coppa Davis

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Qualunque musicista jazz o cresciuto con il mito del più inaccessibile degli stili musicali per i non addetti ai lavori in queste ore sta lavorando all’allestimento della festa per i sessant’anni che “Kind of Blue”, il disco della svolta, compie domani. Pensate a quante cose, infatti, hanno origine con quel capolavoro, e mi riferisco all’intelligenza artificiale, alla realtà aumentata, alla moderna psicanalisi, alle automobili come le conosciamo, ai viaggi sulla luna, al design generativo, a Internet, al forno a microonde, ai traduttori simultanei, al concetto di sostenibilità, alla ruota e all’energia solare. Se abbiamo un presente lo dobbiamo in gran parte al jazz modale e, in questo, Miles Davis è stato un campione. Il migliore di tutti.

ninna nanna per gli ortaggi

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Sul TG2, qualche sera fa, hanno mandato in onda un servizio sulla passione degli italiani per gli orti. Da quelli che si fanno l’orto sul balcone con qualsiasi recipiente in cui gettare i semi agli orti comunali fino ai fanatici che sfruttano ogni terreno libero anche a ridosso di strade e autostrade e potete immaginare la qualità di quello che cresce. Il punto è che la musica di sottofondo del servizio sugli orti trasmesso dal TG2 era “Lullaby” dei Cure. Mi sono subito precipitato a rileggere il testo della canzone per trovare il nesso tra le immagini e il sonoro. Forse i ragni ma mi sembra molto strano. Forse Robert Smith ha un orto in giardino e si diletta con pomodori e zucchine. Oppure esistono tecniche per migliorare la resa delle coltivazioni che prevedono la diffusione di musica post punk o dark. Altro che la rotazione. Però si tratta di una teoria che non regge: se così fosse, casa mia sarebbe invasa dalla vegetazione e il mio condominio sarebbe conciato peggio della foresta amazzonica. Non resta che ammettere che chi ha scelto “Lullaby” dei Cure per commentare riprese di orti urbani si è mosso un po’ a cazzo. Ma siccome non voglio passare per uno che critica e basta, ecco il mio consiglio agli amici del TG2. La prossima volta che parlate di orti, provate con questa.

giochi d’acqua

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L’Internet è piena di tracce di gesti encomiabili perché la narrazione del reale, sul web, premia gli eccessi di bene e di male più di qualunque altro esistente mezzo di comunicazione. Non si sono sprecati i clic sulla notizia dell’attaccante della nazionale brasiliana che ha offerto a un suo giovane fan, uno dei milioni di bambini poveri nati e cresciuti nelle favela che ce la mettono tutta per diventare protagonisti di una delle favole a lieto fine dei grandi campioni del calcio mondiale, di scambiare i reciproci corpi per consentire al piccolo atleta di sparare il pallone alle spalle del portiere avversario nel rigore decisivo per la finale della coppa. Il bambino ha ammesso di non aver provato nessun timore trovandosi all’improvviso da solo di fronte al numero uno dell’altra squadra, al cospetto di decine di migliaia di tifosi sulle gradinate e a milioni di spettatori in tv. Ha calciato un sinistro potente e tutto il resto è venuto da sé.

Io me la sarei fatta sotto dalla paura ma non faccio testo. Sono dell’idea che saremmo molto più disinibiti nei panni degli altri e in pubblico se nella vita ci fossero le risate registrate come nelle sitcom della tv. D’altronde a chi non sembra di sentire palpabilissima la presenza dello scherno altrui, mascherato da divertimento, il giorno in cui rientriamo dalle vacanze. L’area antistante all’imbarco dei traghetti si allaga per la pioggia torrenziale in condizioni climatiche pensate affinché le nostre responsabilità ci aderiscano nel modo più ergonomico alla schiena in modo da farci sentire distintamente il fiato sul collo. Tutto questo mentre, a casa, i cespugli di peli di gatto arrotolati insieme alla polvere rotolano spinti dal vento pre-autunnale come in un western dal budget limitato per gli effetti speciali. Così ripensiamo al modo in cui, spavaldi e fiaccati dal gran caldo, abbiamo affrontato quel lontano ultimo giorno di luglio. Era il 31 e, da qualche parte, davano quella puntata di “Friends” in cui si sente “Untitled” degli Interpol.

un orgasmo di synth

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Quel periodo della musica italiana in cui ci davano dentro con i temi suonati con il sintetizzatore è una vera età dell’oro per chi ama la musica elettronica. Per farmi capire, da sempre convivo con questa curiosità: perché il tema di un brano così sensuale come “L’importante è finire” di Mina (o, meglio, di Cristiano Malgioglio) non è stato inciso con un sassofono? Provate a chiudere gli occhi e a esercitare mentalmente la proiezione. Eppure, correva l’anno 1975, qualcuno ha provato a guardare in avanti e quel qualcuno è stato Alberto Baldan Bembo, fratello di Dario, che ha eseguito la linea portante del successone di Mina con uno strumento elettronico e analogico, probabilmente di marca Moog. Non ho dubbi sul fatto che questa decisione abbia influito notevolmente al successo del brano. Con uno strumento a fiato, di certo più caldo e impegnativo, la canzone avrebbe preso una piega fin troppo melensa mentre è chiaro che la finalità del testo fosse quella di comunicare la bellezza dell’amplesso anche avulsa dal sentimento. Sono in molti i teorizzatori dell’accezione di finire = venire e che, appunto, la causa dello scandalo del pezzo (censurato dalla RAI eccetera eccetera) fosse proprio quello che una donna potesse godere dei piaceri della carne indipendentemente da una prestazione ai fini della maternità. Un sax avrebbe dato il colpo di grazia a questa verve di freddezza attribuita a un essere umano di genere femminile che ha le carte in regola per divertirsi con il corpo anche senza tutti gli orpelli teoretici dell’accoppiamento. Il synth invece è l’emblema della freddezza emotiva e, sotto la voce e il corpo di Mina, ci sta da dio.

d’altronde la luna non ci ha ispirato granché

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Io nello spazio ci avrei mandato i Pink Floyd ai tempi proprio perché ci hanno svelato il dietro le quinte del nostro amato unico satellite. Perché va bene la luna assassina, quella triste, quella che bussa, quelli che guardano il mondo dall’oblò, quelli che fanno passi da gigante camminandoci sopra, quelle che ne prendono la tintarella, che si riparano nell’ombra che la sua luce riflessa ci proietta sul suolo e che non la vogliono mica, l’uomo che ci è arrivato e quello che viene da lì. La luna ha un lato b che non si vede. Un lato oscuro con un prisma che separa i colori dalla luce. Una storia che ha avuto dei suoi cantori e suonatori e che noi ce li immaginiamo proprio così, assorti in una specie di concerto a Venezia, magari meno problematico, ma con Gilmour, Waters, Mason e Wright che suonano l’album musicale più importante della storia dell’umanità da un palco montato su un asteroide e con un impianto stellare – e lo so che nello spazio non si propaga il suono ma chi se ne importa – e la musica è così bella che vengono anche dagli altri universi.

undici e i cure

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La cosa più bella vista oggi (da qui).

quella voglia che viene in estate di ascoltare i Sigur Ros

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Ecco una nuova tentazione che arriva dal mercato delle ripubblicazioni in vinile. È uscita una nuova edizione di “Ágætis byrjun” che è uno dei dischi più belli dei Sigur Ros. Li ascolto sempre con piacere, e a un loro concerto sono particolarmente legato. Il 25 giugno del 2003 hanno suonato dal vivo a Villa Arconati a Bollate. A quel concerto hanno assistito anche mia moglie e mia figlia, che da due mesi stava crescendo nella sua pancia. Ogni tanto nelle sue playlist ci infila “Svefn-g-englar” o “Hoppipolla” e, quando mi accorgo che le ascolta, mi piace pensare che magari di quell’esibizione le sia rimasta qualche reminiscenza. Avevo scritto persino una recensione di quel concerto per una webzine con cui collaboravo all’epoca. Sentite qui:

Ecco la corretta procedura per l’esecuzione di una seduta di osservazione comportamentale: 4 bambini (o folletti) islandesi vengono introdotti in una stanza fornita di strumenti musicali vintage, accompagnati da altrettante bambine (o fatine) a comporre un quartetto d’archi. Il compito dell’osservatore, al di là di uno specchio unidirezionale, è di studiare l’evolversi del loro approccio verso gli strumenti e del loro modo di utilizzo per circa 90 minuti. L’esito: malgrado la disposizione sia studiata affinché ogni soggetto possa operare presso lo strumento cui è preposto, i 4 soggetti tendono a suonare raccolti occupando solo una sezione dello spazio a loro disposizione e spesso si alternano a tutti gli strumenti. Il dato più interessante è che il luogo dell’osservazione è un palco, i 4 bambini o folletti sono un gruppo in concerto, sono presenti circa 2000 persone in qualità di osservatori e, soprattutto, lo specchio unidirezionale non esiste.

I Sigur Ros atterrano nell’hinterland milanese in occasione di una delle rassegne musicali più esclusive, il festival di Villa Arconati a Bollate; conterranei di Bjork e di Emiliana Torrini, la similitudine con le sorelle maggiori (almeno la prima) è però fuori luogo: il denominatore comune è solo un calderone chiamato “sperimentazione sonora”; al limite si possono citare i Sugarcubes, che, come i Sigur Ros, avevano alcune venature minimali.

Traslare il minimalismo sonoro dai CD all’esibizione dal vivo non è semplice; è la scelta della strumentazione e il supporto della sezione d’archi delle Amiina a fare sì che l’atmosfera evocativa presente nelle loro registrazioni possa sublimare anche nel contesto arcadico di Villa Arconati, tra sciami di zanzare (particolarmente melomani?) in assetto da attacco, effluvi di spray e creme insetto-repellenti, il tutto in un caldo tropicale appena mitigato solo dall’incantevole vegetazione del circostante Parco delle Groane.

Il gruppo ha alternato brani dai 3 lavori al loro attivo, “Von”, “Agaetis Byrjun” e “()”, il CD senza nome composto da tracce audio senza titolo, in una lunga suite caratterizzata da forte alternanza dinamica tra suoni rarefatti e decisi ingressi ritmici. Visti da lontano i Sigur Ros danno l’impressione di creature magiche assorte nelle loro operazioni musicali a ricamo delle acute melodie del cantante Jon Thor Birgisson: taciturni, incuranti del contesto e concentrati nel riprodurre la loro estetica musicale dalla temperatura sotto-zero, e proiettati ad aiutare il percorso del pubblico verso la trance necessaria per elevarsi al loro piccolo “mondo delle idee” ancora incontaminato.

Il paragone (assolutamente non indispensabile) che più ricorre è quello con i Pink Floyd, il che pare eccessivo e riduce il potenziale dei Sigur Ros, nel cui suono tutto c’è tranne il background blues di David Gilmour. Come altri omologhi, i God Speed You Black Emperor o alcuni gruppi del marchio 4AD degli anni ‘80, per esempio, i Sigur Ros sembrano aver costruito un linguaggio con la loro cultura (sonora e non) di partenza e sembrano percorrere sentieri nascosti da tutti per mantenere la genuinità di uno “splendido isolamento”, a retaggio della provenienza e degli stimoli ricevuti nel loro habitat.

Un concerto dei Sigur Ros risulta così essere una finestra aperta su un panorama sconosciuto o un documentario sull’Islanda visto in tv, più che un viaggio inusuale in un terra mai vista: permette cioè solo la contemplazione del paesaggio e non l’immergersi, almeno solo per una breve vacanza, negli usi e costumi di una piccola comunità accogliente.

The Prodigy – Firestarter

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[questo articolo è uscito su Loudd.it]

Sapete come vanno le cose sui social, il luogo in cui per definizione non c’è niente di sacro. Qualche giorno dopo l’incendio di Notre Dame a Parigi, propagatosi il 15 aprile 2019, girava un meme in cui si vedeva Keith Flint – il frontman dei Prodigy morto suicida poco più di un mese prima – lasciarsi alle spalle con il suo ghigno diabolico la cattedrale parigina in fiamme.

Questo non mi toglie però dalla testa che “Firestarter” in senso lato vada tradotto con “attaccabrighe”, più che con un letterale “piromane”. Una sfida che è impossibile non raccogliere: guardando il video di quello che ad oggi resta uno dei brani più devastanti della storia del novecento, è impossibile non farsi prendere dalla brama di allungare qualche ceffone a quella specie di creatura da rave party che sbraita scimmiottando Johnny Rotten, di tirarlo per le orecchie e mandarlo a lavorare a calci nel sedere, con tutto il rispetto per i morti.

“Firestarter”, malgrado il suo messaggio antisociale e destrutturante, è uno di quei brani che si dovrebbero insegnare nelle scuole. Ma più che di natura morale, il problema è che è difficile spiegarlo.

Potremmo usare la metafora della festa: ci sono un gruppo di ragazzi in una villa in cui è stata organizzato un party. C’è qualcuno che mette i dischi. La solita roba tradizionalmente trasgressiva tutta ripiena di chitarre distorte, droga, sesso, capelli lunghi, voce roca e contenuti satanici. A un certo punto suonano alla porta ed entra questa massa informe teleguidata da un computer. Un agglomerato di materia che, muovendosi, travolge qualunque cosa non in grado di adattarsi alla sua form factor. Malgrado la mole, questa entità si muove con un agio disarmante nonostante i suoi 142 bpm o giù di lì. E a ogni battito c’è una parte della massa che pulsa verso l’esterno e che si illumina, rilasciando dei suoni che provengono dal nucleo.

La “cosa” si piazza nel mezzo della sala in cui tutti stanno ballando e, mano a mano che quello che contiene e rilascia si propaga – è un pezzo la cui natura risulta indefinibile -, annienta tutto il resto. Il rock. La techno. Il crossover e il nu-metal, l’humus di “Firestarter” intorno alla metà dell’ultimo decennio del secolo scorso. Dicono infatti che questo agglomerato di energia negativa abbia fuso dentro di sé tutti i generi in voga ai tempi – gli stessi della festa in questione – per rilasciare in cambio un magma in grado di umiliare anche il più resistente degli esponenti della trasgressione musicale.

Ogni strato sonoro è dilatato all’eccesso a vantaggio di una distorsione globale in cui è impossibile individuare un punto di inizio. Potete provare a decifrare e isolare la chitarra con il wah-wah di “Sos” dei Breeders, i breakbeat presi da uno di quegli archivi gratuiti a disposizione dei produttori di jungle, l’urletto degli Art of Noise di Trevor Horn, la cassa intonata dei Dust Brothers. Buona fortuna. Il pathos aumenta e questo pachiderma sfascia tutto senza lasciare prigionieri. Ingloba qualsiasi essere vivente fino a quando resta solo la sua materia. Fuori il nulla e dentro il delirio, assordante e funesto.

Il fatto è che “Firestarter” ha ventitré anni e da allora detiene il record della cattiveria nella musica. È impossibile cercare una canzone altrettanto deflagrante per fare la sintesi della personalità di Keith Flint. Ancora oggi è il più prevedibile dei cliché quando si vuole spaventare qualcuno mostrando i lati più oscuri della nostra vita malgrado non ci sia occasione, ogni giorno, di vedere affiorare questa creatura selvaggia e guastafeste – nonché attaccabrighe – in un servizio al tg, in un documentario sulla società contemporanea, nelle playlist di gente che nel novantasei nemmeno era nata.

Ecco, tutto questo rende l’idea di cosa sia “Firestarter”. Oppure potremmo proporlo nell’ora di musica, in uno di quei quizzoni in cui si chiede ai ragazzi di riconoscere gli strumenti utilizzati per la registrazione del brano in ascolto. Bene, la gara è ufficialmente aperta e – ci metto la mano sul fuoco – nessuno ne riconoscerà nemmeno mezzo, ma c’è il rischio che si scateni una rissa.

Interpol – A Fine Mess EP

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[questo articolo è uscito su Loudd.it]

Se “Marauder” – uno dei migliori album usciti lo scorso anno – ha decretato l’ottima salute artistica dal terzetto di Paul Banks, attestando gli Interpol a leader incontrastati del filone post-post punk di questo primo scorcio di secolo, possiamo considerare l’EP “A Fine Mess” una sorta di Midterm Elections volte a riconfermarne il valore e a tenere viva la brace che alimenta l’ardore dei fan, almeno fino al prossimo long playing.

I feticisti del vinile potranno, come prima cosa, apprezzarne il packaging: la grafica della cover sembra uno di quei dischi rock wave di fine anni settanta, con la busta interna comprensiva della parte centrale tonda in plastica trasparente, proprio come le facevano una volta. Il senso di prodotto “do it yourself” ci viene invece restituito dal lettering dei titoli stampati e dalla giustificazione del testo a cazzo sull’avvincente copertina, dettagli che vanno a completare grafica e immagini volutamente trasandate, fin troppo didascaliche considerando il titolo dell’EP. Dopo così tanto tempo di attività, sappiamo quanto la band newyorkese stia ben attenta a stile e look.

Possiamo quindi considerare la sostanza di “A Fine Mess” un ponte sonoro tra il precedente disco e quello che gli Interpol faranno in futuro. I brani sono disinvolti e immediati, al limite della laconicità. Cinque potenziali singoli – di appeal diverso ma della stessa matrice – pensati, suonati e registrati così come partoriti, probabilmente con l’obiettivo di trasmettere il senso di un ensemble affiatato e rodato, malgrado una produzione non certo esemplare in quanto a prolificità (sei album in ventidue anni costituiscono semmai un record in negativo).

Trattandosi però di soli cinque brani, riesce facile presentarli uno ad uno, in ordine di efficacia. “Thrones”, la traccia finale ma al primo posto in quanto a gradimento, è un pezzone degno del lato A di “Antics”, completamente retto dal muro dei riff di Daniel Kessler e dal suo inconfondibile timbro a sei corde. Altrettanto dark è “Real Life”, brano che va ad alimentare il repertorio delle canzoni con melodia catchy e tono di voce suadente, mentre “The Weekend” risulta essere la più interpoliana delle cinque. Restano “No Big Deal”, fin troppo ordinata e in netta contraddizione con le intenzioni casiniste della titletrack, la canzone che la precede, un brano caratterizzato da chitarra graffiante e voce distorta ampiamente oltre il limite del fastidio.

Solo il tempo ci dirà se sarebbe stato meglio attendere un’altra manciata di brani e pubblicare un nuovo 33 giri o se va bene così. A meno che l’uscita di “A Fine Mess” non sia un segnale di dismissione, una sorta di sgombero ispirazionale degli scampoli compositivi già abbozzati per il disco precedente, qui finalmente chiusi e archiviati in previsione di una svolta. Questo nuovo EP, del tutto in linea con “Marauder”, potrebbe concludere una stagione per una nuova identità o chissà, magari è solo un segnale del fatto che la band vive in condizioni di pieno vigore artistico, macina roba nuova senza farsi troppi scrupoli e, tutto sommato, ci piace anche così.

Black Midi – Schlagenheim

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[questo articolo è uscito su Loudd.it]

Fino a qualche mese fa le tracce di “Schlagenheim” non avevano nemmeno un titolo. La playlist dell’esibizione live alla KEXP dei Black Midi è una sfilza di “Untitled” a eccezione di “bmbmbm” e vi giuro che non mi è passato il gatto sulla tastiera mentre lo scrivevo. Il brano si chiama proprio così.

Il video di quel mini-concerto lo avevo incrociato come suggerimento da non perdere, correlato da quella divinità virtuale che intercetta i gusti e dispone l’agenda delle nostre consultazioni dell’Internet a qualcosa di simile che dovevo aver visto prima su Youtube. Probabilmente i King Crimson del periodo di Belew. Probabilmente perché c’è un singolo dei Black Midi – non presente in “Schlagenheim” – che si intitola “Talking Heads”. Probabilmente per aver visualizzato qualche rumorosissimo gruppo punk. Probabilmente perché il destino ha voluto unire indissolubilmente una band nuova con un ascoltatore come me, disposto a esser loro fedele sempre, nella gioia e nel dolore, in salute e in malattia, nella buona e nella cattiva sorte, per amarli e onorarli tutti i giorni della mia vita.

Potreste quindi scoprirvi testimoni esclusivi di una di quelle travolgenti passioni che nascono proprio grazie alla rete. Io cuoricino Black Midi. Il mio giradischi linkato per sempre a Croydon, distretto metropolitano del South London, luogo di provenienza di quattro ragazzi che fanno una musica che non ha eguali, sulla terra, e dove ci sarà da qualche parte un ponte su cui chiudere un lucchetto personalizzato dalle nostre iniziali e dal quale gettare la chiave nel canale sottostante.

I Black Midi sono Geordie Greep, Matt Kwasniewski-Kelvin, Cameron Picton e Morgan Simpson, quattro giovanissimi musicisti dalla tecnica sopraffina cresciuti alla “BRIT School for Performing Arts & Technology”, una scuola altamente selettiva ma a frequenza gratuita (grazie ai finanziamenti statali) pensata con l’obiettivo di formare professionisti nelle arti e nella comunicazione, dalla quale sono passate anche Amy Winehouse e Adele.

Il nome della band invece va ricondotto a una delle espressioni più nerd della computer music, non a caso proveniente dal Giappone. Il Black Midi è il Midi estremo, spartiti elettronici riempiti da milioni di note anche come espressione visual per una sorta di ASCII art resa con la notazione musicale (il colore black perché l’intento è di riempire di nero i pentagrammi), per composizioni a malapena eseguibili dalle interfacce hardware dei comuni mortali. Un nome che calza a pennello: le improvvisazioni di partenza poi sistematizzate in brani di senso compiuto – affermazione peraltro discutibile, come vedremo tra poco – potrebbero essere il tentativo di trasferire da questa parte del computer (quella in cui ci siamo voi e io, in carne e ossa) la musica degli algoritmi compositivi di un’intelligenza artificiale. Poi scopri che tra gli ascolti formativi della band ci sono dischi da fantascienza come “On the corner” e “Get Up With It” e che, in certe interviste, i quattro citano più volentieri Béla Bartók, e la cosa si complica.

Possiamo così definire il non-stile dei Black Midi un prog-math-noise-fusion-wave, cioè quella grande chiesa inventata di sana pianta che mette insieme tutte le cose più sperimentali degli ultimi quarant’anni. Facile immaginare quanto sia divertente suonare in un disco come “Schlagenheim”, sentirsi liberi di volare dove cazzo ci pare con il basso e la chitarra grazie a un batterista così straordinariamente preciso ed eclettico. Purtroppo non saremmo all’altezza – almeno parlo per me – quindi accontentiamoci di dedicare un ascolto attento a questo che, al momento, è una delle cose più straordinarie uscite nel 2019.

A fare gli onori di casa sono i cinque ottavi dell’intro di “953” che travolgono l’ascoltatore trascinandolo giù verso i sotterranei di un brano dai mille capovolgimenti ritmici fino allo strapiombo finale, in cui un tiratissimo e vorticoso raddoppio ci fa volare a rotta di collo in un rafting strumentale lungo tortuose rapide ritmiche. Possiamo quindi definire “Speedway” un esercizio di stile prog-no wave, uno di quei pezzi che procedono uguali a se stessi dall’inizio alla fine con una matrice sequenziale alla ricerca di un’estensione in grado di definirne la natura. Fenomenale il crescendo alla fine di ogni – chiamiamola – strofa che poi non porta a nulla se non a ripartire da capo.

Non lasciatevi poi trarre in inganno dalla terza traccia “Reggae”: mai titolo fu più inappropriato in quanto a temperatura emotiva. Il cantato alterna il Peter Gabriel dei tempi in cui sussurrava “Play me Old King Cole, that I may join with you” alle altisonanti declamazioni di “Elephant Talk” e vi giuro che non c’è l’ombra di mezza ritmica in levare. Al contrario di “Near DT, MI”, su cui c’è ben poco da dire: sul versante hard core mi trovate impreparato. Posso solo suggerire il metodo migliore per affrontare il tema di chitarra a 01:49: scegliete accuratamente il vostro compagno di fuga, allacciate le cinture e rimanete ben saldi ai vostri posti, fino al segnale convenuto.

Con gli abbondanti otto minuti di “Western” siamo a metà del disco e, ancora, non ci abbiamo capito un cazzo. C’è da chiedersi come i Black Midi siano riusciti a fare a meno di un addetto all’elettronica o ai synth in questo album d’esordio e a rimanere lo stesso così vari. Qui la componente math-rock sale prepotentemente in superficie per definire ancora meglio la personalità unica del disco. Ipotesi smentita da “Of Schlagenheim”, una specie di titletrack così dispari da fare il giro e tornare pari e finalmente comprensiva di una mitragliata di sequencer, in aggiunta a una biascicata lagna vocale alla PIL che ci introduce alla personale interpretazione del concetto di prog che i quattro ci danno, per poi lanciare un finale reso con un tempo di batteria irresistibile a supporto di un efficace tormento ricorsivo di basso.

E se pensate che sia faticoso continuare su tali registri per arrivare sani e salvi alla fine siete solo inguaribili ottimisti. Prima abbiamo introdotto “bmbmbm”, senza spoilerare il repentino cambio free-noise che vi indurrà a controllare, durante l’ascolto, se per caso vi si è sputtanato l’impianto hi-fi. “Years ago” è la penultima gioiosa fatica per l’ascoltatore, tutta crescendo e interruzioni sotto l’egida di un MC dalla voce distorta, per finire con “Ducter”,  il brano di cui è stato realizzato il video e che, in effetti, risulta quello più ordinario del disco (per modo di dire). Se il mercato impone un singolo, ecco l’unico pezzo presentabile al pubblico con il minor rischio di esser scambiati per extraterrestri, per folli, per visionari, per pericolosi anarco-strumentisti riuniti in un’adunata sediziosa con l’obiettivo di sovvertire le fondamenta della musica come l’abbiamo conosciuta fino ad ora. Dare una definizione di armonia, melodia e ritmo nel Black Midi, e per una band che ha scelto di chiamarsi così, è solo una perdita di tempo.