A metà anni 80 la 4AD costituiva quasi un genere a sé, con quel modo onirico di interpretare il soft-gothic e quelle voci – a partire da Lisa Gerrard ed Elizabeth Fraser – che facevano a gara a conquistare la mela destinata alla più eterea. Alcuni aspetti dell’evoluzione della new wave introspettiva che ha caratterizzato un periodo così fondamentale per la musica li troviamo in chiave post-pandemia nel nuovo lavoro di una band dei giorni nostri, artisti agli esordi ma dalle idee tutt’altro che confuse.
I Team Picture si definiscono “a 6 piece music outfit who live in the north of England”, probabilmente Leeds. Hanno pubblicato un mini-album dal titolo “Recital” nel 2018 e, a partire dallo scorso inverno, si sono messi al lavoro sul primo disco, “The Menace of Mechanical Music”, uscito in questi giorni per la Clue Records. Il loro sound è un moderno compendio di Cocteau Twins – alleggeriti dalla gravità degli effetti con cui la band di Robin Guthrie mandava in orbita le loro composizioni lontano dal mondo degli esseri fatti di carne e ossa – con un po’ di Sugarcubes e qualche eco di Prefab Sprout.
Per tenere a bada gli ascoltatori più nostalgici però è bene sottolineare quanto la musica dei Team Picture sia attuale, una sorta di Arcade Fire senza incursioni nel superfluo o di The Cure che ripercorrono la vita al contrario, come quel racconto di Francis Scott Fitzgerald. Vecchi esponenti del dream-pop che vivono nel corpo di gente che a malapena avrà venticinque anni. Facili reminiscenze derivanti dal continuo passaggio di microfono tra femminile e maschile, voci alternate che potrebbero essere strumenti come tutti gli altri, tanto sono rarefatte e musicali.
Il paradosso è che “The Menace of Mechanical Music” è anche il titolo di un saggio del compositore e direttore di banda John Philip Sousa, che dagli USA di inizio secolo scorso metteva in guardia contemporanei e posteri contro la minaccia nella musica fatta con le macchine. E, cento anni dopo, la proposta di un genere indubbiamente fuori dagli schemi come quello dei Team Picture ci rassicura. Nessuna intelligenza artificiale soppianterà quello spleen tipico di noi umani che ci fa sedere depressi davanti a un sintetizzatore – vi concedo anche una chitarra elettrica – a cantare i nostri dispiaceri esistenziali.
“The Menace Of Mechanical Music” è un disco che dovete letteralmente consumare. Ogni traccia contiene una sorpresa: la languida matematica di “Baby Rattlesnake”, gli acuti femminili che si fondono negli archi artificiali di “Sleeptype Auction”, gli echi di Kate Bush di “Flower Pots, Electric Beds”, il folk-prog circolare di “this is the”, l’erotismo di “Handsome Machine”, il dark di “Compartment(s)”, il post-country di “(Diffuser)”, il synth-pop di “Rock Hudson Tragedy”, i Cars di Ric Ocasek di “Keep Left”, la melodia soul di “Slowest Hype”, che mai penseresti di trovare in un gruppo come questo, per finire con il folle spoken-word di “Quit Reading”.
In poche parole, l’impressione è che i Team Picture abbiano svuotato tutte le bottiglie di musica liquida degli scorsi quarant’anni nella loro sala prove per lasciarla evaporare come si fa come quei diffusori per ambienti, e respirarla con l’ausilio di strumenti elettrici (sempre puliti) ed elettronici, a supporto di voci sopraffine. “The Menace Of Mechanical Music” è indubbiamente una delle novità più convincenti di quest’anno.
La pressione sociale e le aspettative sul ruolo della donna alimentano la connotazione di uno stereotipo femminile difficile da sradicare nell’opinione comune. Non a caso, la donna che non sa stare al proprio posto – siamo contemporanei di gente del calibro di Pillon, non dimentichiamocelo – si complica la vita, senza contare i casi in cui la vita le viene sottratta a suon di ceffoni del marito/compagno/fidanzato prima e dai ceffoni dei media (che parteggiano spesso per il marito/compagno/fidanzato) dopo. Anche se qui parliamo di musica, non si è mai fuori luogo ricordando che lo scorso anno, in Italia, e non su Marte, sono state uccise 95 donne dal partner o dall’ex, quasi una ogni tre giorni.
Spero di non essere andato fuori tema a proposito di “Kitchen Sink”, il nuovo long playing di Nadine Shah. Non si parla espressamente di femminicidio ma è un disco che depotenzia la prospettiva maschile e ne mette in discussione la leadership trattando temi che conosciamo bene ma da una prospettiva femminile e solo con la poesia. Il fatto è che, in una relazione, è proprio questo il punto di non ritorno, ciò che accende la follia omicida del’uomo.
“Kitchen Sink” offre la possibilità di riflettere su una società che pretende cose assurde. Le prime due che mi vengono in mente? La donna acquisisce il cognome di un uomo per diventarne proprietà o deve fare dei figli per raggiungere l’obiettivo per cui è stata progettata. Oggi la questione femminile è di gran lunga la più urgente. E il fatto che il potere, l’economia e la religione siano maschili è un problema, con l’aggravante che la conduzione del sistema lascia fortemente a desiderare e, nonostante ciò, non sembra sussistere abbastanza margine per un cambiamento.
Dare il più possibile spazio a una voce critica sullo stato delle cose potrebbe sembrare, a questo punto, un contentino per risolvere il mio senso di colpa di appartenere al genere maschile. Invece non è così, ve lo assicuro, e per dimostrarlo facciamo finta che questa recensione cominci da qui. L’attenzione che “Kitchen Sink” merita non c’entra nulla con una strategia di quote rosa. Il nuovo album di Nadine Shah è a dir poco straordinario, e ora vengo al punto.
C’è una imprescindibile e a tratti radicale coerenza di fondo nella discografia di Nadine Shah. Il suo stile è sempre raffinatissimo senza compromessi, un’impressione restituita da fattori che, giunta al quarto album, ormai possiamo considerare una costante della sua musica. Una vocalità originalissima grazie alla quale l’artista inglese sfrutta potenzialità tecniche di matrice jazz con un timbro di una gelida cupezza degna di Siouxsie. Parole taglienti come schegge di bombe compositive esplose in prossimità delle coscienze degli ascoltatori. Timbriche che plasmano il meglio del meglio della musica in un genere tutto suo, per confezionare gusci perfettamente plasmati intorno al suo songwriting.
Sono passati appena cinque anni da quando me ne sono innamorato, studiandola sul palcoscenico nel video di “Fool”, stretta nel suo post-punk a cantare il suo disprezzo verso un deludente essere umano tutto preso a comporre rime scopiazzando Nick Cave e Jack Kerouac. Tre da quando, invece, Nadine Shah spediva cartoline da destinazioni improbabili per trascorrere vacanze molto poco ordinarie. Paesi meno fortunati del nostro e del suo da cui scappano, rischiando la vita, persone meno fortunate di me e di voi, protagoniste di storie dal finale tristemente ingombrante.
Oggi Nadine Shah è una donna adulta in un man’s man’s world che non smette di dare importanza alla sua età e in cui si presume che, oltre la puericultura e il cucchiaio d’argento al servizio della famiglia, non ci siano vie alternative alla realizzazione individuale femminile. Non siamo molto cambiati dai tempi rappresentati dall’estetica vintage dell’artwork di “Kitchen Sink”, un rimando a un periodo in cui l’unica stanza dei bottoni a cui una donna poteva aspirare era quella stipata di elettrodomestici e robot da cucina.
“Kitchen Sink” è un compendio di storie, la sua e quelle di moltissime altre donne con esperienze differenti ma dalla stessa matrice sessista. Un album musicalmente ineccepibile e a tratti volutamente ostico, surreale e grottesco. Per dire, appena è partito il tema di “Club Cougar” con il sax e quella specie di tastierona/sintetizzatore all’unisono e il ritmo alla “Slave to Love” (per dare qualche coordinata di riferimento, siamo alla traccia numero uno) al primo ascolto ho pensato alla faccia che farebbe Nadine Shah se qualcuno, per scherzo, si cimentasse a sostituire quella melodia con una sezione di archi, trasformando la canzone in un brano un po’ sexy-pop-retro di una Lana Del Rey qualunque. L’intento respingente e melodrammatico, tanto quanto il testo, è perfettamente riuscito.
E nell’insieme “Kitchen Sink” riprende e completa la varietà di stili di “Holiday Destination” attraverso composizioni e arrangiamenti eterogenei e completamente al servizio dei testi ospitati: il ritmo spezzato di “Ladies For Babies (Goats For Love)”, pronto ad accendere l’elettricità nel ritornello, l’ostentata cadenza di “Buckfast”, i vuoti di “DillyDally” contrapposti alla suadente completezza ritmica di “Trad” (la traccia migliore dell’album), gli ammiccamenti blues della titletrack, i voli spinti dal vento alt-folk di “Kite”, l’ebbrezza dark di “Ukrainian Wine”, la pungente quanto scarna “Wasp Nest”, per finire con la sguaiata ironia di “Walk” e la conturbante “Prayer Mat”, perfetta nel suo compito di chiudere l’album.
Il fatto è che “Kitchen Sink” è un disco tortuoso dotato di una personalità di cui è difficile essere all’altezza e impossibile da spiegare con parole semplici. E, da uomo, parlare della musica di Nadine Shah può risultare un’impresa inaccessibile. La complessità delle cose che pensa, scrive e suona può mettere in soggezione, far paura e aprire una falla nella radicata consapevolezza del ruolo dominante. Ma, come assicura lei stessa, nell’album non c’è solo crudeltà. Seguendola sui social network si ha l’impressione che di persona sia meno intransigente delle sue canzoni o, per lo meno, conceda una seconda possibilità. E, se così è, ti prego Nadine, dimentica tutto quello che ho scritto qui.
La storia dei Depeche Mode è costellata di pietre miliari, momenti di svolta, azioni di rottura e vere e proprie resurrezioni. Possiamo elencare, a memoria, il forfait di Vince Clark, l’ingresso di Alan Wilder, l’introduzione dell’Emulator che affiancò nel loro sound il campionamento digitale ai synth, il momento buio di Dave Gahan, l’uscita di Alan Wilder, il riconoscimento mondiale nel nuovo secolo come una delle principali icone di quello precedente. Alti e (a dire il vero pochi) bassi che collocano la band di Basildon nell’olimpo della musica che bene o male piace a tutti, in tutte le generazioni. Fate una prova: salite in macchina, accendete la radio e, lungo un viaggio di un’oretta, passando da una stazione all’altra, state pur certi che almeno una canzone degli U2, una dei Queen e una dei Depeche Mode da qualche parte la sentirete.
Uno dei fattori chiave di questo successo va ricondotto principalmente a due canzoni dei Depeche Mode, “Personal Jesus” ed “Enjoy the Silence”, rispettivamente traccia 3 e traccia 6 di “Violator”, disco di cui quest’anno ricorre il trentennale. E il fatto che, “Just Can’t Get Enough” a parte, il più noto gruppo di synth-pop sia annoverato tra i padri fondatori della musica per le masse grazie a due canzoni costruite su riff di chitarra, è paradossale. Uno smacco senza precedenti per i seguaci dell’elettronica.
D’altronde il vero punto di non ritorno dei Depeche Mode è stato quando qualcuno ha messo in mano a Martin Gore quella cazzo di chitarra che, da allora, imbraccia in studio e live con orgoglio. A onor del vero, e a sua discolpa, ci tocca ammettere che Martin Gore la suona come suonerebbe un synth, ma non mi è chiaro se tutta questa indulgenza nei suoi confronti derivi dal fatto che considerare i Depeche Mode dalla nostra parte, quella dei suprematisti tastieristi, ci fa più che comodo e nessuno ha voglia di cedere al rock un pezzo da novanta come loro. A chi dovremmo lasciare il posto sul gradino più alto del podio? Ai Kraftwerk e i loro notebook sul palco che li fanno sembrare quattro (anzi tre, purtroppo) impiegati in ufficio alle prese con le tabelle pivot di Excel? Ai New Order con i loro ostinati eccessi di cassa in quattro degni di un cocoricò qualunque? O a quegli inutili poppettari melensi dei Pet Shop Boys e al loro discutibile inno dei frequentatori del Burghy di Piazza San Babila?
E poi non è da tutti confezionare un album con due brani come “Personal Jesus” e “Enjoy the Silence”. Due composizioni che, per la loro essenza guitar-based, colpiscono immediatamente perché così accattivanti e azzeccate da poter essere eseguite da qualunque formazione priva di tastiere, sempre che le formazioni prive di tastiere possano avere una dignità.
Anzi, sono così belle proprio perché l’elettronica di cui sono farcite è concettualmente marginale, in secondo piano rispetto al nucleo blues-gospel della prima e al temperamento da ballad rock della seconda. Non a caso, “Personal Jesus” la ritroveremo re-interpretata magistralmente da Johnny Cash, uno di quegli esperimenti in cui la copia supera di gran lunga, in quanto a bellezza, l’originale. Oppure provate a digitare, come chiave di ricerca, “Enjoy The Silence” + cover su Youtube e prendetevi almeno una settimana di ferie per ascoltarle tutte. Almeno una versione per ogni genere, a partire dal revamping nu-metal di Mike Shinoda. Ci sono stati anche tributi ufficiali con brani dei Depeche Mode eseguiti da band tradizionali, ed “Enjoy The Silence” – pensate alla versione dei Failure presente nella compilation “For The Masses” con gente del calibro degli Smashing Pumpkins – ha una perfezione compositiva da risultare oggettivamente più di una spanna sopra sempre, in qualunque contesto.
Con “Violator” i Depeche Mode furono anche precursori delle più moderne tecniche di marketing non convenzionale. Il lancio di “Personal Jesus” fu preceduto da una campagna di teasing con manifesti pubblicitari completamente anonimi, posizionati nelle città del Regno Unito, che esortavano i lettori a chiamare il proprio Personal Jesus. Chi ci cascava, al posto della voce del salvatore poteva ascoltare – a sua insaputa e in anteprima – il nuovo singolo della band.
Se ascoltate integralmente “Violator” – cosa che non ho dubbi abbiate fatto milioni di volte dal 1990 ad oggi – vi accorgerete però che un giudizio basato solo ed esclusivamente sulle due super hit di cui sopra è riduttivo e fuorviante. Come gli altri album della band, la tracklist è saggiamente spartita tra le voci dei due cantanti, da sempre le due anime dei Depeche. In quota Gahan, che con il suo timbro graffiante interpreta il ruolo del master, oltre ai due singoli ci sono la splendida “World in My Eyes” (standard depechemodiano fino nel midollo, con una forte vena di ricerca in formule innovative, una sorta di antesignano delle ritmiche dubstep dei decenni successivi), la seducente “Halo”, un vero electronic/rock-blues come “The Policy of Truth” e la ruvida “Clean”, con quella linea di basso all’inizio che, fino a quando non parte la batteria, sembra un campionamento di “One of These Days” dei Pink Floyd.
I palati più romantici possono invece sentirsi soddisfatti grazie all’ugola eterea (e servant) di Martin Gore, in “Violator” impegnato in “Sweetest Perfection”, la splendida “Waiting For The Night” e l’ispirata “Blue Dress”, una sfumatura pantone di outfit diversa rispetto a “Dressed In Black” ma basata sullo stesso tempo in sei ottavi.
L’ascolto di “Violator” nella sua interezza è una delle tante prove che, nel 1990, esattamente trent’anni fa, gli ottanta ormai erano fuori tempo massimo e i Depeche Mode, che già si erano liberati del synth-pop dall’album precedente e dai bagni di folla americana di “101”, puntavano a ben altri obiettivi che tenere un multipista a bobine sul palco e a giocare al noise industriale percuotendo in playback lamiere metalliche vestiti in pelle nera.
“Violator” risulta, ad oggi, il disco più venduto dalla multinazionale di Andrew Fletcher, con oltre 15 milioni di copie in tutto il mondo e con 3,9 milioni solo negli USA. Presto, oltre al tradimento di Martin Gore con la sei corde, il gruppo opterà addirittura per un batterista vero sul palco, infliggendo la pugnalata definitiva ai filologi della materia, cresciuti con una sensibilità da “Get The Balance Right!”.
Ma sapete come funziona, nella vita. Siamo giunti più che cinquantenni alla ricorrenza di un disco che, ai tempi, avevamo ascolticchiato giusto perché “Enjoy The Silence” lo mettevano persino i dj più dozzinali e, certe sere, risultava impossibile sottrarvisi. Oggi, però, sull’onda emotiva del passato, la rosa rossa in campo nero della copertina di “Violator” è più che una bandiera con cui, fieri e orgogliosi, ci arroghiamo la conquista e la colonizzazione di un vero e proprio continente culturale. Un’estetica globale basata sulla computer music di cui i Depeche Mode risultano ad oggi i campioni insuperati, e a cui qualunque smanettone dotato di un virtual synth craccato non può non esimersi dal dimostrare la riconoscenza che merita.
Credo che la musica di Ennio Morricone rifletta perfettamente l’idea di colonna sonora e non lo dico perché è morto ed è imprescindibile che ogni pubblicazione gli debba tributare un coccodrillo. Oggi una colonna sonora per un qualunque video costa, nel più oneroso dei casi, cinquanta dollari. Avete mai notato come le immagini e le illustrazioni per la comunicazione e la pubblicità siano spesso uguali? Con lo stesso modello di business ci sono siti dove si possono acquistare musiche e, a meno di non sborsare cifre più alte per una scelta in esclusiva, non è raro trovare lo stesso brano per la pubblicità della mozzarella e dell’assorbente interno. D’altronde, chi lo nota? E anche se qualcuno ci facesse caso, non sarebbe un problema. Siamo pieni di cose tutte uguali, un’emozione clonata in più che differenza fa?
Il valore aggiunto della colonna sonora è quello di reagire chimicamente con la parola, con il gesto o con l’immagine e sprigionare al massimo tutto il potenziale emotivo di ciò a cui si accompagna. Per questo è importante comporre musiche ad hoc, nate proprio da ciò che il compositore vede nella parola, nel gesto e nell’immagine che sta per commentare. Il fatto è che poi la musica originale va pagata e il budget, spesso, non lo consente. Quindi oggi parlare di colonne sonore è davvero fuori contesto come tante altre cose che non esistono più.
Il modo più appropriato per celebrare degnamente il maestro Morricone appena scomparso è restituire dignità alla musica e all’importanza che ricopre nella nostra vita, perché la musica è la colonna sonora della nostra vita e il merito è solo di colui che la crea, la arrangia, la suona, la interpreta. Possiamo decidere anche che non possiamo più permettercela, e allora è meglio finirla qui.
Ho anch’io un aneddoto su Morricone da raccontare. Una volta un cliente dell’agenzia di comunicazione in cui lavoravo, e nemmeno uno dei più deficienti che ho avuto, voleva che contattassimo Morricone per chiedergli di comporre la sigla di un evento aziendale, una sorta di baracconata organizzata come kick-off, avete presente la situazione. Voleva che chiedessimo a Morricone di comporre la colonna sonora di un evento e che il maestro Morricone in persona si prestasse ad eseguirla sul palco, con tanto di orchestra.
Se avessi avuto le palle gli avrei detto quello che meritava, e cioè che era un cretino a pensare non solo di permettersi Morricone, ma anche che uno come Morricone fosse disponibile a comporre e dirigere la sigla di un kick-off di un’azienda come la sua. Ma nel marketing piace sognare in grande, per poi, al momento dei conti, rendersi conto di potersi permettere a malapena la musica da cinquanta dollari sul sito dove le comprano tutti, per poi ascoltarla come jingle della pubblicità della mozzarella o degli assorbenti interni. Tanto nessuno ci fa caso.
C’è stato un momento in cui il reggae era un genere molto di moda, grazie anche a Bob Marley che sarebbe morto di lì a poco. Io facevo le medie e i miei amici sfoggiavano berretti con i colori della bandiera etiope creati a mano dalle loro madri o nonne. Anche mia nonna aveva la passione degli aghi e della lana, così quando le chiesi un berretto rasta non ci mise molto ad accontentarmi. Il fatto è che non fui probabilmente così preciso nei dettagli e diedi per scontato che il berretto sarebbe stato a cupola, passatemi il termine. Invece mia nonna si ispirò ai berretti da sciatore e il risultato, fatto a punta, fu un disastro. Hai mai visto un giamaicano sugli sci?, avrei dovuto dirle.
Quarant’anni dopo ho chiesto a mia suocera novantenne, ma in gambissima, di ricavare una mascherina anti-covid da una mia vecchia maglietta un po’ rovinata di “Unknown pleasures”. Le ho mostrato il disegno sul davanti della t-shirt e mi ha confortato sapere che ci fosse sufficiente tessuto per ricavarla. Probabilmente mia suocera non è una fan dei Joy Division, malgrado ai tempi del loro blasonatissimo disco d’esordio fosse più giovane di me nel momento in cui le ho fatto questa richiesta da adolescente. Non essendo lei propriamente una dark ha utilizzato lo scampolo della maglietta con il disegno ruotato di 90 gradi in senso anti-orario, con le celebri pulsazioni elettromagnetiche messe in verticale anziché orizzontale, forse pensando che la disposizione non avesse importanza. Ho dato per scontato che avrebbe realizzato la mascherina come la maglietta ma forse di trattava di un’istruzione necessaria.
Malgrado ciò, non ho rimproverato mia nonna ai tempi e né farò notare l’errore a mia suocera oggi. Dev’essere una prerogativa delle persone anziane quella di non capire l’amore per il rock dei giovani come me e la serietà con cui prendiamo queste cose. Probabilmente, quando sarò nonno io – se mai lo sarò – non avrò problemi di questo genere intanto perché non so lavorare a maglia o con il cucito e poi perché la mia competenza musicale non lascerà spazio a errori così grossolani. Posso stare tranquillo: la sensibilità dei nipoti che avrò non è a rischio.
Giunta al secondo album, la band di Chicago mescola in un nervoso concept le ispirazioni de “Il mondo nuovo” di Huxley con la stessa matrice post-punk del primo disco, per un risultato convincente sotto tutti i punti di vista.
“Il mondo nuovo” è uno di quei romanzi di cui abbiamo aspettato per anni un adattamento per una serie Netflix o Amazon. La distopia è pane quotidiano per i binge-watcher, pensate al successo di trasposizioni di storie come “La svastica sul sole” o “Il racconto dell’ancella”. Ma mentre è prevista per metà luglio la prima puntata di “Brave New World” su SkyOne in UK, a noi che non abbiamo sottoscritto l’abbonamento tocca accontentarci dell’ispirazione che il più celebre libro di Huxley può dare alla musica. E così, dopo gli omaggi degli Iron Maiden e, dalle nostre parti, di “Fetus” di Battiato, è la volta dei Deeper, formazione di Chicago giunta al secondo album dal titolo “Auto-Pain”.
La linea del nuovo disco è molto coerente con l’album omonimo d’esordio, un nervosissimo e visionario post-punk reso con suoni elettrici e qualche incursione nei sintetizzatori e nei tappeti di tastiere. Sono le chitarre a suonare loop, frasi e riff con suoni puliti e sfuggenti.
Per usare i soliti paragoni con i padri della new wave, siamo dalle parti dei Gang of Four e dei Wire misto a un pizzico della geometria dei Talking Heads, con un timbro vocale che in alcuni passaggi ricorda quello di Robert Smith. Non lasciatevi però ingannare dalle similitudini, chi scrive di musica le sciorina un po’ per farsi capire ma, soprattutto, per tirarsela con la sua inutile cultura rock. Ogni band ha una storia sofferta a sé e merita di essere ascoltata. I Deeper, a cavallo tra i due dischi, hanno perso il chitarrista Mike Clawson. Il genere che suonano incarna perfettamente questo disagio e non c’è sostanza euforizzante più della loro arte, altro che la soma che Huxley spaccia nel suo best seller.
Il risultato è un disco ricco di spunti, uno di quei long playing in cui, a ogni canzone, si ha l’impressione di voltare pagina in una raccolta di racconti, più che in un romanzo. “Esoteric” e “Run” ci danno il benvenuto nel mondo dei Deeper, due brani da cui traspare la volontà di mettersi in mostra con tutte le stranezze di cui gli artisti sono capaci, qui però rilasciate con la giusta misura e un temperamento molto controllato.
Uno stile che però si spoglia di tutto questo lecito rigore già con il terzo brano, “This Heat”, una canzone che sembra uscita dalla b-side di un singolo tratto da “Three Imaginary Boys”. “Willing” è palesemente no-wave, mentre “Lake Song” vira il registro dell’album verso i toni dark. “Spray Pint” e “4U” risaltano per quel modo isterico di suonare la chitarra elettrica con brevi strappi ripetuti a loop, stile che piace molto ai seguaci del post-punk e fortemente di moda tra gli strumentisti a sei corde che non se la sentono di essere scambiati per dei rockettari qualsiasi.
Con “V.M.C” ci spostiamo al 1985 di “The Head On The Door” ed “Helena Flowers” passerà alla storia per la trovata di interrompere il brano a metà con un applauso da sala da concerto. Seguono la straordinaria “The Knife” e, per chiudere, l’ipnotica “Warm”.
Confermando il posizionamento dichiarato con il primo disco, i Deeper dimostrano di essere una band dalla forte personalità. “Auto-Pain” non ha sbavature, è divertente e intrigante allo stesso tempo. Serio e faceto, riflessivo e disordinato, non c’è dubbio che dentro a questo secondo disco ci sia della stoffa e che risulti frutto di un gruppo pronto a fare il salto di qualità verso qualcosa di ancora più convincente.
Quello dei The Wants è un ottimo esordio e “Container” un disco come quelli che si facevano una volta. Un commento non molto appropriato per una band che suona un genere tutto sommato derivativo. La sostanza però è questa, e il risultato è sorprendente.
Se avete vissuto la quarantena da Covid-19 serrati in casa, oltre a comportarvi da cittadini coscienziosi, vi sarà risultato più facile trovare uno strato in più di riparo da qualunque contagio (meglio abbondare in sicurezza) negli agi della vostra comfort zone preferita. Per chi come me si è nascosto dietro ai bastioni in plexiglass del post-punk, quello dei The Wants è stato uno dei lanci di generi di sopravvivenza più riusciti di tutto il lockdown.
I The Wants vengono da New York e suonano bene la musica di fine 70/primi 80. Rock-wave, disco-punk, new wave, chiamatela come volete tanto non c’è genere più attuale e nessuno mi convincerà del contrario. Della band fanno parte Madison Velding VanDam (voce e chitarra) e Heather Elle, entrambi in forza a un altro gruppo del circuito indie newyorkese ma molto meno bravi, i Bodega, con in più Jason Gates dietro alla batteria.
“Container” è un disco come quelli che si facevano una volta, intendo quando Wire, Suicide e Cabaret Voltaire (citati qui tutt’altro per caso) erano sulla cresta dell’onda alternativa. Un tempo in cui i long playing erano concept, prima che materiale da riempire il più possibile di canzoni. L’approccio dei The Wants è interessante perché conferisce eguale dignità a musica e voce, brani strumentali e cantati, alternati in un modo intelligente e audace. Una tracklist pensata per aumentare la curiosità per ciò che riserva il brano successivo, se quello che stiamo ascoltando è così trascinante.
Mi riferisco al modo in cui la rumorosa “Ramp” chiama la geometrica title track “Container”, un workspace creativo in cui i Devo collaborano con i Sonic Youth. E al linguaggio macchina di “Machine Room” che sanifica l’ambiente da ogni residuo sonoro per la travolgente “Fear My Society”, l’inno della modernità suonato come avrebbero fatto i Talk Talk. A parte qualche parola declamata nel ritornello, possiamo considerare anche “The Motor” uno strumentale synth-wave, seguito dal consueto intermezzo elettronico.
Si ricomincia con qualcosa di più melodico subito dopo con“Ape Trap”, in quota dark-wave questa volta, grazie al riff di chitarra che gioca su un intervallo di semitoni strettissimi. “Waiting Room” è la sala d’aspetto di “Clearly a Crisis”, un funk-punk dal groove rallentato, che lascia il posto alla nervosissima “Nuclear Party”. Per “Hydra” possiamo tirare in ballo i Chameleons, ma giusto per farvi capire di cosa i The Wants sono capaci e cogliere le loro numerose sfumature, caratteristica confermata dalla vena industrial del finale di “Voltage”.
Se non vi siete persi lungo questi cambi di direzione repentini, le canzoni fatte e finite non sono così tante ed è un bene, per un genere che necessita comunque della massima concentrazione in fase di ascolto. E se riuscite anche a ballarlo, tanto meglio per voi. Al netto delle incursioni nel noise artificiale, l’esordio dei The Wants è una piacevolissima sorpresa in questo nefasto anno bisestile. Le loro performance dal vivo disponibili in rete, inoltre, restituiscono l’impressione di una band vera composta da strumentisti che mettono la tecnica al servizio dell’originalità. Artisti da seguire con interesse che speriamo di vedere in concerto anche dalle nostre parti, nel breve periodo.
Per esperienza posso assicurarvi che non vi sia nulla di più divisivo in una coppia del progressive. Sul jazz si può litigare e il vostro/la vostra partner può offendervi dicendo che ascoltate musica da vecchi. Ci sta. Se siete metallari mi metto dalla parte lesa, perché non potrei vivere mai a fianco di una persona che ascolta un genere tanto kitsch. Mettere un disco di progressive invece è come dire che si ha voglia di litigare. Il vostro/la vostra partner si sentirà tradito/a di fronte a una scelta così scellerata. Non avete idea di quante crisi sono nate al non-ritmo di una canzone dal tempo dispari.
Ma c’è di peggio, perché flauti, organi hammond e composizioni strumentali da venti e passa minuti, quello che possiamo ricondurre all’idea che la gente tra virgolette normale ha del progressive, equivale a quando portate in casa, su dalla cantina, un cimelio di un’epoca che non c’è più con tutta la sua puzza di muffa proprio mentre il vostro/la vostra partner ha appena versato nel diffusore di aromi la sua essenza preferita. Vi sfido così a mettere “Discipline” dei King Crimson, un meraviglioso quanto inspiegabile ibrido che riunisce, in una manciata di tracce, la no wave dai tratti di peggiore incomunicabilità con la vocazione estremista e isolazionista del progressive. Divorzio assicurato.
E, di fronte al giudice o, nel migliore dei casi, al cospetto di un buon analista in una seduta di terapia di coppia, pentiti di esservi lasciati tentare da quel disco dalla copertina così ostica, punterete il dito contro Adrian Belew e Robert Fripp, innanzitutto. È tutta colpa del loro modo presuntuoso di incrociare le chitarre. Ve la prenderete con le linee vocali completamente fuori di testa e la pesantezza e l’oscurità dei testi. Tirerete in ballo quel cazzo di Chapman Stick di Tony Levin o il modo di andare per la sua strada, indipendentemente dal contesto, di Bill Bruford. Altro che bestie di satana o dischi suonati al contrario. Qualcuno deve aver sovrapposto per errore le tracce di “Red” e di “Remain In Light” e ha evocato l’anticristo in persona.
Ma, su tutto, chiederete i danni per avervi rovinato la vita a “Indiscipline”. “Quando è iniziato il brano ho avuto paura che mio marito/mia moglie mi uccidesse”, vi sentirete dire. Sarete accusati di aver oltraggiato il comune senso dell’ordine e della regolarità, di aver traviato menti alla follia nell’impossibilità di comprendere il principio e la fine di un brano e di contare prima i quarti poi gli ottavi e persino i sedicesimi per riportare una canzone a un tempo conosciuto. Si ricorderanno persino di quella voce allucinata che, dal nulla, parlava di una cosa incomprensibile, frutto di ore di impegno, da portarsi in giro, da osservare, in grado di coinvolgere. Un mantra da ripetere sotto stress. Una sensazione che, alla fine, piace. Forse un pezzo che parla del pezzo in sé. Una sega mentale.
Ma, anche se trascorrono gli anni, il culto pagano per “Indiscipline” non invecchia e il suo principio attivo resta sempre maledettamente nefasto. La gang colpevole della strage si ripresenta in formazioni diverse, si succedono componenti, si separano le vite, il passato si fa sempre più indistinto.
Fino a quando incontri per caso, decenni dopo, il tuo/la tua ex. Gli/le chiedi di salire a bere qualcosa e, mentre lui/lei contempla le foto sul camino della nuova vita che ti sei fatto dopo che ti ha lasciato/a, vai su Youtube e metti a tutto volume la versione di “Indiscipline” dei King Crimson tratta dal “Live in Mexico City” del 2017, quella con i tre batteristi davanti. Vendetta è compiuta.
A ridosso del ventennale di “Turn On The Bright Lights” prende il via il nuovo progetto parallelo di Paul Banks, un disco in cui riesce difficile far finta che dentro non ci sia la voce del cantante degli Interpol.
Un bel referendum per abrogare la legge sul divorzio nella musica vedrebbe il mio sì convinto. Non avrei dubbi: che bisogno c’è di cercare nuovi stimoli altrove quando basterebbe impegnarsi un po’ di più con le persone con cui ti sei promesso melodie eterne? E poi, ai fan, non ci pensa nessuno?
Noi democristiani del rock siamo sempre lì a drammatizzare e, appena uno come Paul Banks decide di prendersi una boccata d’aria, addirittura con un ex compagno delle superiori, diamo a musicisti del calibro di Josh Kaufman degli sfasciafamiglie. Completa il threesome alla batteria Matt Barrick, un altro con un rapporto in stand-by alle spalle, quello con i The Walkmen. Il tutto a poco più di 24 mesi dai primi vent’anni di connubio, l’esordio sulla lunga durata dell’ex quartetto newyorkese, l’intramontabile “Turn On The Bright Lights”, l’archetipo della new new-wave.
Ma non c’è cattivo gusto nei Muzz, semmai un nome un po’ così, che a noi non anglofoni sembra molto meno altisonante di Interpol. Lasciamo allora che questa pausa dalle cose importanti abbia la risonanza che merita. D’altronde succede a tutti i cantanti, quando invecchiano, di sentirsi in dovere di tirare il freno a mano e dimostrare al mondo che sono in grado di essere delle persone affidabili e rassicuranti. Le regole sono sempre le stesse: staccare il distorsore, mettersi comodi, imbracciare strumenti acustici. Ed è quello che succede anche nei dodici brani che compongono questo primo album dei Muzz, una dozzina di ballad che ti immagineresti a suonare e cantare per far addormentare un neonato alla sera, dopo una giornata di lavoro, ma che ti fanno crollare prima di lui.
Scherzo, eh. Il disco è un bel disco, ed è una convinzione che matura brano dopo brano. Malgrado il titolo, “Bad Feeling” è la prima traccia e ti fa sentire bene. Con “Red Western Sky” il campo si apre su un panorama visto dal finestrino in un viaggio coast to coast, complici gli arrangiamenti di tromba e trombone che si distendono come nei brani dei The National in cui, dal vivo, sostituiscono gli archi – difficili da gestire sul palco – con i più maneggevoli e trasportabili ottoni.
La stessa sensazione si ha con “Patchouli” ma a fari spenti, davanti a un fuoco, con intorno la prateria, prima di infilarsi nel sacco a pelo. “Everything Like It Use To Be” e “Broken Tambourine” danno la conferma che il baricentro dell’ispirazione è ben distante da ciò a cui siamo abituati ad associare la voce di Banks che, nel suo passato solista, non aveva mai così spudoratamente abbandonato la causa per darsi all’americana.
“Knuckleduster” mantiene la matrice acustica del disco ma aggiunge una tacca di cattiveria al mood. Un brano in cui si coglie qualche reminiscenza di quando i The Walkmen facevano da colonna sonora a The O.C. E su “Chubby Checker”, forse il pezzo più bello dell’album, si potrebbe persino ballare un po’. Bello il tappeto d’organo sotto, vero? C’è persino spazio per un po’ di bossa con “How Many Days” ma poi, intravista la destinazione finale, il disco rallenta bruscamente nelle ultime tre tracce, per fermarsi definitivamente al capolinea con l’ultima, “Trinidad”.
“Muzz” è un album nell’insieme piuttosto interessante, una meritata scappatella compositiva per un artista che dimostra di avere ancora molto da dire e da suonare. Il problema è insito nella maledizione/benedizione dell’avere un timbro unico e riconoscibile come il suo. Il rischio è che un supergruppo come i “Muzz”, ascoltati a occhi chiusi e senza sapere niente, sia scambiato per gli Interpol che fanno alt-country, e allora vale tutto. Ci sarà prima o poi una versione reggae degli Interpol, o una versione Gipsy Kings, perché no. Dipende tutto da quello che vorrà fare Paul Banks in futuro.
Sono stato nominato da una mia accanita quanto invisibile lettrice a pubblicare, in 365mila giorni, 365mila canzoni che hanno un impatto deprimente su di me, mi mettono malinconia o tristezza, mi mandano in paranoia – come dicono i giovani d’oggi -, mi fanno piangere e mi ricordano che la musica è bella solo quando tocca le corde della commozione, quanto butta giù di morale, quando soddisfa il lato delle frustrazioni umane e getta nello sconforto. Mi è stato chiesto di pubblicare il video, nessuna spiegazione e nominare ogni giorno una persona che farà, se ne ha voglia, la stessa cosa. Nomino così lo sconosciuto scellerato che utilizzato “The year of the cat”, che è il brano che più di ogni altro mi ricorda quando ero bambino, per musicare un carosello di foto dello stabilimento balneare in cui ho trascorso numerose estati da adolescente. Vaffanculo, ho bagnato di lacrime la tastiera del pc nuovo.