisce ancora se si debbano considerare tributi o furti belli e buoni. Inutile dire l’orientamento in proposito di Mick Jagger e Keith Richards che puntano i piedi tanto che il successo mondiale della hit tratta da Urban Hymns non rende una lira al povero Richard Ashcroft, una sorta di contrappasso per aver preso a spallate il mondo nel video del brano con una sfacciataggine che non ha eguali nella letteratura dei videoclip di tutti i tempi. Ne approfitto per dire che io, da ragazzo, ho avuto un paio di scarpe proprio come quelle che conducono Richard Ashcroft per le strade di Londra. Il punto è che Richard Ashcroft poi non se l’è passata tanto bene – e comunque nemmeno prima di sfondare con il clone dei Rolling Stone non è che fosse tutto rosa e fiori, anzi c’erano spine che pungevano irrimediabilmente i membri del quintetto inglese – e di sicuro i soldi dei diritti della sua canzone più famosa gli avrebbero fatto comodo. Sembra però che un paio di settimane fa finalmente Jagger e Richards si siano convinti del fatto che dividere i proventi con chi se lo merita, anche solo campionando un tuo pezzo per utilizzarlo con creatività come successo ai Verve, è cosa buona è giusta e fa bene al mondo. Soprattutto fa bene al rock.
Sono stato a New York verso la fine degli anni novanta e all’ingresso del MOMA c’erano delle postazioni multimediali dalle quali si potevano inviare le cartoline virtuali personalizzate del museo. Si trattava di un gadget elettronico abbastanza diffuso in quell’embrione dell’Internet che stava per esplodere. Bastava scegliere il soggetto, scrivere l’indirizzo del destinatario e del mittente, si componeva il testo e si premeva il tasto per l’invio. In rete esistevano numerosi siti che offrivano quel tipo di servizio, molto sfruttato per ricorrenze come il Natale o i compleanni dei propri cari. L’Internet era in quella fase in cui nessuno immaginava dove si stesse andando a parare e quindi si poneva come la versione digitale della realtà al di qua dello schermo. Le cartoline, il villaggio globale, l’agorà telematica in cui, per forza di cose, si parlava ancora uno per volta e con latenze oggi impensabili per un ambiente basato sul web. Mi sono venute in mente le cartoline del MOMA perché la mia edizione di “Wish you were here” originale del 1975 è priva della cartolina che ritrae l’uomo che si tuffa con quell’effetto del riflesso nell’acqua che, ai tempi, era straordinario tanto quanto il tizio in copertina che prende fuoco con una stretta di mano. Probabilmente la cartolina – un formato vero e proprio con tanto di spazio sul retro per la compilazione e l’affrancatura – è finita appiccicata su uno dei vari diari di Linus che si sono avvicendati nella mia vita da studente o magari l’ho davvero scritta e spedita a qualcuno, chi se lo ricorda. Mi piacerebbe però averla perché chi colleziona dischi ci tiene all’integrità dei pezzi della sua raccolta. Non che abbia intenzione di vendere un disco come “Wish you were here”, però il fatto che sia incompleto mi trasmette un senso di disagio che non so spiegarvi. Il fatto è che a certe cose non si riesce a resistere. Ho ricevuto ieri l’altro il disco di Liberato che, come unico extra, contiene l’adesivo con il logo del cantante. Mentre spacchettavo il 33giri è passata vicino mia figlia – fan quanto me – e non ho resistito a darglielo in dono. Ho capito così che, per la cartolina dei Pink Floyd, dev’essere successo lo stesso. Il collezionismo non va d’accordo con la gentilezza. Ciò non toglie che tornerei indietro nel tempo solo per impedire a un’intera generazione di disfarsi della cartolina dell’uomo che si tuffa di “Wish you were here”.
A ogni disco dei The National ci chiediamo quale sia l’ingrediente segreto o la componente soprannaturale che rende fuori discussione, per la band di Matt Berninger, la possibilità di comporre un pezzo brutto, una strofa noiosa, un ritornello banale, un arrangiamento fuori luogo, un passaggio inappropriato, una sequenza di note incapace di toccare qualche corda del nostro substrato emotivo.
Forse nessuno, prima di loro, aveva mai provato fare una band mettendo insieme due coppie di gemelli. E, a voler impostare una fredda analisi, non è difficile isolare qualcuno di questi fattori di successo che ne derivano (sempre che per i The National si possa parlare di successo). Bryan Devendorf è un batterista unico che suona il suo strumento con un approccio totalmente al servizio del brano, in un modo completamente fuori da ogni schema pur conferendo alle canzoni del gruppo una matrice dalla compattezza inequivocabile. Per farvi capire, provate a sedervi dietro i tamburi di “You Had Your Soul with You”, la prima traccia di questo di nuovo disco, e immaginate se gli altri membri della band dovessero sviluppare le loro parti suonando sopra a tracce di batteria ordinarie. Cercate quindi di scorporare, dalle linee di batteria di Bryan, il basso del gemello Scott Devendorf: vi sfido a incastrarlo altrove. Avere una sezione ritmica omozigote non è da tutti.
Stesso discorso per i due Dessner, così indistinguibili e per di più con l’aggravante che, con un livello così estremo di polistrumentismo, risulti impossibile capire chi suona cosa e quando e perché. Quanto a Matt, c’è ben poco da aggiungere se non che si è tagliato i capelli ed è rientrato in pieno nel personaggio che conoscevamo agli inizi della storia. Siamo alle solite: parte la musica e, quando Matt inizia a cantare, è come la fiammella che diventa vampata e incenerisce ogni nostro tentativo di resistenza.
Dopo vent’anni di attività i The National sono ancora una cosa sola, ogni volta con l’aggiunta di qualche extra: sezioni di fiati, archi, collaborazioni, cori, inserti di elettronica. Provate a osservare in controluce prima l’album omonimo d’esordio – ormai risalente al 2001 – e dopo “I Am Easy to Find”. Con molta probabilità si delineerà la stessa figura, rispettivamente in versione 256 colori nel primo caso e, nel secondo, con una definizione 4K. Già da allora si percepiva la perfezione alla quale la band mirava e, con il nuovo disco fresco di stampa, l’obiettivo è stato finalmente raggiunto. Potete chiedere a chiunque: i The National, oggi, costituiscono una pietra miliare della storia della musica americana. Quando al termine del tour di “Trouble Will Find Me” si era diffusa la voce che si sarebbero presi un periodo di pausa, il mondo aveva avviato la procedura di autodistruzione.
Il problema è che, se avete visto il film di “I Am Easy to Find”, la vita si precipita verso la fine quanto un cortometraggio da trenta minuti circa e i The National sono già all’ottavo album (nono, se consideriamo “Cherry Tree” che, anche se solo con i suoi sette brani, non è da meno degli altri) e al momento non si percepisce un segno del tempo nella loro musica per fighetti di mezza età. Un granello di polvere. Una crepa. Non c’è un filo di stanchezza, una ruga, una di quelle macchie che da piccoli contemplavamo stupiti sulla pelle dei nostri nonni e che ora ritroviamo sorprendentemente sulle nostre mani, di colpo.
I The National sono una sorta di highlander in grado di vincere sull’eternità con lo stesso vigore, con sempre maggiore profondità, con trovate sommesse ma in grado di trasformare la loro arte in qualcosa sempre uguale a se stessa, in un modo sempre diverso. Quante volte, ascoltando i loro dischi, abbiamo provato la sensazione di trovarci immersi nella colonna sonora della nostra vita. Quante volte i loro album ci hanno fatto sentire filmati da uno di quei registi americani che inquadrano le persone da sole, minuscole sul grande schermo, con intorno i chilometri di spazi sconfinati. Tutte cose che da noi non funzionano: troppa antropizzazione, troppa storia antica, troppa cultura che parla per noi, spazi angusti e troppa poca natura, ridotta all’osso.
Ma, finalmente, il sogno si è avverato. “I Am Easy to Find” esce insieme a un cortometraggio frutto della collaborazione con il regista Mike Mills. Qualcuno ha quindi inventato una storia sulla quale i The National hanno inventato la loro per raccontare in musica le sensazioni provate da una donna, lungo la sua vita, con l’aiuto dei sottotitoli. La protagonista, interpretata da Alicia Vikander, è l’attrice che resta sempre uguale a interpretare se stessa: appena nata, adolescente, adulta e nonna. Il finale è inevitabile: un tripudio di ineluttabile poesia al cospetto della quale anche i più coriacei sono costretti a sciogliersi in lacrime.
E Alicia Vikander, che poi è la stessa ragazza sulla foto di copertina del disco, è anche la sintesi di tutte le voci femminili chiamate ad arricchire “I Am Easy to Find”. Le frequenze baritonali di Matt fanno vibrare la pancia e quelle abbondantemente sopra il do centrale di Gail Ann Dorsey (la bassista di Bowie), Lisa Hannigan, Sharon Van Etten, Mina Tindle e Kate Stables dei “This Is the Kit” elevano l’ascoltatore verso l’iperuranio. La voce di Matt è ancora quella che ti parla dentro, le ragazze protagoniste in questo disco raccontano invece tutto fuori. Ma non c’è una dicotomia maschile/femminile. Piuttosto sono due metà che si ritrovano e si riuniscono nella cellula archetipo, madre e padre che ti parlano fin da quando sei nella pancia con sotto il ritmo del battito del cuore, un trasporto dell’ispirazione della musica dei The National a una dimensione di beatitudine e definitiva, almeno fino al prossimo disco.
E quindi? Non c’è miglior consiglio che si possa dare se non ascoltare “I Am Easy to Find”, riconoscere le tracce del disco guardando il film, e poi riascoltare l’album e avanti così senza smettere mai. Le canzoni sono tutte spettacolari, forse leggermente diverse dal songwriting un po’ sbilenco e dai tempi dispari a cui ci avevano abituati con “Trouble Will Find Me” e “Sleep Well Beast” e per certi aspetti più in linea con le tinte morbide di “High Violet”, ma in una versione di una modernità senza confronti.
E comunque non date retta a quello che leggete in giro: nessuno verrà mai tacciato di ascolti ordinari o commerciali se sorpreso ad acquistare una copia (su vinile è una vera e propria opera d’arte) di questa meraviglia, malgrado i The National occupino da tempo un posto ai vertici della musica di tutti i tempi.
Anzi, i The National lo fanno apposta a non mettere hit nei loro dischi per rimanere, comunque, una indie-rock band vera, di quelle che quando vengono annunciate come headliner per una rassegna di concerti come l’edizione dello scorso anno di Milano Rocks, la pagina Facebook degli organizzatori si riempie di barbari che, nel loro italiano penalizzato da passatempi insulsi, chiedono ai loro simili chi diavolo sia questa band sconosciuta. D’altronde immaginate cosa potrebbe accadere se, ai The National, capitasse a un certo punto di sfornare una “Losing My Religion” qualunque, di quelle che si sentono al supermercato mentre facciamo la spesa. Non glielo perdoneremmo mai.
Non che quando andassi in gita io sul pullman si cantasse “Quel mazzolin di fiori”, anzi forse non si cantava nemmeno. È stato proprio durante uno di quei viaggi ai tempi del liceo che Alessandra mi aveva piantato in testa le cuffie del suo walkman facendomi precipitare in un oblio d’amore che non potete nemmeno immaginare. I miei ragazzi, una quinta primaria, oggi al ritorno dal castello di Gropparello hanno invece sciorinato una sfilza di inni trap sorprendente. Neppure io che mi ritengo da sempre un ascoltatore super avanzato di musica non penso di aver avuto, a quell’età, un repertorio così corposo di canzoni da ripetere a memoria. Da Sferaebbasta a Chadia Rodriguez passando per Capo Plaza un gruppetto dei più scaltri è andato avanti per una buona mezz’ora, sfidando me e i colleghi insegnanti nei passaggi più provocatori. Sono stato al gioco, sebbene conoscessi a menadito quelle rime, senza contare che credo di intendermene abbastanza di ribellione giovanile. La cosa che mi ha stupito di più, sentendo le loro canzoni preferite a cappella – passatemi il termine – è che davvero le melodie sono tutte straordinariamente uguali. Gli artisti trap, a cavallo tra il parlato e il cantato, sviluppano solo in parte l’embrione delle loro canzoni. Come se le lasciassero solo accennate, come se terminarle fosse troppo sbatti, tanto i soldi arrivano lo stesso. Yah.