suona bene

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In città ci sono tre sale prove, e se suonate ai miei ritmi – o, meglio, a quelli del mio batterista, ma questa è una battuta e non vale – prima o poi le girerete tutte. La prima è una specie di sottoscala di un palazzo di edilizia popolare degli anni venti che dà sul fiume. L’ubicazione e il fatto di essere sottoterra genera un livello di umidità che non ha eguali in natura. Un fattore che ha un impatto negativo intanto sull’equipaggiamento. I circuiti e i componenti elettronici dei sintetizzatori in dotazione e dell’impianto di amplificazione sono infatti costantemente esposti a rischio deterioramento. Però se ciò non crea problemi al proprietario, chi se ne importa. Il guaio è che trascorrere anche solo due ore in quella specie di cantina appestata impone a chi ne usufruisce forti limiti nella scelta dell’abbigliamento e l’urgenza di ricorrere ad abluzioni estreme al termine delle sessioni di prova. Un fattore che, considerando l’età media dell’utenza (adolescenti o poco più, proprio come chi sta scrivendo, anche se sto usando uno stile narrativo che imparerò a trent’anni, quando inizierò ad occuparmi di scrittura marketing) è di forte ostacolo alla vita sentimentale e sessuale dei musicisti e del loro entourage. Nell’82 si può ancora fumare in posti come questo, in cui non c’è nemmeno l’uscita di sicurezza, le pareti sono rivestite di materiale fonoassorbente casereccio in grado di prendere fuoco con uno starnuto, la moquette deve aver assorbito le peggio secrezioni umane (alcuni sostengono anche topesche). Per farla breve, la puzza di fogna mista alle numerose sigarette (al tabacco o corrette) che si consumano si appiccica irrimediabilmente alla pelle e ai vestiti, rendendo ripugnanti anche i frontman più fascinosi. La sala prove in riva al fiume è quella più frequentata e ambita e costituisce un vero e proprio centro di scambio tra cultori dei generi musicali più in voga, soprattutto quelli ispirati ai nuovi gruppi che vengono dall’Inghilterra derivanti dal post-punk. Il proprietario ha una concessionaria di moto, si dice che abbia trovato suo papà impiccato e frequenta spesso un amico che gli fa da consigliere e scatta foto osé a sua moglie per poi mostrarle agli estranei.

La seconda sala prove è stata ricavata nel garage del papà di un percussionista che ha un’officina. Sopra alle auto e alle moto in riparazione c’è un soppalco parzialmente attrezzato solo con batteria e impianto voci. Le band che la affittano sono consapevoli che non è molto chiaro se il papà meccanico sia a conoscenza dell’attività approssimativa messa in piedi dal figlio. Si stupisce sempre quando vede qualche estraneo che tira su la saracinesca in orari diversi rispetto la sua attività. Resta il fatto che la circolazione di adulti la rende meno appealing per le giovani aspiranti rockstar, specie per quelle che ne confondono la destinazione d’uso per un’alcova o un pied a terre. Qui suonano i musicisti più seri, i jazzisti o quelli che si ispirano alla fusion e ai generi che impongono studio e applicazione. Non si fuma e tantomeno vige la tolleranza circa l’uso di droghe leggere. Chi sa vedere lontano ha capito che nel giro di qualche anno il proprietario rileverà anche il resto della palazzina (al piano superiore c’è il magazzino di un esercizio commerciale dei pressi) per avviare un vero e proprio business. Il fatto è che quando il proprietario (il figlio del meccanico, per intenderci) diventerà un affermato session man, la sala prove verrà presa in gestione dal gruppo più tamarro della zona, di una tamarraggine mai vista, è attirerà solo gente come loro dai canoni estetici inqualificabili.

C’è poi la sala prove nel quartiere periferico della città. Una volta era lo studio di registrazione di un’etichetta discografica locale, una di quelle iniziative pensate per attirare belle ragazze illudendole sulle qualità vocali per poi approfittare di loro in cambio di qualche centinaio di copie di un quarantacinque giri senza alcuna speranza. L’etichetta aveva prodotto anche cose serie negli ultimi scampoli dell’era del rock progressivo, ma si sa, il business artistico di provincia alla lunga dissuade anche i più convinti sostenitori. La sala è tutta rivestita in moquette verde acido e grigio metallo, molto anni ottanta. C’è un pianoforte a coda ma sistemato nell’ingresso, come a dire che chi suona le tastiere può scordarselo di usarlo. Le vestigia degli antichi fasti sono testimoniate dagli scaffali del’antibagno che traboccano di copie del disco di esordio – poi diventato anche l’ultimo – di un sestetto metal che non lascia dubbi sui messaggi nascosti nei loro testi. La quantità di ellepi è così elevata che alcuni si divertono a incidere, con le chiavi, volgarità gratuite sulle facciate in vinile. L’acustica è la migliore, ma il contrasto tra l’atmosfera professionale e gli ambienti desueti smorza enormemente l’impeto artistico di chi si esercita lì. Occorre stare attenti anche ai gestori che riempiono di complimenti chiunque usi i loro studi con l’obiettivo di scucirgli del grano per autoprodursi il successo. Ma ormai i tempi sono cambiati e non ci casca più nessuno.

babydance

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Non mi sono mai fatto problemi a proporre ascolti a mia figlia di ogni tipo, anche quand’era molto piccola. Anzi, soprattutto quando era nella fase in cui pendeva ancora dalle labbra dei genitori ne ho approfittato. Non tutto è stato utile e non sempre la musica che ho condiviso con lei è rimasta. Voglio dire, se metti un disco di Ornette Coleman a un bambino di sei anni è facile che la reazione più immediata sia quella di chiamare il telefono azzurro. Ma, a parte i casi estremi, molte cose sono filate lisce. Il bello è che poi, verso i dieci/undici anni, i bambini che ormai non sono più bambini tirano su le barricate contro i genitori e si chiudono, anzi, si aprono dall’altra parte, verso il gruppo dei pari. Ma, amici genitori, non dovete disperarvi. Intanto sono fasi naturali. Pensate se, anziché esseri umani, fossimo bestie che lasciano liberi i loro cuccioli nel giro di qualche settimana. Il punto è che se avete fatto un buon lavoro gli resta tutto dentro, al sangue del vostro sangue, e le vostre selezioni musicali che accompagnavano viaggi in macchina, pomeriggi di relax, giornate di pioggia, serate sul divano, quelle canzoni lasciano un sedimento da cui, prima o poi, germogliano dei veri e propri tesori. L’altra sera, durante le audizioni di XFactor, un gruppo ha proposto un remake di “Heartbeat” di Nneka. Il brano, presente nel secondo album della cantante nigeriana, è del 2008 e nel 2008, quando in casa mia lo si ascoltava e ballava a tutto volume, la mia piccola aveva quattro anni. È bastata la prima strofa, benché nella versione di una band sconosciuta, a riaccendere quella brace che giaceva da qualche parte, sotto le emozioni di mia figlia. Lei mi ha guardato, io ho capito, ed è stato sorprendente così, proprio come questa incredibile canzone.

ancora su sfera (e poi basta)

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A dodici edizioni di distanza dalla prima non c’è più alcun dubbio. Non è certo la musica la protagonista di XFactor, come non lo è la cucina in Masterchef, la gente che si fa le corna in Temptation Island, i Vip che si giocano il tutto per tutto sull’Isola dei Famosi, la deprivazione culturale nel Grande Fratello, la miseria umana in Ciao Darwin, la figa in Miss Italia. In qualunque programma TV che preveda un vincitore di qualcosa nel meccanismo dello show, è il programma TV a essere il protagonista e a risultare il vincitore.

Il fatto che comprenda anche dei concorrenti che aspirano alla vittoria è un di cui e soggetto alle dinamiche con i giudici che ne decretano la fortuna o l’esclusione dalla gara. La personalità degli individui comuni presa da sola fa spettacolo ma si sa, è un prodotto usa e getta, sfruttato non solo dallo show business ma anche dalle altre persone comuni che seguono XFactor da casa. Le persone comuni che seguono XFactor da casa sostituiscono velocemente un modello di riferimento (cantanti, avvocati che preparano da mangiare, starlette, deficienti, ragazzine in costume da bagno) con quello della proposta televisiva (in forma di competizione) successiva.

Nel caso di XFactor, delle 160 e rotti aspiranti popstar che si sono avvicendate nel corso delle 12 edizioni degli scorsi anni, quelle che sono riuscite davvero nell’intento si contano sulle dita di una mano. Di tutti gli altri, se ce ne ricordiamo una decina è già tanto. Nonostante ciò, XFactor si conferma un programma seguitissimo e ambitissimo, un argomento di conversazione tra spettatori di qualsiasi estrazione sociale, culturale e politica, uno di quei fenomeni mediatici trasversali che fa figo sia dire di guardarlo perché piace, dire di guardarlo perché non piace in modo da poterlo criticare e persino dire di non guardarlo per farsi invidiare almeno da quelli che dicono di guardarlo perché a loro non piace ma, comunque, vogliono parlarne. Ecco perché è il programma in sé a essere il protagonista e il vincitore. Ed ecco perché la vera essenza di XFactor è la prima fase, quella dei provini. Un fase la cui prima puntata è andata in onda lo scorso giovedì o, per chi come me non si può permettere un abbonamento Sky, la sera dopo, in chiaro sul canale 8.

La formula delle audizioni è nota. Ci sono migliaia di aspiranti popstar che si immolano a quella specie di estrattore di succo concentrato di talento. Sul palco si alternano i bravissimi, quelli che hanno studiato musica, gli artisti, i normali, gli scarsoni impresentabili e gli scarsoni che nella selezione montata per la TV vengono mostrati comunque, perché in grado di contribuire al successo del programma e far felici gli sponsor.

La controparte delle dinamiche proprie di XFactor è costituita dalla giuria, composta da un assortimento completo di esaminatori. Quest’anno c’è lo stronzo, il buono, il tecnico e il saggio. Ruoli che hanno visto già avvicendarsi nel corso del tempo altri esponenti dello showbiz in cerca di una seconda chance, o di una terza, oppure solo per mostrare ai telespettatori la loro dark side normalmente sconosciuta dallo showbiz.

La sorpresa della prima puntata delle audizioni è che il ruolo del buono, che tutti avremmo pensato interpretato da Samuel dei Subsonica, invece è di dominio di Sfera Ebbasta. Sfera Ebbasta è l’incubo dei genitori che hanno figli sotto i dieci anni perché nella sua trap e nei suoi video descrive con parole pericolose delle cose pericolose che i bambini capiscono parzialmente. Sfera Ebbasta è anche l’incubo dei genitori che hanno figli in quota scuola media che, invece, di quelle cose pericolose cominciano a coglierne il senso. Ma i detrattori non finiscono qui. Insegnanti e presidi. Esperti di musica e rapper della prima ora che si sono visti invadere il mercato da un generazione incomprensibile. Opinionisti adulti che si prendono la briga di insegnare ai giovani a essere giovani e che hanno strumentalizzato un episodio di cronaca in cui Sfera Ebbasta c’entrava nemmeno di striscio per mettere al bando i temi dei suoi testi, come se si riconducesse la responsabilità del crollo del Ponte Morandi ai produttori di automobili.

Rappresentare uno schema della vita artistica di Sfera Ebbasta è piuttosto intuitivo in quanto composta dalle fasi standard dello stereotipo del trappista: adolescenza complicata in un quartiere di periferia, primi tentativi di emancipazione con la musica del ghetto espressa con le parole della volontà di affermazione, popolarità grazie al passaparola fino ai grandi numeri, milioni di milioni di visualizzazioni e ascolti su Youtube. Fatti i miliardi, per Sfera Ebbasta – come per chiunque abbia condotto un percorso analogo – si pone un problema di identità. Agi e visibilità dovuti al successo impongono riflessioni sulla nuova condizione. Il ragazzo di Crocetta – periferia della periferia di Milano – oggi vale oro ed è una rockstar a tutti gli effetti, come si racconta anche nel suo ultimo album.

Sedersi sulla scrivania dei bottoni di XFactor costituisce quindi un’opportunità. Sarebbe bello sapere quanto competa alla produzione del programma l’individuare i giudici più adeguati a ogni stagione o quanto siano cantanti e rapper a proporsi, persuasi da qualche consulente alla comunicazione e immagine che vede nel programma una scorciatoia verso la redenzione. Il punto è che già dalla prima tornata di audizioni il programma ha un vincitore. Sfera Ebbasta, con le aspiranti popstar, si è dimostrato disponibile, premuroso, simpatico, umile, competente, positivo, di buon senso. Non solo. Nella sua attività di esaminatore ha compreso l’autorevolezza degli adulti (il giudice Maionchi, nel ruolo del saggio), la competenza di chi suona da un quarto di secolo (il giudice Samuel, nel ruolo del tecnico), la collaborazione come antidoto alla pignoleria dei colleghi difficili (il giudice Ayane, lo stronzo). Poi ha preso le fila del suo team proponendo, tranquillizzando, argomentando, giungendo a sintesi, il tutto senza l’approccio competitivo di chi lo fa per emergere. Piuttosto, di chi sa muoversi con naturalezza e lo fa per far stare bene se stesso e se stesso in relazione con gli altri.

Sfera Ebbasta ci ha insegnato come ci si comporta sul posto di lavoro, e l’avreste mai detto – guardando il video di “Ciny”- che un giorno uno conciato così, esponente della sottocultura più dirompente della storia della musica che è venuta dopo il punk, responsabile dell’isolamento di un’intera generazione dal resto della società, uno con i canini d’oro ci avrebbe addirittura dato lezioni con i suoi valori su un aspetto così importante?

massa

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È scientificamente provato che in prossimità dell’uscita autostradale di Carrara una persona virgola sette su due fischietti il tema di “Shine on Dance”.

qualche grado in meno

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I miei amici non parlano d’altro che del nuovo disco dei Tool ma io tengo duro ugualmente e non mi arrenderò a indossare la maglia della salute almeno sino al primo giorno d’autunno. Le stagioni sono infatti solo un fattore che riguarda il calendario e la musica non è da meno. Prova ne è il fatto che dal nulla mi è tornato su come una specie di rigurgito dovuto a una sorsata in eccesso di acqua fresca – avete presente? – nientepopodimeno che Kid Creole and The Coconuts – avete presente? Si tratta di un prodotto così anni ottanta che più anni ottanta non si può perché gli anni ottanta, oltre a offrire musica tipicamente anni ottanta, hanno lanciato cose che in altre epoche sarebbero state vittime di oscurantismo. Invece negli anni ottanta c’erano gli anni ottanta ma c’era anche il rock’n’roll degli Stray Cats e la salsa/funky di Kid Creole and The Coconuts. Pensate a quale livello di apertura di mente abbiamo saputo esprimere. Kid Creole and The Coconuts facevano un genere che in altre ere musicali (quella in cui viviamo, tanto per iniziare) sarebbe stato confinato nei villaggi turistici e durante i mesi estivi per di più con qualche forzatura ritmica per renderlo più ballabile, mentre negli anni ottanta andava a manetta anche in inverno e con una temperatura espressa dallo stile musicale senza compromessi. Che ne dite, balliamo?

africa unita

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La morte di Mugabe mi ha ricordato che Bob Marley suonò gratuitamente nell’80 ad Harare (ai tempi Salisbury) nel corso dei festeggiamenti per l’indipendenza dello Zimbabwe (ex Rhodesia). In scaletta c’era ovviamente anche questa canzone tratta da quel disco che per me era “il disco delle bandiere” – Survival – e che è stato uno dei primi che ho acquistato. Non c’entra niente, ma non notate qualche somiglianza nella struttura tra la canzone di Marley e il brano “Preso blu” dei Subsonica?

gigante pensaci tu

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Non so se questa perversione abbia un nome, certo è che a volte sentirsi attratti dalle persone molto alte può giocare brutti scherzi. Diamo il benvenuto al nuovo disco di Lana Del Rey, al nuovo singolo e a questo video che ci fa sognare di giocare a Gulliver e i lillipuziani in un modo tutto nuovo.

revenge Po

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Dobbiamo porre rimedio a un grave torto, anche se in ritardo, e di questo me ne scuso. Sul canale Otto, che in realtà non so quale sia il suo vero nome visto che c’è la7, la9 eccetera, stanno trasmettendo provini delle vecchie edizioni di XFactor che poi sono l’unica cosa bella di XFactor perché, a dirla tutta, la gara alla lunga rompe i maroni. Ieri sera era la volta della scorsa stagione, quella che ha visto avvicendarsi il frontman dello Stato Sociale ad Asia Argento, ingiustamente ostracizzata per i motivi che sappiamo.

Tutto è filato liscio come da copione fino all’esibizione di Gerardo Carmine Gargiulo, artista che quelli della mia generazione (o delle precedenti) non possono non ricordare per la sua hit “Una gita sul Po”, pubblicata nel 1981 o 1982 ed entrata nelle nostre teste di adolescenti come un tormentone per il suo geniale ritornello. Non sono granché informato, e mi scuso anche di questo con l’autore, ma credo che Gargiulo dopo questo singolo non abbia avuto altri brani passati nei programmi musicali RAI dei tempi. Diciamo che la carriera di Gargiulo è il classico caso della meteora artistica: spari la bomba che si ricordano tutti e poi stop.

Ma non è questo il problema. Il dramma è che la giuria di XFactor, composta da l’uomo-cartone animato, Mara Maionchi, Lodo Guenzi/Asia Argento e l’autore de “Il meraviglioso tubetto”, ha inteso la prova di Gargiulo come quella di un aspirante qualsiasi ai live della trasmissione, senza riconoscere il cantautore avellinese e tributargli i dovuti onori. Posso capire i giovani giurati, ma mi ha sorpreso come una del settore come la Maionchi non si sia accorta della gaffe. Lo stesso Gargiulo, sul palco, è apparso sorpreso della reazione neutra dei quattro esaminatori. D’altronde come biasimarlo: sono passati quasi quarant’anni ma quel ritornello vive e risuona ancora nella cultura popolare di noi ragazzi degli anni ottanta.

Questo po-po-po-post, quindi, spero sia utile per fare ammenda alla mancanza di rispetto subita da un protagonista minore della canzone italiana, oggi avvocato. Mi spiace non aver visto i provini lo scorso anno, quando sono andati in onda per la prima volta, e di esser stato all’oscuro del misfatto. Gerardo Carmine Gargiulo, sappi che l’Italia ti chiede scusa, anche se in ritardo.

un passo avanti

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Ci sono delle esperienze che, fatte una volta, ti restano dentro e non te ne liberi più, come imitare la celebre camminata dei Madness di “One Step Beyond”. Anche un solo tentativo da ragazzino ti indurrà per tutto il resto della vita ad assumere la caratteristica posizione con le ginocchia e i gomiti piegati e la testa che si volta a destra e a sinistra, nemmeno si trattasse di un riflesso pavloviano non appena si sente la canzone. Ovunque, a qualunque età e in qualsiasi contesto. Non tentate di resistere. Non è possibile.

qualcosa si è rotto

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La fortuna di crescere tastierista è che non ti devi sentire obbligato a spaccare lo strumento a ogni fine concerto come fanno i chitarristi. A parte che i sintetizzatori non si tengono in mano come una Stratocaster qualunque, a meno che non ti chiami Sandy Marton e vivi negli anni ottanta, ma poi risulta proprio innaturale staccare una tastiera dall’impalcatura che l’ha sostenuta sino a quel momento, scollegarla dalla corrente, staccare i cavi, portarti al centro del palco e portare a termine la critica all’industria della musica di cui sei un meccanismo eseguendo il celebre gesto iconoclasta dello strumento in mille pezzi. Dopo tutti quei passaggi la rabbia che nutri verso il paradosso della tua arte di ribellione ridotta a merce di scambio per denaro sonante (è proprio il caso di dirlo) ti è già bella che sbollita e il pubblico riconoscerebbe la forzatura. Senza contare che, a parte Keith Emerson che nell’organo Hammond ci piantava i coltelli, il tastierista in genere è la persona più a modo di tutta la band, deve limitare il consumo di droghe prima di suonare perché ha mille pulsanti e manopole da utilizzare correttamente e, soprattutto, tiene alla sua attrezzatura come un vero e proprio ingegnere della musica. I synth poi costano un botto e, prima di sfasciarne uno, ci penserei due volte. Una volta mi è caduto lo Yamaha SY85 e si è spaccata a metà la scheda madre, non vi dico il danno in termini economici, oltreché emotivi. Sempre sullo stesso strumento, a causa del vento, è volato un pezzo di sigaro ardente di Fausto Bertinotti. Suonavamo dopo un suo comizio ai tempi dell’Ulivo e il buco che mi ha fatto su uno dei tasti di plastica ha messo a dura prova il mio credo politico di sinistra. Tenete con cura i vostri strumenti, anche se siete batteristi e li percuotete come dei forsennati. Che cosa vi hanno fatto di male, d’altronde, le chitarre?