Sudan Archives – Athena

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[questo articolo è uscito su Loudd.it]

A furia di dare nomi ed etichette a generi, cantanti e canzoni, ci dimentichiamo che soul, letteralmente, significa anima. Musica e parole che vengono da dentro e prendono una forma a cui poi non si può far altro che attribuire un termine così. L’anima non è rumorosa, caciarona, elettrica, superficiale. Ha ritmi downbeat, è elegante, è profonda, sposta il corpo lentamente senza fretta di posarsi, produce bassi cupi, si avvolge di elettronica, si nutre di sensualità per abbattere il divario con il mondo della carne. Dovremmo fare più attenzione, di fronte a un disco di soul. C’è l’anima di qualcuno registrata tra quei solchi. C’è qualcosa di intangibile che ci parla. E oggi, ai tempi di Solange e FKA Twigs, la bussola del nu-soul più sperimentale punta dritta verso Los Angeles, base operativa di Brittney Parks, artista nata a Cincinnati che ha scelto il nome d’arte di Sudan Archives.

Afro nel nome, americana nello stile, universale nel linguaggio. Le teorie che riconducono le origini della cultura classica a radici afroasiatiche non sono una novità e, nel nostro piccolo, gli Almamegretta ce lo ricordavano già ai tempi di “Lingo”, citando il saggio di Bernal e cantando che era proprio la dea Atena ad avere la pelle scura. Il centro del mondo è l’Africa. È da lì che deriva il tutto. I cultori del genere seguono le tracce di Sudan Archives dal continente madre che l’ha ispirata sino ai due EP che hanno raccolto la manciata di singoli pubblicati dal 2017 a oggi. Pettinature voluminosissime e l’inconfondibile violino, valore aggiunto e protesi artistica di una cantante-autrice tra le più innovative del panorama black.

Se vi chiedete come sarà l’r&b tra dieci anni, ora che ogni interprete porta in alto ambiziosamente l’asticella dell’originalità, “Athena” è un affidabile segno premonitore, un album caratterizzato da tracce ammalianti e una produzione di altissimo livello. Ma non c’è niente di forzato e di artificiale, per non parlare di quel modo commerciale di rivestire la personalità femminile costruito con l’obiettivo di conformarne il linguaggio con l’immaginario diffuso della cultura afroamericana. Non a caso, a venticinque anni, è Brittney Parks a escludere in partenza che il pop sia il suo vantaggio competitivo. Semmai una personalità musicale unica, gusto sopraffino e songwriting senza confronti.

Rispetto alle composizioni degli esordi, in “Athena” siamo di fronte a opere mature in cui produzioni e cameo si limitano a sottolineare l’efficacia della visione artistica della cantante. La matrice r&b e il violino, imparato da autodidatta e che richiama le tradizioni sudanesi, si mescolano alle influenze musicali con cui Brittney è cresciuta. Dal jazz al folk irlandese, passando dal trip-hop (evidentissimo nel disco, soprattutto in “Stuck”) e alla sperimentazione elettronica. E non fraintendete l’impiego di uno strumento solista così caratterizzante, anche se la presenza di un titolo come “Black Vivaldi” sembrerebbe dimostrare il contrario. I loop di violino sono dosati con grazia, come nei singoli “Confessions” e “Glorious”, e i pizzicato ritmici risultano tutt’altro che invasivi.

“Athena”, nel suo insieme, è un album pensato come dichiarazione intima per sensibilità attente e non per ascolti di massa. Un punto di arrivo, tanto da comprendere il rifacimento di un’acerba composizione adolescenziale come “Did You Know” come intro del disco e come punto di partenza per fare un po’ d’ordine e guardare all’orizzonte di ispirazioni, stati d’animo e tutto quello che la vita riserverà a un’artista così promettente. Trovare così tanta personalità in un disco d’esordio non è cosa comune. Il progetto Sudan Archives si manifesta così in una delle produzioni più coinvolgenti dell’anno, il disco di un vero talento che non ha eguali nella ricerca, nel dettaglio e nella sofisticatezza degli arrangiamenti – curati in prima persona – per uno stile davvero sorprendente.

Tutte le nostre linee sono temporaneamente occupate. Siete pregati di attendere per non perdere la priorità acquisita.

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Vi giuro che è da pochissimo tempo che ho scoperto che la musica di attesa del contact center di Fastweb è un pezzo di Malika Ayane dal titolo “Thoughts and Clouds”. Il fatto è che sono cliente Fastweb da tempo immemorabile e, invece, posso identificare nel timbro della giudice di XFactor proprio il tipo di voce che non mi piace. Questo ancora prima di sapere chi fosse, sapere che musica facesse e sapere che non è il massimo della simpatia, oltre che agli antipodi del personaggio adatto alla tele. Se a questo aggiungiamo che è la sua musica a intrattenere per ore in attesa i clienti infuriati per i disservizi – leciti, ci mancherebbe – di una rete dati si chiude il cerchio. Meno male che il mio Internet provider di fiducia non ha scelto una canzone di un artista o gruppo a me caro. E comunque se io potessi consigliare un brano da utilizzare per intrattenere gli animi di chi vorrebbe tornare interconnesso al mondo, ecco qui pronta all’uso qualche idea per chi brancola nel buio dell’indecisione. Il fatto è che, anche per lavorare nel settore delle comunicazioni, un po’ di musica bisogna conoscerla.

Partiamo dai capisaldi: la musica di attesa dev’essere uno strumentale. La voce rompe il cazzo e, soprattutto, al telefono viene pesantemente penalizzata dall’equalizzazione che la trasmissione delle comunicazioni vocali impone. Provate a sentire – come sostenevo prima – i coretti e Malika Ayane per mezz’ora mentre smadonnate perché non vi funziona Internet e poi ne riparliamo. Vi ricordate gli anni 90 e il tripudio di lounge e muzak che sprigionava ogni riproduttore musicale? Diciamo che la direzione è quella. Detto ciò, vi faccio qualche proposta.

EXCHANGE – MASSIVE ATTACK

FILM THEME – SIMPLE MINDS

NOTHING TO FEAR – DEPECHE MODE

THE SPEED OF LIFE – DAVID BOWIE

SOMEBODY UP THERE LIKES YOU
https://www.youtube.com/watch?v=D7918YtVdsk

CARNAGE VISORS – THE CURE

MUSIC FOR 18 MUSICIANS – STEVE REICH

Call Vectors by Vecteezy

La voce del padrone – Franco Battiato

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Qualcuno dovrebbe chiedere a Battiato che cosa intenda per “finto rock”, prima che sia troppo tardi. Una definizione ermetica e soggettiva intorno alla quale ciascuno di noi, a partire dal 1981, ha fornito una interpretazione tutt’altro che disinteressata. D’altronde, capire Battiato è stata una delle sfide più ambiziose degli ascoltatori italiani, fan e meno in linea con l’artista siciliano, e dei critici musicali. Una complessità sottintesa persino dai Bluvertigo nelle rime de “L’assenzio”. Il suo stesso scetticismo nei confronti della new wave italiana aveva, peraltro, aumentato le fila dei detrattori in quello scorcio di era post-punk che aveva visto la luce, dalle nostre parti, nei primi anni ottanta. E il paradosso è che la presenza della new wave italiana, in quella blacklist, venisse proprio da lui e in un disco che, alle sonorità in questione, era sicuramente più vicino di molti altri artisti che auto-dichiaravano la loro appartenenza.

Il fatto è che se i varietà della tv pubblica e commerciale dei primissimi anni ottanta vi sembrano bizzarri e sopra le righe, provate a immaginare l’effetto della presenza, nei programmi musicali dell’epoca, di un personaggio eccentrico e non convenzionale come Franco Battiato. Nell’autunno del 1981 non era facile sfuggire ai passaggi promozionali, in trasmissioni come Discoring, di “Bandiera bianca”, il primo singolo tratto da quello che diventerà il più significativo album di musica italiana di tutti i tempi, “La voce del padrone”.

Battiato, con un look fintamente ordinario e occhiali da sole (in grado di conferire più carisma e sintomatico mistero sempre e comunque) ripreso a lanciare i suoi anatemi da un podio con tanto di megafono e a invocare una resa incondizionata a una società alla deriva già allora. Gli fa eco intorno il coro dei Madrigalisti di Milano con la divisa delle grandi occasioni, in un contesto musicale nazionale che, non dimentichiamocelo, quell’anno era caratterizzato da vette di trasgressione del calibro di “Sarà perchè ti amo” dei Ricchi e Poveri, “Maledetta primavera” di Loretta Goggi, “Gioca Jouer” di Claudio Cecchetto e “Cicale” di Heather Parisi.

Da “Bandiera bianca” al primo posto in classifica de “La voce del padrone” passano almeno sei mesi, e quello è stato solo l’inizio. Da maggio a ottobre del 1982 l’album mantiene il primato di disco più venduto in Italia, per non parlare del tempo totale di permanenza nella hit parade, prima e dopo. La chiave di lettura di questo dato è che il successo a caldo e a freddo della svolta commerciale – molto tra virgolette – di Battiato è durato oltre un anno. Una statistica paradossalmente insignificante, se paragonata alla risonanza che i brani di quel disco avranno nella cultura e nella società italiana a partire da allora.

Visto da qui, e a maggior ragione in tempi in cui lo stillicidio di notizie poco rassicuranti sullo stato di salute del Maestro tiene la folla dei suoi adepti sulle spine, a stento si riesce a intendere “La voce del padrone” diversamente da una raccolta di successi indimenticabili, più che a un album vero e proprio.

Il ricordo confuso nel passato – ormai remoto – del lungo periodo a cui siamo rimasti esposti alla diffusione massiva dei brani in esso contenuti trasmette l’idea di un insieme di composizioni pensate come colonna sonora delle stagioni che si sono susseguite nel corso di quei quasi due anni e a partire dall’estate dell’82, che non è passata alla storia solo per i mondiali e l’urlo liberatorio di Tardelli dopo il gol contro la Germania, ma per gli echi dei cinema all’aperto che giungevano sino alle spiagge – tutt’altro che metafisiche – su cui, a botte di cento lire a canzone, la selezione di “Summer on a solitary beach” nel juke-box costituiva una tappa obbligatoria per i pomeriggi di sopravvivenza alla canicola, nei bar degli stabilimenti balneari.

E che dire del movimentato uptempo di “Cuccurucucù” e dei testi delle altre canzoni in essa citati, del bellissimo incantesimo di “Sentimiento nuevo”, della geometria esistenziale de “Gli uccelli” e dei pensieri associativi di “Segnali di vita”? L’apparente immediatezza delle canzoni raccolte ne “La voce del padrone”, rispetto alle tracklist di “Patriots” e de “L’era del cinghiale bianco”, è solo una intelligente apertura artistica a trame compositive pensate come lezioni magistrali di pop al pop in sé. “La voce del padrone” è un capolavoro che resterà per sempre una delle vette più alte del finto rock-new wave italiana di tutti i tempi, e di questo Battiato deve farsene una ragione.

per regalo voglio un harmonizer con quel trucco che mi sdoppia la voce

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“Bigmouth Strikes Again” è uno dei pezzi più belli del mondo mondiale e forse il singolo più celebre degli Smiths. Se c’è una cosa però che sopporto a malapena sono i coretti fatti con l’armonizzatore da Morrissey e i giochi di pitch sulla sua linea vocale del ritornello e delle strofe successive alla prima che danno quell’effetto Alvin Superstar. A me l’ironia sulle cose serie non piace. E poi basta ascoltare una versione dal vivo per rendersi conto di quanto sia più efficace senza quei cazzo di coretti.

per sport

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A Bresso c’è un centro specializzato in visite mediche sportive la cui sala d’aspetto ospita una mostra di dipinti di Andy dei Blu Vertigo, il biondo polistrumentista della band che ha lanciato Morgan. Andy dei Blu Vertigo è un personaggio che balza agli occhi perché ricorda tantissimo Martin L. Gore, il biondo tastierista, purtroppo oggi anche chitarrista, dei Depeche Mode, e il fatto che una band come i Blu Vertigo che per certe cose si atteggiava ai Depeche Mode avesse un membro che si ispirava a Martin L. Gore creava – ai tempi – un corto circuito di citazioni in un contesto al limite del situazionismo. Ci chiedevamo cioè se fosse possibile avere una identità originale di band per una band dalla matrice derivativa ma che aveva trovato il successo contribuendo, con canzoni proprie, alla divulgazione del culto per gli anni ottanta e quanto atteggiarsi a Martin L. Gore potesse risultare credibile facendo composizioni originali.

Andy dei Blu Vertigo lo avevo dietro di me al concerto degli Air nel 2000 o 2001 ma si trattava di una situazione molto diversa rispetto a vederne le opere nella sala d’aspetto di un centro medico. Avendo l’appuntamento sono rimasto il tempo necessario per le visite e non sono riuscito a gustarmi a fondo i quadri presenti. Il centro medico è super-organizzato. Prima ti chiamano in un ambulatorio per le visite più veloci e le domande di routine. Dopo qualche minuto un secondo medico ti fa l’elettrocardiogramma sotto sforzo. Non ti sei ancora ripreso dalla fatica della cyclette che un terzo dottore ti sottopone al controllo della pressione e ti ausculta respiro e battito cardiaco. Dev’essere quello più alto in grado perché è lui che mette la firma definitiva sul certificato medico, ma da come mi ha liquidato si vedeva che aveva fretta e voleva evitare un rallentamento della produttività. Mi ha chiesto che sport facessi ma ha frainteso il nome della disciplina, storpiando il mio “circuit training” in “circus” e basta. Prima si è sorpreso che da ragazzo avessi fatto poco sport, poi mi ha fatto i complimenti per la pressione e per il fatto che non fumo e al momento del commiato, stringendomi la mano prima di darmi il certificato, mi ha augurato “buon circus”.

Avrei voluto correggerlo ma la porta era già aperta, lui troppo zelante e il tempo a disposizione scaduto. Nella concitazione mi sono persino dimenticato, prima di uscire, di fare qualche foto ai quadri di Andy dei Blu Vertigo da pubblicare a corredo di questo post ma, se siete interessati, non credo ci siano problemi a dare un’occhiata quando preferite. Forse Andy dei Blu Vertigo è di Bresso e, per vedere la mostra, non è nemmeno il caso di prenotare una visita medica sportiva.

Foals – Everything Not Saved Will Be Lost Part 2

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Per chiunque si occupi di rock, in Italia, risulta difficile non dichiararsi esterofilo ed è una storia vecchia quanto il primo quarantacinque giri di Elvis Presley. E qualsiasi tentativo di riconciliazione con la madrepatria viene meno quando uno dei tuoi gruppi preferiti passa inosservato persino se un concorrente di XFactor esegue un loro brano in tv ai bootcamp (o come diavolo si chiamano) e non si scatena la caccia alla versione originale come accade, invece, per un Samuele Bersani qualunque. Una talentuosa band di ragazzini, peraltro poi eliminata d’emblée, ha proposto in una maniera filologicamente ineccepibile, nel corso di una puntata di qualche settimana fa, “Number” dei Foals senza che nessuno ne desse il meritato risalto. Nell’ultima vacanza che ho trascorso in UK, un paio di anni orsono e ad altrettanti di distanza da “What Went Down” che, allora, era l’ultimo album uscito della band di Philippakis, i Foals capitava invece di sentirli persino alle radio diffuse nei negozi di abbigliamento, con il personale che li canticchiava a tempo mettendo al loro posto sullo scaffale i capi abbandonati nei salottini di prova.

Chissà che le cose non cambino con la doppietta messa a segno quest’anno. Dare alle stampe un album in due parti come “Everything Not Saved Will Be Lost”, la prima a distanza di pochi mesi dalla seconda, la dice lunga sullo stato di salute compositiva del gruppo, malgrado il recente forfait di Walter Gervers, bassista e padre fondatore della band. Un successo che comunque ha radici antiche. I Foals sono la più convincente realtà indie inglese almeno da quando il loro math rock iper-quantizzato degli esordi si è fatto più energico, più cupo, più elettronico, più elaborato e, soprattutto, meno rigoroso.

In ogni album dei Foals (“Antidotes” a parte, ve lo concedo) la gamma dei generi musicali è sempre amplissima. Si va dal più moderno post-punk a certe trovate pop che rimandano addirittura ai Maroon 5 o a quel modo distratto, decisamente indie, di fare della musica da ballo dalle reminiscenze tropicali, con l’uso ironico e casuale di percussioni degno di un “Disco samba” d’altri tempi. C’è il punk-funk scanzonato che si alterna all’introspezione, appartenenza subito sconfessata da violente incursioni nell’alternative rock. Un sound così ricco di suoni e una perfezione tecnica da varcare talvolta il limite del progressive, per qualche sconfinamento in quella zona promiscua dove pop e barocchismo elettronico consentono la fioritura di un ambiente in cui i mostri sacri della musica colta – quelli che si sono rovinati di seghe virtuosistiche accompagnate da improbabili falsetti alla Yes – vanno a prendersi una boccata d’aria dopo estenuanti esecuzioni di ritmi dispari guidate dal click.

Restano inalterate alcune costanti. L’inconfondibile incrocio di chitarre di Jimmy Smith e Yannis Philippakis, sia nei raddoppi distorti all’unisono a ricalcare il basso che nelle ritmiche pulite monofoniche che nascono dai riff (le note iniziali di “Wash Off”, per capirci). Il registro abrasivo spalmato in abbondanza su ogni brano il cui attrito, traccia dopo traccia, porta all’usura dei timpani. Le impeccabili trovate ritmiche di Jack Bevan alla batteria, una vera macchina da ritmo al pari di una drum machine. L’uso modernissimo ma tutt’altro che modaiolo dei synth di Edwin Congreave. Fino al timbro della voce solista di Philippakis, il vero marchio di fabbrica, la costante che conferisce ai Foals quella nota di amarezza che piace tanto ai fan della musica deprimente, il genere più di ogni altro senza tempo.

Resta il punto interrogativo sul perché dividere un concept artistico in due volumi. Un solo album sarebbe risultato prolisso? Ma poi chi se ne importa. Meglio così. La musica dei Foals è talmente ricca e densa che un doppio di venti canzoni avrebbe reso impegnativo un ascolto completo dall’inizio alla fine, ai tempi degli skip illimitati messi a disposizione dagli account premium di Spotify.

Ogni canzone, anche in “Everything Not Saved Will Be Lost – Part 2” è un concentrato di strati, da quelli portanti melodico-armonici a quelli periferici dei dettagli e delle parti accessorie, per una gravità da record. Senza contare l’abitudine di forzare verso minutaggi all’eccesso la natura di ciascuna canzone, pratica che, quando è eseguita con maestria – ed è il caso dei Foals – non genera sensi di colpa in chi si dilunga troppo con l’esperienza d’ascolto. Brani come “Black bull” e”10,000 Ft.” costituiscono l’esemplificazione più eloquente di questo aspetto dell’approccio compositivo della band.

Il fatto è che anche nel secondo capitolo del dittico di “Everything Not Saved Will Be Lost” i Foals si confermano dei tipi tutt’altro che musicalmente accomodanti. In questo sequel, poi, i toni si fanno ancora più ruvidi, le voci più distorte, la tensione più alta. E anche negli episodi più ammiccanti, a partire dal singolo “The Runner”, è chiaro che c’è una componente irrisolta che impedisce alla band di abbandonarsi al pop. La parte due di “Everything Not Saved Will Be Lost” ci restituisce il lato più aggressivo dei Foals. Anche la ballad “Into The Surf” compromette l’intento di dare una lettura benefica dell’album. Laddove manca la spinta subentra la malinconia più profonda a cui la traccia seguente e conclusiva, “Neptune”, collabora per conferire il colpo di grazia con i suoi dieci minuti e rotti di crescendo emotivo.

I Foals, purtroppo, ci hanno abituati a tempi eterni tra un album e quello successivo. Ma questa botta da venti canzoni – un nuovo capolavoro a tutti gli effetti – ci fa presumere che l’onda di “Everything Not Saved Will Be Lost” parti 1 e 2 sarà lunga, ricca di estratti, live e remix. Ci sarà quindi moltissimo materiale e numerose occasioni per ingannare il più possibile l’attesa prima della pubblicazione del loro prossimo disco.

Siouxsie & The Banshees – Tinderbox

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[questo articolo è uscito su Loudd.it]

A metà anni 80 alcuni degli artisti new wave post-punk – insomma, la musica che piaceva a quelli che andavano in giro conciati come Robert Smith – mutarono pelle a seguito di una sorta di break-even point da cui nessuno è più tornato indietro. Le cose erano cambiate – e di molto – e, consapevoli di un mercato che virava altrove secondo le esigenze di sensibilità diverse, come gli animali braccati che si giocano il tutto per tutto si erano rifugiati nelle tane del dark più oscuro costruito paradossalmente su matrici più accessibili. Rivolgersi a più persone, con canzoni dalle tinte più fosche.

Pensate a “The Head on the Door” o “Kiss me kiss me kiss me” dei The Cure, a “Black Celebration” e “Music for the Masses” dei Depeche Mode o a “Night Time” e “Brighter Than A Thousand Suns” dei Killing Joke. Proprio queste tre band torneranno poi ridosso del decennio successivo con dei dischi che, degli anni 80, sonorizzeranno la cerimonia funebre: quel capolavoro che è “Disintegration”, il successo totale di “Violator” con un’improbabile (per un gruppo elettronico) chitarra protagonista, e l’industrial punk di “Extremities, Dirt & Various Repressed Emotions” con cui Jaz Coleman e soci fanno ciao ciao con la manina ai fan del gotico melenso, ancora vestiti di nero, l’eyeliner sbavato e dieci anni in più sul groppone.

In questo scenario, Siouxsie & The Banshees – la regina del dark accompagnata dal suo rinnovato entourage di creature della notte – non è stata da meno. Lasciando negli annali della storia della musica le sonorità vibranti, elettriche, sbrigative e psichedeliche alla base della sua personalissima produzione delle origini, quella diventata ispiratrice della quasi totalità delle songwriter alternative e depresse del duemila, Siouxsie si apre a una fase ai tempi fraintesa come transitoria e, a distanza di trent’anni, palesemente di maturità, che ha raccolto in un disco pressoché perfetto come “Tinderbox” il massimo del suo splendore.

La copertina di “Tinderbox” riproduce in rosso scuro la stessa forza distruttiva del tornado di “Stormbringer” dei Deep Purple che, a sua volta, era già stato visto su “Bitches Brew” di Miles Davis lungo uno dei rarissimi casi, nella musica, di foto da cover art già utilizzate in precedenza e, soprattutto, da artisti che non c’entrano un cazzo l’uno con l’altro, se non nella voglia di ridurre in polvere qualcosa. Nel caso di Siouxsie & The Banshees, si parla di città sepolte dall’impeto della natura proprio nel primo singolo tratto dall’album, brano che corrisponde con uno dei più grandi successi della band. “Cities in dust”, probabilmente ispirata da una visita a Pompei, è un dialogo con la civiltà sconfitta dalla natura, oltreché un grande successo commerciale.

“Tinderbox”, settimo album in studio della band, è anche il primo con il nuovo chitarrista – l’ex Clock DVA John Carruthers – che prende il posto occupato temporaneamente da Robert Smith in sostituzione dell’ingombrante John McGeoch. Le cose cambiano, e in meglio. Il riff di chitarra di “Candyman” – la prima cosa che esplode sul piatto mettendo il disco – non passa inosservato, statuario e solido a cavallo della discesa di toni del basso e dalla batteria prorompente, una base ritmica che contribuisce a rendere il secondo estratto dall’album uno dei momenti indimenticabili del dark di tutti i tempi. Per non parlare dell’apporto del nuovo musicista agli altri brani a partire dall’arpeggio di “The Sweetest Chill”, una formula che si ripete nella splendida “Cannon” e nella struggente ballad “92°”.

Ma i momenti di eccellenza non finiscono qui. “Party’s Fall” è una canzone perfetta per melodia e struttura. Il modo inimitabile in cui si alternano le parti ne fanno un vero gioiello e l’andamento ritmico è quello di un classico delle playlist da festa da ballo in costumi gotici, un brano che sino all’ultima nota, soprattutto con la sua tirata conclusiva, non finisce mai di stupire.

Ma la vera perla del disco è la traccia finale. La composta e articolata figura di batteria con cui “Land’s End” inizia, affiancata dalle note del basso e dagli interventi misurati di chitarra, creano i presupposti per una linea di voce superba, in grado di decidere i giochi fino all’accelerazione strumentale del cambio e oltre. Raddoppia il tempo, si moltiplicano le sensazioni. “Land’s End” si rivela uno dei brani più rappresentativi di Siouxsie & The Banshees poiché concentra il meglio della loro ispirazione: atmosfere cupe, complessità compositiva, alternanza di dinamiche, armonia sofisticata.

“Tinderbox” costituisce un momento unico della band e il ritratto più riuscito di un momento musicale che non tornerà più. Resta il rammarico per il singolo uscito successivamente all’album, quel “Song from the Edge of the World” pubblicato pochi mesi dopo che però non ne fa parte, se non nelle edizioni su cd postume. Sarebbe stato il modo più adatto per chiudere, su vinile, un’era pronta a disintegrarsi e digitalizzarsi ma ancora fragile nel suo aprirsi alle sonorità che, di lì a poco, trasformeranno le cose senza possibilità di ritorno.

Kim Wilde – Kids In America

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Il pop, il genere che più di ogni altro trascende le epoche storiche, da sempre lo si produce seguendo le linee guida stilistiche ed estetiche che vanno per la maggiore in ogni specifico momento. Lo scopo è evidentemente commerciale altrimenti, appunto, che pop sarebbe? Nei primissimi anni 80 spesso erano new wave e sintetizzatori a dettare legge, ma dato che ai tempi c’erano tante altre cose molto appealing (la prima dance elettronica, il funky e un certo hard rock light, passatemi il termine), che i produttori si rifacessero a Gary Numan o ai Devo o ai Blondie non era certo scontato.

Prendete un brano come “Kids in America”, il successone di Kim Wilde pubblicato nel 1981 e campione di incassi un po’ ovunque. Per spingere le doti artistiche e l’avvenenza fisica della cantante britannica, chi ha prodotto il pezzo avrebbe potuto svolgere il proprio compitino come in tante altre occasioni, oppure conciare Kim Wilde come una Joan Jett qualunque (la sua cover di “I Love Rock ‘n’ Roll” è più o meno contemporanea) e farle interpretare la metallara del momento.

Invece l’intuizione di Ricky Wilde, fratello di Kim, e di Mickie Most della RAK Records (etichetta per cui uscirà il disco) è vincente e lungimirante. Lo stile di “Kids in America”, canzone nata da una linea di basso venuta di getto sul synth Wasp di Ricky, ancora oggi manda in sollucchero gli amanti di quel rock-wave di transizione che, non so come la pensiate, ma è uno dei prodotti più freschi mai usciti sul mercato. Il synth pop da classifica e il dark più introverso erano ancora agli albori, e in quel periodo di grande fermento certe canzoncine imbellettate con qualche tratto new wave non passavano inosservate (pensate all’arrangiamento di “Amoureux solitaires” di Lio o, per certi versi, a un pezzo come “Enola gay” degli OMD) per non parlare del fatto che erano oltremodo radiofoniche.

C’è poi anche il fattore Kim Wilde che, per i ragazzini in balia delle prime tempeste ormonali, univa il desiderio di emancipazione stilistica dal passato con il desiderio tout court, una versione più provinciale e accessibile di Debby Harry (scusami Debby se ti ho usato come termine di paragone), oramai assurta a simbolo a tutti gli effetti dello star system. Peccato però che Kim Wilde, pur con il suo talento, non abbia superato le tre unità di successi e sono stato generoso perché comunque “Cambodia” ha un suo perché e la sua versione di “You Keep Me Hangin’ On” delle Supremes, uscita cinque anni più tardi, pur trascurabile, ebbe un buon riscontro.

E, a proposito di musica, oltre alla facilità con cui si ricorda la melodia e quell’ammiccante botta e risposta tra Kim e il “woo-o” di voce maschile, c’è un aspetto che caratterizza fortemente “Kids in America”. La hit di Kim Wilde è uno dei brani con le parti di synth più riuscite che si possa ascoltare in giro, e non solo dei tempi in cui è stata pubblicata. A partire dalla sequenza di arpeggiatore in uscita dal primo ritornello e che poi rimane sotto tutto il resto del brano, al suono che doppia l’efficace coro che subentra al secondo e all’ultimo ritornello, fino alle strings che prendono prepotentemente la scena nella coda del brano a marcare la scansione di accordi e al Moog che scala i gradi principali della tonalità mentre sotto tutti gridano/cantano di essere ragazzi in America. Ma se prestate attenzione, proprio mentre la canzone sfuma nel nulla, vi accorgerete anche di una specie di sirena che si mescola al resto, e peccato che quella chicca si percepisca appena perché, messa in primo piano, avrebbe generato l’apoteosi.

ma ci pensi mai a noi due agli sbagli?

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I lyrics video sono utili quando non capisci le parole delle canzoni, una specie di video sing-a-song del duemila e rotti. La differenza è che a montare i testi sulle immagini non è chi si occupa di post-produzione televisiva a Deejay Television ma il vostro dirimpettaio o il compagno di banco della figlia del vostro collega che si cimenta con le trascrizioni il più fedelmente possibile e poi si immola alla celebrità da youtube. Per questo, quando ho visto la prima volta il video di “Mancarsi” dei Coma Cose e ho notato i refusi nella sottotitolazione, ho pensato all’opera di qualcuno dei milioni di dilettanti del video editing che contribuiscono al successo dei loro beniamini. Poi invece ho scoperto che il video con le parole che accompagnano il cantato sembra essere quello ufficiale del duo indietrap e mi sono chiesto come sia possibile che nel 2019 si pubblichino online versioni definitive di clip con refusi di questo tipo. Poca roba e nulla di trascendentale, sia chiaro, però considerando la portata e la popolarità del prodotto una seconda occhiata a qualcuno che ci capisce di correzione di bozze forse ci voleva. Passi “è” seguita dall’apostrofo tutte le volte che compare – potrebbe trattarsi di un problema di font – ma “lontanaza” senza una enne a 02:38 la dice lunga sull’attenzione che è stata posta al confezionamento del video. A meno che gli sbagli siano voluti come faccio io quando scrivo e, visti i giochi di parole che si trovano in “abbondaza” nei brani del loro disco, siano stati lasciati per farci pensare un po’, proprio come cantano loro.

dissimile

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Premesso che ho molti amici che hanno figli, i figli dei miei amici e semplici conoscenti sono quasi tutti una copia del loro genitore di riferimento. Il mio chitarrista nerd ha fatto un tecnico del suono tredicenne nerd che disquisisce di virtual mixer come io alle medie argomentavo le mie interpretazione delle regole del Subbuteo. La figlia della pazza del portone accanto al mio ha quindici anni ma ti guarda come si ti invitasse a giocare nella stanza 237 con la sua sorella gemella. Poi ci sono genitori secchioni che hanno fatto figli secchioni, madri single che sono le copie esatte delle loro ragazze adolescenti e viceversa e sono così dipendenti l’una dall’altra che un po’ le invidio. Scout hanno plasmato scout, poco di buono hanno ragazzi già problematici alle superiori, avvocati notai e farmacisti si tramandano le professioni di generazione in generazione. La mia, sotto questo aspetto, non c’entra un cazzo con me. Meno male, direte voi. E avete ragione. Meglio così, e me ne prendo il merito. Le ho passato contenuti neutri, perfetti per prendere le distanze. Nell’insieme si vede che c’è del mio, ma solo se siete fini osservatori.