agli albori del successo, alla fine del sonno

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Stanotte ho fatto un sogno particolarissimo. I Litfiba avevano pubblicato un EP a cavallo tra “Eneide di Krypton” e “Desaparecido”, un vero e proprio concept intitolato “Auschwitz non esiste”. Non si trattava però di un vero e proprio disco. Intanto aveva le sembianze di un testo colto per bambini, non so se avete presente le copertine di certi libri di Rodari o Munari. Dentro, oltre al booklet con le liriche, la storia e tutto il resto, c’era il disco e una vhs. Questa tripartizione di formato andava rispettata con la medesima successione in fase di approccio. Prima bisognava leggersi tutto, quindi si ascoltava la musica sul vinile la cui continuazione sfumava direttamente in una specie di esecuzione live nel video, nel quale però Piero Pelù, più che cantare, recitava le parti presenti nel libretto incluso nel box set. Ricordo benissimo la melodia della titletrack, in cui il ritornello ripeteva il nome del lager nazista e ne negava paradossalmente l’esistenza. Si trattava, ovviamente, di una provocazione, una sorta di “Dio è morto” in cui la mancanza di valori della società contemporanea metteva in discussione i paradigmi della storia stessa, tanto che una tragedia come quella dell’olocausto preferiva auto-infliggersi una damnatio memoriae piuttosto che essere oggetto di vilipendio di una civiltà irriconoscente e imbarbarita. La prima cosa a cui ho pensato, al risveglio, è che i Litfiba di allora ne sarebbero stati capaci.

Promised you a miracle – Simple Minds

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Se pensate che chitarra e voce siano tutto, in una band, provate a immaginare di sostituire una sezione ritmica con un’altra che, con il genere che suona il vostro gruppo, non ci azzecca per niente.

Il lavoro in studio per la registrazione di “Sons and fascination” si chiude con un brutto colpo per i Simple Minds. Il batterista Brian McGee, raro esempio di musicista tecnicamente dotato prestato al post-punk/new wave, abbandona il progetto. È stanco dell’impatto dello show business sulla vita privata – come biasimarlo – e sceglie di dedicarsi di più alla famiglia. Siamo nell’estate del 1981 e il tour per l’album che uscirà a settembre è alle porte. Ma il colosso Mel Gaynor, quel possente batterista che assicurerà la tenuta delle canzoni della band scozzese a fondamenta ritmiche massicce e profonde, entrerà in formazione solo a luglio dell’anno successivo, chiamato a dare man forte per la finalizzazione di “New Gold Dream”.

I Simple Minds si affidano così alle bacchette di un certo Kenny Hyslop, batterista scozzese che bazzica nei gruppi underground ma che non disdegna suonare cose diverse. Così diverse da spaziare persino nella black music e nel funk e in modo così determinato da generare un effetto immediato nello sviluppo dello stile del gruppo. Hyslop resterà per un tempo sufficiente a comporre, arrangiare e registrare un brano anomalo per la produzione dei Simple Minds, fino ad allora così rigorosa nei freddi parametri della new wave. Dal nuovo innesto prende vita “Promised you a miracle”, brano orecchiabile che, se dapprima si profila come singolo, porterà talmente fortuna da venire incluso, insieme a pezzi come “Someone Somewhere in Summertime” e “Big Sleep”, nella tracklist di quello che sarà il successivo e luccicante capolavoro della band.

Non a caso Jim Kerr ha dichiarato, anni dopo, che “Promised you a miracle” è da considerarsi il primo vero brano pop dei Simple Minds, ed è facile intuirne le ragioni. L’ispirazione per la nuova canzone nasce dall’ascolto di una compilation su cassetta di funky e hip hop newyorkese diffusa sul pullman che scarrozza in tour la band, un nastro proposto proprio da Hyslop. Il riff del brano, pensato probabilmente per una sezione fiati, viene magistralmente adattato da Mick MacNeil per i suoi sintetizzatori. Derek Forbes, al basso, non si tira indietro a doppiare l’andamento danzereccio della nuova canzone imposto dalle parti di batteria, inventando un linea funk magistrale.

Un’alchimia di spunti che, unita alla chitarra di Burchill e all’inconfondibile timbro di Kerr, fa balzare “Promised you a miracle” al tredicesimo posto della classifica inglese, assicura ai Simple Minds la prima esibizione della carriera, il 15 aprile dell’82, al programma “Top of the Pops” e spalanca alla band scozzese le porte dei magazine musicali per adolescenti, un pubblico più interessato al look dei musicisti più che all’arte in sé, siamo pur sempre negli anni ottanta e l’esplosione dei Duran Duran è dietro l’angolo.

Un aspetto che non toglie un briciolo di dignità a una vera hit. È sufficiente isolare le parti di ogni strumento che suona in “Promised you a miracle” per percepirne nel dettaglio la bellezza. Su tutti, il ritmo di tamburi nel cambio, l’intera linea di sintetizzatori sotto la strofa (per un tastierista cresciuto musicalmente negli anni 80 Mick MacNeil da solo vale più di tutti i Depeche Mode messi insieme), il modo in cui gli effetti di chitarra sanciscono il marchio di fabbrica dei Simple Minds anche su questo brano, il groove del basso che, davvero, armonicamente non fa mancare nulla e riallinea il mood generale all’estetica dei tempi, a cavallo tra dance, musica nera e matrice tipicamente british.

L’aspetto paradossale è che l’apporto di Kenny Hyslop risulterà poco più che una toccata e fuga, perché già nel febbraio dell’82 non gli viene rinnovata la fiducia, tanto da non comparire nemmeno nel video del brano composto insieme. Sembra non essere adatto e, forse, anche se l’esperienza di “Promised you a miracle” è stata fondamentale al successo di Kerr e soci, probabilmente dietro alla batteria c’è bisogno di conservare meglio la matrice new wave.

Di lì a poco uscirà “New Gold Dream” – un disco epocale, sia chiaro – che, anche grazie al singolo che l’ha preceduto, denota una virata verso uno stile decisamente più confortevole per l’ascoltatore medio. Le algide sperimentazioni di album come “Real to Real Cacophony”, “Empires and Dance”, “Sons and Fascination” e “Sister Feelings Call” lasciano il campo a una new wave più lineare, matura e completa. Un punto di non ritorno di un momento musicale che ha già i mesi contati e di un’esperienza artistica sublime che terminerà definitivamente con la cacciata di Derek Forbes dopo il successo mondiale di “Don’t you”, nel marzo dell’85. Il bassista verrà grossolanamente rimpiazzato da un ineccepibile quanto impersonale session man come John Giblin, scelta che condannerà i Simple Minds ai fasti della gloria commerciale ma all’abbandono di un genere che non ha eguali, nella storia della musica.

Di certo, però, la pubblicazione di “Promised you a miracle” – una prova esemplare del fatto che con gli elementi giusti una band può adattarsi a sopravvivere anche in territori inospitali – non lasciava presagire la definitiva caduta di “Once upon a time” e tutto quel pop inutilmente enfatico che c’è stato dopo. Chissà, se Derek Forbes non fosse stato allontanato e con Brian McGee ancora alla batteria, quale sarebbe stata l’evoluzione più naturale dei Simple Minds, da metà anni ottanta in poi. La strada di “Sparkle in the rain” sembrava, tutto sommato, quella più adatta.

il giochino dei concerti

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Il giochino dei concerti che vedete sulle bacheche dei vostri amici musicisti o musicofili su Facebook l’ho fatto pure io che, quando vedo questi tormentoni social, me ne sto alla larga. Eppure mi ha preso così tanto che ho deciso di copiancollarlo qui:

▪️First concert: Bennato allo stadio Bacigalupo di Savona, 1981
▪️Last concert: The National a Rho, settembre 2018 (a parte i Four Tiles a Vittuone qualche mese fa)
▪️Best concert: da musicista con Mr. Puma e i Raptus al Controfestival di Sanremo nel 95, da spettatore i Sigur Ros a Villa Arconati nel 2003
▪️Loudest concert: i Meathead a un volume esagerato in un locale di Genova di cui non ricordo il nome e credo che nemmeno esista più
▪️Seen the most: The National
▪️Most fun concert: Subsonica al centro sociale Inmensa di Genova nel tour di Microchip Emozionale (credo nel intorno al 2000)
▪️Worst concert: Simple Minds nel 1991
▪️Most surprising concert: gli Air
▪️Next concerts: Algiers
▪️Wish I had seen: Genesis con Peter Gabriel

la migliore colonna sonora del Natale

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Ogni anno è sempre la stessa solfa. Ci svegliamo la mattina e cerchiamo la migliore colonna sonora del Natale. La cerchiamo tra la nostra collezione di dischi. La cerchiamo su Spotify. La cerchiamo nelle cartelle di musica che occupano il settantotto per cento della memoria removibile da 128 giga del nostro smartphone. Prima optiamo per la cosa che riteniamo più originale e la scegliamo con la stessa oculatezza con cui scendiamo in cantina per portare in tavola la bottiglia che teniamo in serbo per l’occasione da mesi se non da anni. Mettiamo sul piatto il vinile del 1975 del Coro dell’Antoniano diretto da Mariele Ventre con i canti di Natale che abbiamo salvato dal macero insieme agli altri trentatré giri dal sottoscala della scuola in cui insegniamo ma poi, al secondo minuto di “Tu scendi dalle stelle” delle voci bianche, ci accorgiamo dell’inadeguatezza con i sedici gradi e il sole primaverile che ci sono fuori della copertina innevata del disco. Proviamo allora con il “Concerto per la notte di Natale dell’anno 1956” di Luigi Dallapiccola ma poi la dodecafonia si perde con l’aspirapolvere che tira su le ragnatele e le briciole prima che arrivino gli ospiti, i mobili che si spostano per lasciare spazio al tavolo esteso al massimo, le telefonate dei cugini di secondo grado che non sentiamo dal Natale dell’anno scorso. Proviamo con qualcosa di più natalizio come chiedono le nostre mogli. La nona di Beethoven che però, con tutta quella dinamica, risulta di difficile controllo e poi non fa tanto Natale anche se era la preferita del nonno. A quel punto ci giochiamo la carta delle playlist di Spotify, ma dopo “Jingle Bell Rock” e “All I Want for Christmas is You” ci rendiamo conto, come se non fosse mai successo, che siamo troppo intelligenti per lasciare che un algoritmo scelga una colonna sonora per noi. Per compensare l’eccesso di capitalismo imperialista proviamo quindi con la compilation dei più celebri canti di Natale della tradizione interpretati dal coro dell’Armata Rossa ma poi ci lasciamo tentare dalla raccolta “The Stalin Album” che inevitabilmente cambia l’atmosfera della festa tanto che, su “Poljuško Pole”, gli invitati si rendono conto che la musica costituisce ben più che un anonimo sottofondo. A quelli che chiedono “Last Christmas” rispondiamo che hanno ampiamente rotto il cazzo e che al terzo o quarto anno il “Whamageddon” non fa ridere più nessuno e che, per il prossimo Natale, è meglio che si trovino qualcosa di nuovo. Proviamo allora con l’ellepì “Stolen Moments” di Oliver Nelson ma per carità, il jazz con gli ottoni dà fastidio mentre si mangia. Proviamo con gli anni ottanta ma è un genere a cui oramai siamo troppo sovraesposti. I più giovani vorrebbero la musica del loro tempo ma il Natale, si sa, è la festa degli anziani e dei bambini e gli adolescenti così, appena possono, si rifugiano in cameretta con i loro social del cazzo. Così, per mettere tutti d’accordo, alla terza bottiglia di vino metto del reggae, tanto è tutto uguale e di quello che si ascolta non se ne accorge più nessuno.

i migliori 10 dischi del 2019

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  01) Liberato – Liberato

  02) The Foals – Everything Not Saved Will Be Lost (Part 1 e 2)

  03) The National – I Am Easy To Find

  04) Sudan Archives – Athena

  05) Black Midi – Schlagenheim

  06) Comet is coming – Trust In The Lifeforce Of The Deep Mystery

  07) Sharon Van Etten – Remind Me Tomorrow

  08) Rosie Lowe – YU

  09) Christian Scott aTunde Adjuah – Ancestral Recall

  10) Lana Del Rey – Norman F******g Rockwell!

ska in piazza

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Comunque vorrei farvi notare che l’ultimo baluardo rimasto del rocksteady in Italia è Sabrina Musiani – figlia del celebre Enrico – la quale ha riproposto, tale e quale, la versione in levare di “Guarda che luna” degli Arpioni, presentandola persino a “Voci in piazza”, in un tripudio di anziani come me.

 

le dieci canzoni italiane più ingiustamente sottovalutate

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Se avessi il superpotere di imporre il successo delle canzoni solo per il fatto che, in quanto massimo esperto musicale vivente (superpotere invece di cui sono provvisto) sono certo che meritano il successo, mi attiverei per rendere imperitura fama alla manciata di canzoni italiane che vado a elencare per un duplice motivo. Da un parte c’è la sete di giustizia: non è perché certa musica è di nicchia e allora la devono ascoltare solo i soliti quattro gatti. Dall’altra c’è lo sforzo di far schiumare di rabbia tutti i compositori miliardari di quei brani di merda che hanno venduto miliardi di copie. Ci pensavo qualche mattina fa quando una di quelle colleghe che sbagliano ha messo in classe “Blu Da Ba Dee” degli Eiffel 65 o come cazzo si chiamano, roba che in una civiltà mediamente evoluta non sarebbe selezionata nemmeno come sottofondo in un documentario sulla deprivazione sociale. Di fronte a un’aula di bambini in evidente estasi indotta da fattori quali la cassa dritta, la ricorsività strutturale e la sicurezza suscitata da certa elettronica pensata per andare a toccare le frequenze più basse della sensibilità umana, avrei voluto smontare la teoria della musica commerciale con qualcosa di analogamente trascinante ma non mi è venuto in mente nulla. Ho deciso di consumare così la mia vendetta contro Gabry Ponte e i suoi facoltosi sodali sulle pagine di questa autorevole testata raccogliendo una playlist di brani che probabilmente solo io ho capito. Alcuni hanno avuto qualche timido plauso, altri sono durati una manciata di giorni, altri ancora proprio non se l’è filati nessuno.

Ho pensato così metterli qui per la vostra comodità, una seconda opportunità non la si nega nemmeno agli Eiffel 65.

Francesca Lago – Niente per me

Amari – Bolognina Revolution (Persuaders rmx)

Mietta – Oggi Dani è più felice

Blindosbarra – Non ci stare

Petrol – Devo andare via domani

Delta V – In Fuga

Truzzi Broders – Ti ho visto in piazza

Trabant – Tonight party

Jolaurlo – Maria Tv

Luca Carboni – Ogni cosa che tu guardi

cose da non vedere a 40 anni dall’uscita di “London Calling”

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Il primo giugno del 1980, in Piazza Maggiore a Bologna, si tenne il concerto dei Clash gratuito organizzato dal Comune, e cioè dal PCI. La cosa divertente è che vi fu qualche cretino che contestò l’iniziativa. PCI, Clash, Bologna, 1980. Buon “London Calling” a tutti, a 40 anni dalla sua pubblicazione.

storia di un matrimonio

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Storia di un matrimonio (Marriage Story) è un film del 2019 scritto e diretto da Noah Baumbach, interpretato da Scarlett Johansson e Adam Driver.

La trama
Charlie è un famoso regista teatrale sposato con l’attrice Nicole, da cui ha un figlio piccolo. I due stanno attraversando problemi matrimoniali e si sottopongono a una terapia di coppia. Charlie infatti è un assiduo ascoltatore di progressive e, fatto oramai consolidato, il progressive si conferma elemento oltremodo divisivo tra un uomo e donna. Lo psicologo suggerisce a Charlie di limitarsi all’ascolto dei dischi più inclusivi per i non addetti, partendo da “Storia di un minuto” e “Per un amico” del complesso italiano della PFM. Nicole imputa al marito la responsabilità della crisi a causa dei King Crimson del periodo Belew ascoltati a palla, per non parlare degli Yes di “Drama” (un disco che vanta detrattori sia dagli amanti del genere che da chi non sopporta il progressive) e delle composizioni più barocche dei Genesis. Un amico d’infanzia di Charlie, nel corso di un confronto sul migliore disco del decennio agli sgoccioli, gli consiglia “The Raven That Refused To Sing” di Steven Wilson facendo scoprire al regista il mondo dei Porcupine Tree e di tutte le forme in cui si è trasformato il progressive moderno, al di là di quelle porcherie alla Dream Theater che i pressapochisti della musica fanno passare come naturale evoluzione delle gesta dei padri del genere che hanno diffuso il verbo dei tempi dispari ovunque sulla terra. Tutto questo fino a quando Nicole scopre che Charlie ha postato sul suo profilo Facebook il video di “Venus Rapsody” dei Rockets, confessando pubblicamente che quello è il brano che, in assoluto, gli sarebbe piaciuto comporre più di ogni altro.

ora vi insegno come si fa a essere un vero estimatore dei Cure

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Ieri pomeriggio mi ha telefonato Robert Smith, il cantante dei Cure, per esprimermi personalmente un ringraziamento per la mia fedeltà. L’avrebbe fatto prima se non avessi cambiato il numero di telefono. Qualche anno fa – facevo ancora il copywriter – ho avuto una SIM aziendale e da allora ho dismesso il mio vecchio recapito personale perché, alla fine, tutti mi chiamavano sul nuovo numero. Probabilmente a Robert Smith gli era sfuggito questo passaggio e ho apprezzato molto il fatto che abbia chiamato mia mamma – ai tempi del mio primo colpo di fulmine con “The Top” avevo diciassette anni e vivevo ancora con i miei genitori, e Robert conservava ancora il mio vecchio numero di casa – per chiedere informazioni. Ma la cosa sensazionale è che poche ore dopo, chiacchierando con Roberta durante lo stretching in palestra, ho scoperto che i Cure piacciono ad entrambi. Certo, non come a me, ma comunque li segue da tempo. Il fatto è che non li ascolta più molto perché a suo marito non piacciono. Io potrei chiedere il divorzio se mia moglie pretendesse una cosa simile, e già una volta mi sono arrabbiato tantissimo perché ha messo “The Head on the Door” partendo dal lato B. Il problema però è un altro, e lasciate perdere che Roberta si chiama come me e come Robert Smith. Lei ascolta i Cure ma apprezza anche cose che con i Cure c’entrano poco, come i Muse e i Placebo. Io non credo che si possa essere un estimatore dei Cure e ascoltare cose così, come non credo che si possa essere un estimatore dei Cure e ascoltare altro che non sia Siouxsie and the Banshees.

Roberta ha visto i Cure la prima volta da ragazzina nel duemila e mi sono trattenuto dal raccontarle del Teatro Tenda nell’85. Abbiamo parlato della sua storia d’amore descritta in “Lovesong” e che dura da tempo immemorabile e tutto è filato liscio fino a quando ha sostenuto una tesi totalmente infondata sul fatto che Robert Smith abbia composto segretamente diverse hit commerciali, persino brani da discoteca, e Roberta ha usato proprio queste parole. Mi spiace che la conversazione si sia tenuta dopo la chiacchierata con Robert Smith, altrimenti ne avrei approfittato per sottoporgli la questione e capire la veridicità di quanto sostenuto dalla mia compagna di allenamento. Forse era stanca, dopo la fatica dell’attività sportiva, le si è annebbiato il cervello e ha scambiato Robert Smith per qualcun altro. A me non succederebbe mai di confondere così un riferimento fondamentale della mia vita come i Cure. Pochi giorni fa, in macchina, è partita “Glittering Prize” dei Simple Minds e per un attimo ho avuto difficoltà a ricondurla a “Sparkle in the rain” piuttosto che a “New Gold Dream”. Per fortuna con Jim Kerr non ho tutta questa confidenza, quindi sono certo che non verrà mai a scoprirlo.