giorno uno di 365mila

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Sono stato nominato da una mia accanita quanto invisibile lettrice a pubblicare, in 365mila giorni, 365mila canzoni che hanno un impatto deprimente su di me, mi mettono malinconia o tristezza, mi mandano in paranoia – come dicono i giovani d’oggi -, mi fanno piangere e mi ricordano che la musica è bella solo quando tocca le corde della commozione, quanto butta giù di morale, quando soddisfa il lato delle frustrazioni umane e getta nello sconforto. Mi è stato chiesto di pubblicare il video, nessuna spiegazione e nominare ogni giorno una persona che farà, se ne ha voglia, la stessa cosa. Nomino così lo sconosciuto scellerato che utilizzato “The year of the cat”, che è il brano che più di ogni altro mi ricorda quando ero bambino, per musicare un carosello di foto dello stabilimento balneare in cui ho trascorso numerose estati da adolescente. Vaffanculo, ho bagnato di lacrime la tastiera del pc nuovo.

bad – day #32

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Se non fosse che siamo tutti isterici per tutto questo stare in casa mi piacerebbe fare la paternale a quelli che fanno un uso dozzinale di band già di per sé strafamose. Il mio vicino di sotto dice di essere un fan dei Pink Floyd e mette spessissimo i Pink Floyd. I Pink Floyd, inutile che ve lo ricordi, li conoscono anche i sassi e, se devo dirvi la verità, se dovessi scegliere un solo disco che rappresenta la musica di tutti i tempi e dell’umanità intera probabilmente indicherei “The Dark Side Of The Moon”. I Pink Floyd, però, bisogna ascoltarli per intero, perché spessissimo le loro tracce confluiscono nelle successive e, infatti, i compact disc con album come “The Wall” hanno dimostrato tutto il loro limite. Non si possono skippare le tracce di un concept album, credo che sia anticostituzionale e si rischiano non so quanti anni di carcere. Il mio vicino di sotto, che dice di essere un fan dei Pink Floyd, mette sempre “Wish You Were Here” in una versione tratta da qualche raccolta perché priva della parte della trasmissione radio da cui parte il pezzo nell’album, seguita da “Another Brick in The Wall”. Oramai è chiaro: “Wish You Were Here” e “Another Brick in The Wall” sono i suoi due pezzi preferiti, però qualcuno dovrebbe fargli notare che fanno parte di due concept completamente diversi e che, ascoltati in sequenza, non significano nulla. L’idea che mi sono fatto è che il mio vicino di sotto non sia un fan dei Pink Floyd, piuttosto un sempliciotto a cui piacciono le canzoni più famose di un gruppo strafamoso. Mi piacerebbe vedere la sua reazione di fronte a “Meddle” o a “Ummagumma”. Costringerlo a un ascolto forzato di “Us and Them”, che forse lo indicherei se dovessi scegliere un solo brano da un solo disco a rappresentare la musica di tutti i tempi e dell’umanità intera, e compiacermi nell’osservare la sua espressione di voglia di tornare alle sue canzoni strafamose. Non so se mi state seguendo.

Una cosa simile mi capita con gli U2. Prima di diventare il carrozzone addetto al trasporto di tutta la cultura mainstream a cavallo tra i due secoli, gli U2 non erano affatto male. Pensate alla sequenza di “Boy” – “October” – “War” – “The Unforgettable Fire” e vi sfido a trovare quattro dischi di esordio, uno dopo l’altro, così. E un po’ mi spiace se poi alla fine c’è sempre qualche vicino di sotto che mette “With or Without You” o “One”, ma questo vorrà dire che ci sarà anche un vicino di sopra che risponderà con canzoni come “The Unforgettable Fire” o “Bad”.

Questa mattina ho preso la macchina – l’unica delle due rimasta funzionante, nell’altra mi si è scaricata la batteria per l’inutilizzo – e ho attraversato l’hinterland nord-ovest di Milano per recarmi a scuola. Abbiamo deciso di fornire i tablet che abbiamo in dotazione alle famiglie che non hanno strumenti per fruire della didattica a distanza, così ho iniziato a configurarli per consegnarli pronti. Ho guidato in una specie di film distopico in cui in giro non si vedevano che anziani con la mascherina. Ho acceso la radio ed è partita proprio “Bad” degli U2. La giornata prometteva grandi slanci ed emozioni forti ma il tempo non era quello più adatto. “Bad” degli U2 si è dimostrata però la colonna sonora perfetta per la scena, il collante tra il cielo e la terra, il motore e la strada, il prima e il dopo.

Tame Impala – The Slow Rush

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[questo articolo è uscito su Loudd.it]

I Tame Impala suonano un genere a sé. Una posizione di prestigio che ha due chiavi di lettura: Kevin Parker ha davvero inventato uno stile che fa scuola oppure ha passato all’estrattore tutta la musica degli ultimi trent’anni dando vita a uno stile talmente evocativo da contenere l’essenza di tutti gli altri e, anche a un ascolto superficiale, ognuno noi è messo nelle condizioni di trovare un messaggio subliminale di quello che ha dentro, un po’ come la leggenda metropolitana dei frame porno o satanisti tra le scene dei cartoni Disney che ti fanno venire voglia di tette alla fine di “Bianca e Bernie”.

La storia della cover tratta da “Currents” copiata poi tale e quale da Rihanna la conosciamo tutti e rende l’idea del successo trasversale ottenuto dallo scorso album, nominato persino ai Grammy. Se possibile, “The Slow Rush” è un disco ancora più azzimato e barocco, un suono che per semplificare – o da quello che sappiamo dalle autocertificazioni presentate dall’autore stesso – riconduciamo all’art-rock psichedelico, come tutte le cose che non capiamo e che immaginiamo frutto di una mente dedita a perdere tempo speculando su quello che si può spiare sbirciando dagli spiragli delle porte della percezione che qualcuno ha lasciato socchiuse.

Se, quindi, con Kevin Parker vale tutto, “The Slow Rush” è una lenta corsa contro il tempo appesantita da alcuni fattori che portano il progetto Tame Impala ancora più distante dal guizzo di encomiabile ruvidezza stoner di “Innerspeaker”. Nel nuovo album c’è tutto il tempo per sorseggiare aperitivi degustando gli avanzi al buffet, ma il fatto è che se vi eravate lasciati ingolosire, qualche mese fa, dal singolo che ha preceduto l’album, “It Might Be Time”, dalla sua citazione di piano di “The Logical Song” dei Supertramp, dalla bizzarra quanto asimmetrica struttura, dal suono di rullante con quell’effetto che non ha eguali in natura e da quelle note di Moog trascinate all’estremo grazie al glissato, il rischio alla fine è quello di lasciare più di un avanzo nel piatto e fuggire dal locale.

Non ci si può sottrarre a un accostamento con tutti gli esperimenti di pop-prog elettronico derivativo e retro che si sono succeduti negli ultimi decenni e che hanno contribuito a mescolare i Rockets con gli Yes, i Rush con i Queen, Giorgio Moroder con gli Sweet o i Secret Service, a partire dagli Air, i Phoenix fino ai Daft Punk. Kevin Parker, in studio poco più che una one-man band con l’aggravante del timbro ossessivamente in falsetto, aggiunge il valore del suo brand, il marchio di fabbrica che candida già da ora “The Slow Rush” a disco dell’anno e se non volete perdere il carro del vincitore spicciatevi a far valere, a partire da oggi, il vostro diritto di prelazione.

A onor del vero, il lavoro che si intravede sotto le tonnellate di suoni distribuiti tra le numerose parti che si alternano a definire le canzoni del disco risulta sicuramente frutto di una minuziosa ricerca, un vero e proprio viagra per qualunque appassionato di synth, e questo va riconosciuto.

Mentre l’attacco di “Instant Destiny” vi manderà in corto circuito nel tentativo di pensare che cosa vi ricorda, “Borderline” ha tutte le carte in regola per diventare una hit mondiale e far gola a qualche altra popstar in quota Coachella, e il raffinato funk di “Breath Deeper”, con il suo piano dance, non è da meno. Geniale anche il richiamo a Harry Nilsson e alla sua “Everybody’s Talkin’” (che da queste parti potrebbe persino passare per una citazione di “Coriandoli su di noi” dei Ricchi e Poveri ma meglio arrendersi alla coincidenza) di “Tomorrow’s Dust”. I rimandi al passato non finiscono qui – d’altronde siamo nel bel mezzo di un concept-album che ha proprio il tempo come protagonista – ed eccoli riaffiorare proprio con “Lost In Yesterday” e, poco dopo, con il tuffo nel prog-glam di “One More Hour”.

Se “The Slow Rush” si proponesse come un onesto e filologico compendio di storia della musica potrebbe assurgere a manifesto di un nuovo movimento di “indietro-nica”, ma l’impressione è che Kevin Parker abbia ben altre ambizioni. Pur riconoscendone la qualità, un’approfondita esperienza d’ascolto restituisce solo un’espressione di pura musica liquida in senso baumaniano, passatemi il termine, un buon album di lounge molto fighetta o poco più.

underground

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Da quando Elio e le Storie Tese l’hanno messa al bando in quanto bella tutto quanto ma alla lunga rompe i coglioni, non si sente più tanta musica balcanica in giro. Le ultime avvisaglie risalgono forse a una decina di anni fa, ma mi sembra che i fasti delle colonne sonore con le bande di ottoni e le fisarmoniche siano ormai un lontano ricordo, e non solo in termini di distanze tra noi e l’ex-Jugoslavia. Il fatto è che ho una teoria persino su questo. Anche dagli ultimi Eurofestival, che costituiscono tutt’ora l’estremo baluardo per i paesi emergenti musicali europei, mi risulta che l’intera area riconducibile all’ex Patto di Varsavia si sia ormai completamente occidentalizzata e che, di conseguenza, anche il pop slavo sia ormai definitivamente una costola del pop americano, quello pesantemente influenzato dall’R&B-trap contemporaneo. Almeno fino agli anni 90 l’ispirazione al di là della cortina di ferro al massimo aveva le sue radici nell’eurodance. Questa ulteriore virata di globalizzazione ha probabilmente tagliato quei pochi fili che legavano la musica commerciale balcanica con la tradizione, quella di Bregovic, per intenderci. Ci pensavo stamattina perché alla radio hanno passato “Hop Hop Hop” e il suo bizzarro (per i nostri canoni armonici) riff di fiati. Io me li ricordo benissimo i tempi d’oro dei film di Kusturica, perché la guerra non ci era mai stata così vicina e Sarajevo trasmetteva un fascino che non saprei descrivere. Da poco più distante dalle terre di “Kalašnikov” veniva poi questa stramba risposta a “Oh Carolina” di Shaggy. Che tempi (e che intervalli).

radio attività

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Il 13 febbraio è la Giornata Mondiale della Radio, per gli anglofoni World Radio Day, un’iniziativa promossa dall’UNESCO per confermare l’importanza del mezzo di comunicazione più diffuso anche ai tempi del web. Oggi infatti parliamo di programmi radiofonici come modelli di entertainment e non soltanto per il modo in cui il segnale viene emesso. Il format in cui si alternano speaker a musica non necessariamente è inteso fruibile in radiofrequenza ma anche tramite Internet in diretta streaming o in differita come podcast (ma lo stesso vale per la tele, il cinema, i libri, i dischi, il sesso ecc. ma questo è un altro problema).

Per quelli della mia generazione la radio ha svolto ruoli fondamentali e occupato spazi decisivi nel percorso di formazione e crescita. Senza tirare in ballo la politica e le radio libere tra i settanta e gli ottanta, vi basti pensare alle dediche in diretta ai programmi delle emittenti locali, in cui ci si poteva lasciar andare a vere e proprie dichiarazioni d’amore o di semplice interesse, e alla possibilità di registrare le proprie canzoni preferite – anche previa richiesta – in un’era analogicissima in cui o ti compravi i dischi, o conoscevi chi ne era provvisto e imploravi per avere una copia su nastro, quando il tempo di riversamento tra vinile e cassetta era reale e duplicare gli album agli amici poteva diventare una bella e time-consuming rottura di maroni.

Poi ci sono stati programmi di culto grazie ai quali siamo riusciti a coltivare e mantenere vivi i nostri gusti di nicchia, a partire da Stereodrome o Stereonotte, questo fino a quanto il video ha ucciso definitivamente le star della radio, come cantava Trevor Horn, e tutti siamo passati alla tv. Prima i programmi di videoclip, poi le emittenti monotematiche musicali fino alla nascita della compressione mp3 che ha fatto piazza pulita. Il fatto è che la componente umana alla radio faceva la differenza. I bravi speaker e i dj fidelizzavano gli ascoltatori e, detto tra noi, non so se abbia fatto più danni alla radio l’avvento della dematerializzazione o i vari zoo di 105, cioè tutti quei programmi-monnezza in cui non c’è nessuna attenzione al contenuto e, in più, mettono solo musica di merda.

Non solo. Noi utenti evoluti di musica facciamo fatica a utilizzare la radio come sottofondo sonoro. Non so se avete mai provato, ma se vi cimentate nello zapping radiofonico come faccio io quando viaggio in auto non troverete una canzone decente nemmeno a pagarla, e vi assicuro che, nel mio caso, ascolto davvero di tutto. Preferisco così di gran lunga collegare il mio smartphone con i suoi 64 giga di mp3, curare personalmente la playlist più adatta o, nei casi limite, attivare la riproduzione random. Quanto alle voci della radio, non credo di perdere molto. I network commerciali divulgano solamente facezie senza contare che, ai tempi dei social, il connubio tra le stupidaggini pubblicate da noi gente comune e il pour parler che copre quei pochi secondi tra un pezzo di Sanremo e la nuova hit reggaeton possiamo anche risparmiarcelo. A parte qualche raro caso di resistenza al basso standard qualitativo, e non mi riferisco certo alle radio di finto rock che sparano ossessivamente il loro fastidioso jingle tra un pezzo e l’altro, la radio ai tempi del web è sempre più un’occasione persa per fare le cose diversamente dal resto. Peccato. Viva la radio e, soprattutto, stay tuned!

che cosa ci insegna il jazz

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Che nella vita è fondamentale essere capaci a improvvisare su uno standard comune in cui si sussegue ciclicamente la stessa sequenza di accordi.

siamo già alla quarta serata e nessuno si è ancora chiesto che cosa voglia dire “sanremo2020 startfine”

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Il bello di Sanremo è che, alla settantesima edizione, la concorrenza televisiva ha capito l’antifona e anziché riempire i palinsesti di fuffa, che tanto tutti guardano il festival, manda in onda trasmissioni tentacolari come armi di distrazione di massa. Come se, nel 2020, nessuno avesse un abbonamento Netflix, Sky o una connessione a banda larga per fare i propri porci comodi in rete. Per dire, mi sono capitati sotto mano Ken Loach, una sfida ai vertici del campionato A1 di volley maschile e persino un parterre interessante da Floris. Il fatto è che con Sanremo una bella fetta di italiani rimette le lancette indietro di vent’anni e si ritrova a seguire lo stesso programma in diretta insieme. La cosa fa un po’ tenerezza e se non fosse per i live tweeting potremmo fare finta di essere davvero ai tempi in cui facevamo le superiori e gridavamo al miracolo vedendo i Canton di “Sonnambulismo” scimmiottare i Kajagoogoo. In quello che sarà ricordato come l’anno dell’epidemia più epica dai tempi dei Lanzichenecchi e della discesa in piazza delle Sardine ho deciso di seguire la kermesse canora solo in differita, tanto finalmente la Rai si è decisa a pubblicare le singole canzoni sul canale Youtube così a chi non è realmente interessato a tutto l’ambaradan, o semplicemente preferisce coricarsi prima delle dieci come me, è sufficiente leggersi qualche minchiata sui social e poi buttare un occhio a quello che può risultare degno di nota.

Dalle foto che pubblicano i miei contatti vedo molte scollature femminili su vestiti dalla linea simile, per intenderci quei modelli che chi li indossa è costretto a sorreggersi con la mano libera dal microfono il top senza spalline ogni volta che si china, e a chi canta, galeotta fu la la smania di interpretare la canzone, succede spesso. A parte questo, c’è ben poco. Forse il pezzo di Levante ma si sa, c’è sempre il fattore del fascino che influisce su un giudizio oggettivo. La scenografia è claustrofobica, si sentono spesso chiacchiericci di fondo che non si capisce quale microfono sia rimasto acceso, Amadeus ha una narrazione troppo semplificata e banalizzante e dimostra di non conoscere il reale target socio-culturale degli ascoltatori della manifestazione (che sono quelli che lo guardano/non lo guardano per scrivere post come questo).

Discorso diverso per la serata delle cover dei successi delle precedenti edizioni che, ogni anno, è sempre la mia preferita. La mia reazione a caldo, quest’anno, è stata però quella di calcolare il totale dei brani cantati in settant’anni di storia, dividerlo per una media di ventiquattro cantanti a volta e ottenere la sostenibilità di questa trovata per i festival in futuro. Voglio dire, finiranno prima o poi le canzoni di Sanremo da coverizzare perché già nel 2020 hanno rotto il cazzo. Soprattutto, per regolamento, si dovrebbe evitare di riproporre “Un’emozione da poco” ogni volta. La canzone è una delle più belle, ma già dopo Nek e Paola Turci si era sfiorata la sovraesposizione. Inutile dire che la versione di quest’anno delle Vibrazioni è inqualificabile. Per il resto? Interpretando “Cuore matto” Piero Pelù è risultato patetico, il medley dei Pinguini un’occasione perduta che ci ricorda che non tutti possono permettersi di essere Elio e le Storie Tese, Diodato e Nina Zilli pessimi, la disarmonizzazione del ritornello di “Vacanze Romane” oltremodo sacrilega, senza contare che il connubio di timbri di Masini e Arisa può fare più danni dello scontro tra materia e antimateria, Achille Lauro e Annalisa scolastici, tutto il resto indegno di qualsiasi menzione. E poi basta con i rapper che attualizzano le strofe di pezzi stra-conosciuti e la voce femminile che interpreta il ritornello, riusciremo prima o poi a superarla ‘sta cosa?

E se siete capitati qui attirati dal titolo perché pensate che abbia la verità in tasca, avrete capito a questo punto di esservi sbagliati di grosso. Quando parte la pubblicità durante la diretta non si capisce bene cosa voglia dire “Sanremo 2020 startfine”, siamo già alla quarta serata e nemmeno io so darvi una spiegazione.

gente che va, gente che torna

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Mentre ci lascia Andy Gill dei Gang of Four ritornano i Psychedelic Furs con un nuovo singolo, preludio di un nuovo album. Richard Butler ha, da sempre, uno dei timbri di voce più straordinari e inconfondibili, alla pari di Robert Smith, Morrissey e Bowie. Sentite che bello. Speriamo che il nuovo disco sia tutto così.

è stato un tempo solitario

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Il giorno in cui mi è esploso per la prima volta il rock dentro io me lo ricordo benissimo. Avevo poco più di sei anni, era il duemila e venti, facevo la prima elementare e c’era stata una specie di epidemia di febbre e tosse per cui eravamo in dieci in classe. Nell’intervallo lungo dopo la mensa non sapevamo più a cosa giocare e il maestro aveva fatto il gioco del dj. A turno, ognuno di noi poteva scegliere una canzone da ascoltare tutti insieme. Potevamo scegliere qualsiasi cosa, l’importante è che non ci fossero parolacce in italiano. Il maestro, che nel digitale era un vero mago, aveva persino allestito sul computer una specie di ruota della fortuna con tutti i nostri nomi da far girare per il sorteggio. Quel giorno la scaletta, vista a posteriori, era stata vergognosa: il gatto puzzolone, Calypso di Mahmood, uno dei tanti Rovazzi fino a una improvvisazione senza capo né coda, un brano da tanto al mucchio con un solo di sax infinito. Avevamo finito il giro, cioè tutti avevano fatto la loro proposta, ma Alice, quella che quindici anni dopo avremmo battezzato Barbie Suora Laica e che già quel giorno stesso, ironia della sorte, aveva trovato in classe un mocassino marrone riconducibile alla celebre pin up in plastica della Mattel, aveva chiesto al maestro di scegliere qualcosa lui.

Il maestro avrebbe potuto agire di impulso per marcare la differenza con i suoi gusti mettendo i Cure, o i Joy Division, i Talking Heads, persino “Another Brick in the Wall” o un riempipista come “Slow Hands” degli Interpol. Invece – ma questo me lo ha confessato solo anni dopo – malgrado si trovasse in uno stato influenzale preoccupante (era fuori di testa, veniva pure con la febbre alta perché diceva che si sarebbe sentito in colpa nel caso avessero diviso la classe), è riuscito a concentrarsi qualche secondo per individuare il brano che più di ogni altro potesse costituire la sintesi del rock’n’roll. Quindi, senza troppi indugi, ha avviato Youtube e ha messo questo.

ci sono donne che sanno stare un passo indietro, ci sono uomini che sanno stare un passo avanti

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Hey you
Don’t watch that. Watch this!
This is the heavy heavy monster sound.
The nuttiest sound around,
so if you’ve come in the off the street
and you’re beginning to feel the heat.
Well, listen buster you better start to move your feet
to the rockinest, rock steady beat of Madness.